lunedì 6 dicembre 2010

New Town

La città era percorsa dalle sirene. Da nord a sud, il mostro che sedeva sulle due sponde del fiume Colo era scosso come una bestia in fin di vita: lamenti sulle rive, come lungo i margini di una ferita, e poi più su, verso le colline, verso il parco che chiamano del Poggio, chilometri a perdita d'orecchio uniti in un'unica sonora agonia. Attorno a noi si rivelava quella che un tempo era stata la capitale del mondo libero, trasformata in una notte nella bocca di un pugile di terz'ordine: ruderi sghembi, ruderi cariati dal terremoto mordevano il cielo, senza forza cercavano di addentarlo, in un ultimo disperato tentativo di ricominciare dal sogno di Babele lanciavano la loro scalata alle enormità che li sovrastavano. Era, quella, la Babele che avevo conosciuto molti anni prima, in fondo: una città senz'anima, una città destinata alla distruzione per la sua assenza di identità, per quello che nei miei libri delle scuole elementari definivano il meltin' pot, un enorme calderone nel quale si fondevano formaggi francesi e cagli indiani, insipide pietanze cambogiane e piccanti sapori africani.
Era cominciata in modo simile, la distruzione. Lo raccontavano le cronache di quel giorno: non una sirena, ma un tintinnio perfettamente distinguibile s'era udito nel primo pomeriggio, e poi la terra aveva preso a tremare. Una scossa, poi un'altra, poi una terza, finché prima che fosse sera la città era stata devastata dalla più lunga e potente, da due minuti di rumba magmatica nel cuore della terra. Non era finita, la festa degli inferi: ancora, mentre arrivavamo in città, il suolo si scuoteva e si fermava, poi si rialzava e di nuovo si chetava. Era questo a fare impazzire le sirene: quel che era rimasto in piedi, dolorante, risuonava di antifurti e di allarmi antincendio, di sveglie che richiamavano la città dal suo torpore. Non sarebbe stato possibile: quello non era sonno. Quella era morte.
"Quella che chiamano morte - dissi forse con troppa enfasi - è solo ricchezza pronta a sgorgare. La morte è sempre rinascita". L'auto costeggiò il fiume per qualche istante, poi deviò verso Palazzo Di Biase. Quel che ne rimaneva, sarebbe stato meglio dire: davanti a noi si mostrò una porzione minima di quell'edificio ottocentesco che dicevano magnificentissimo, ora diventato polvere su polvere, macerie su macerie. Il simbolo della città aveva seguito quel che alla città era toccato in sorte: la distruzione, la morte, la cancellazione. E, ora, la mia parte. La parte più lucrosa. La più divertente. La ricostruzione.
L'ingegnere Morini srotolò il progetto. Già lo vedevo: dove fino a quel punto s'erano accatastate ignobili baracche parallelepipedali o vetusti ruderi dell'altro millennio avremmo costruito una distesa d'alluminio e vetro, di vetro e ferro, di vetro e lamiera stirata. La città nuova, la città del futuro: la città del sogno velocissimo del secolo ventunesimo, la nuova america degli uomini giusti. Un luogo pensato perché non vi fosse povertà, perché non vi fosse bruttura, perché non vi fosse violenza. Una città degli eletti.
Gli occhi mi lucevano, avrebbe detto mia madre: lei sola conosceva a fondo i colori che sapevano riempirmi le pupille quando un sogno mi si materializzava davanti, solo lei aveva creduto nella mia capacità di fare diventare quelle idee cosa concreta e solo lei l'aveva incentivata. Ero, proprio per merito suo, una macchina perfetta, anch'io una macchina lucidissima futuristica e futuribile: la volontà era il mio unico dio, l'unica cosa alla quale fossi devoto, l'unico argomento di fronte al quale mi sarei immolato.
Salii sulla lunga scala di pietra, ultimo residuo rimasto intatto del palazzo, e proclamai l'arrivo del mio regno. "Oggi - dissi - si costruisce una città nuova. Oggi questa città rinasce dalle sue ceneri".

Sedeva. Come se nulla fosse successo, la sedia di paglia stava davanti all'uscio, seguendo l'antica usanza del popolino. L'uscio, in realtà, era un frammento indefinito: alle spalle della vecchia v'erano solo macerie, muri sbriciolati, lamenti e cercatori. Lei stava lì, indifferente alla ricerca di quelli che probabilmente erano anche i suoi cari: osservava la strada come in un giorno qualunque, curiosava nelle facce e nei pianti, come alla ricerca di un pettegolezzo che fosse appagamento di una giornata.
La disperazione non le si coglieva in volto: era, forse, inconsapevole della tragedia, non più cosciente del crollo letterale che le si era materializzato intorno. Era, in fin dei conti, l'ultima a ritenere che la città fosse ancora integra, viva, pulsante, era nient'altro che l'unico pezzo di quel complesso mosaico rimasto del tutto indifferente al terremoto. La donna si piegò in avanti, come per spiare meglio la strada, e gridò a un volontario che no, non avrebbero potuto portarla via, che sarebbe rimasta a guardia della porta. Spiegò, calma: "Mio padre era operaio, mia madre casalinga. Hanno sudato, lavorato la notte e pianto di giorno per comprare questa casa e lasciarla a me. Non me la porterete via, finché sarò viva non mi ruberete quello che sono". Come a sottolineare le sue parole, alle sue spalle un cornicione si staccò dal palazzo e si infranse alla sua destra. La casa era al suo fianco, in trincea, pronta a difendere coi denti il territorio dal volontario invasore. Dal salvatore.
Non che ci fosse molto da difendere: solo un rettangolo di muri ripieno di macerie. Di corpi umani, di cani, di sangue e d'urina. Di povertà generata dalla compressione delle ricchezze. La vecchia si alzò in piedi solo per un istante: assestò lo scialle e lo fissò fra le scapole a difesa del vento. Lesse negli occhi del volontario l'obiezione: "Solo quando avrai la mia età - gli disse - comprenderai che la ricchezza è memoria e che, viceversa, la memoria è l'unica ricchezza. Non mi resta molto da vivere: lasciami l'unica cosa che mi rimane". Il giovane annuì, perplesso. Col passo incerto andò oltre: in fondo c'era qualcun altro, lì intorno, che poteva essere salvato. La vecchietta, col tempo, si sarebbe convinta da sola.
Un corteo di auto sfilò davanti a loro. Dal fiume, col vento alle spalle, salì verso Palazzo Di Biase, e lì si fermò. La vecchia osservò un uomo cavare un foglio da un cilindro, stenderlo con cura sulla prima auto e consultarlo animosamente. Accanto a lui un giovanotto ben vestito rideva e cianciava. Lo vide salire sulle scale e parlare dei suoi piani.
La vecchia distese il braccio. Fece appello alle sue forze.

Una pietra volò fra le macerie, un rivolo rosso le macchiò. Quella che chiamano morte è solo ricchezza pronta a sgorgare.

17 commenti:

  1. E ogni riferimento è puramente casuale...

    RispondiElimina
  2. Quem semeia vento, diz a razão, colhe sempre tempestade.

    RispondiElimina
  3. stavo giusto pensando: non sarebbe un'ottima idea una new town al posto di Pompei?

    RispondiElimina
  4. E poi diciamolo: quei ruderi sono antiestetici.

    RispondiElimina
  5. Ogni casuale è puramente riferimento...

    RispondiElimina
  6. una colonna e un puttino, una colonna e un puttino...

    RispondiElimina
  7. Cavolo Silas ne hai di fantasia..incredibile..robe del genere non potrebbero mai accadere realmente..
    Mai....
    MAi...
    MAI..
    ;)

    RispondiElimina
  8. Degno di stare nella galleria dei grandi noir!

    RispondiElimina
  9. Il meltin' pot è decisamente nauseante e, financo, distruttivo.

    RispondiElimina
  10. Mi hai fatto venire in mente Fuffas che soppalca Napoli..
    le pietre non cadono a caso. In ogni caso.

    RispondiElimina
  11. E per onestà intellettuale e per amore della scrittura che lo scrivo: questo racconto, tra quelli che ho letto, ha uno spessore, una precisione stilistica e una ricchezza che lo erge un paio di spanne sopra gli altri. Notevole.

    RispondiElimina
  12. Mi riferisco chiaramente ai tuoi racconti Silas, visto che questa è una pagina che ospita altri scrittori.

    RispondiElimina
  13. Ti ringrazio, Davide.
    E' una scelta stilistica: in questo racconto ho preferito una scrittura più ricca, d'inizio Novecento, che si contrappone però a una narrazione più lenta e, probabilmente, a una certa debolezza del plot.
    Non è il mio preferito fra quelli che ho pubblicato qui, in tutta sincerità.

    RispondiElimina
  14. Capisco quello che vuoi dire. Comunque non li ho letti tutti.

    RispondiElimina
  15. Chiaro, capisco, si faceva per parlare. E poi chiaramente i gusti sono personali.

    RispondiElimina