martedì 1 febbraio 2011

Tombola

C'era un solo fiore, sul monumento. Un solo fiore per un elenco sterminato di nomi: non un milite, ma cento, mille militi ignoti. Si usa così: ricordarli tutti, come se fossero una storia collettiva, per dimenticarli insieme.
Era per questo, forse, che il fiore era accompagnato da un biglietto.
"A perenne memoria di Angelo Bolleri".

- Ventisette – fece quello più alto, e posò il numero sulla tombola.
- Ventisette? – domandò l’altro. – Allora ho rifatto terno! – e giù grasse risate.
Un militare mi passò accanto, prese per un braccio il detenuto numero 27 e gli fece cenno di seguirlo. Dalla camera bassa, in fondo al cortile, arrivavano lampi brevi, grida di dolore estremo e singhiozzi intervallati, supponevo, da pianti dirotti. Il soldato trascinò il prigioniero con sé canticchiando una canzone: la stessa melodia sguaiata, lo stesso testo di confuso eroismo e donnine cedevoli che avevo sentito per le prime 42 esecuzioni riempì l’aria bassa, caliginosa di quel pomeriggio di morte. Dovevo fuggire, era evidente. Dovevo fuggire e non avevo uno straccio di piano.
- Sessantadue.
- Quaterna!
Sempre lo stesso schema: la stessa battuta idiota che nelle tavolate di Natale avevo sentito provenire dalla bocca del parente che si ritiene simpatico veniva riproposta in quella situazione. Gli ufficiali si davano ampie pacche sulle spalle: il loro senso dell’umorismo, con tutta evidenza, era commisurato alla loro pochezza di esseri umani, alla scarsa considerazione della vita che ci aveva portati in un cortile a sperare che non estraessero il nostro numero per vivere un istante in più, forse un’ora. Per sentire ancora dieci volte, forse venti, l’ufficiale basso gridare “terno” o chissà che. Guardai il numero ventisei fissato alla mia camicia: avrei voluto strapparlo, confondermi fra gli altri, ma sapevo che quella sarebbe stata solo una via preferenziale per la morte.
- Settantasette.
- Gambe di donna.
Già: la smorfia. Anche quella non mancava mai alle tavolate con i parenti: c’era sempre qualcuno in grado di dire esattamente a cosa corrispondesse, che ne so, il numero 71 o il 53. Facevano di tutto per non farci rimpiangere la tombola: ci proponevano tutte le idiozie tipiche di quelle serate natalizie. Certo, meno la neve fuori.
Il ricordo di quelle serate distolse la mia attenzione dalle estrazioni. Delle sere prima della guerra, in generale: io e Isabella davanti al camino, i bambini a giocare o a guardare la tv. Qualche ospite, ogni tanto. Tutto sommato una vita gradevole, ma non mi pentivo di avere imbracciato il fucile. Avevo ragione, a non pentirmene: di fronte all’estrazione che di lì a qualche minuto avrebbe decretato la mia morte era evidente più che mai che sarebbe stato il destino, e non una mia scelta, a decidere della mia vita. Alla fine mi avevano catturato solo per caso: i soldati lealisti avevano deciso di passare per le armi gli abitanti di Bergotto per vendicare l’attentato del giorno prima, e solo per un accidente, per la decisione di far provviste proprio in quel momento, fra gli altri avevano arrestato anche me. Ero l’unico, lì, a meritare davvero la morte. L’unico combattente fra 89 civili inermi.
Il numero 83 mi passò davanti in lacrime: la paura gli si disegnava sul volto. Era un ragazzotto smilzo: long’ammatula, l’avrebbero chiamato dalle mie parti. Inutilmente alto, troppo perché i suoi muscoli potessero reggerlo. Lanciò un urlo ben prima di entrare nella camera bassa e puntò i piedi, ma la sua resistenza fu vinta in pochi istanti: l’unico risultato che ottenne fu una pausa in quella canzone sconcia, ma la sua sorte era comunque segnata. Ecco: cos’avrei fatto io, come avrei reagito all’estrazione del mio numero?
- Ventuno.
- Un’altra cinquina!
Il 21 era stato arrestato con me: era il droghiere del paese e ogni settimana mi vedeva fare incetta di cibo. Lo guardai passare e trattenni il fiato: ebbi come la paura che potesse denunciarmi ai soldati per salvarsi la vita, come se anticipare la fine di un guerrigliero potesse saziare la loro voglia di sangue. Mi guardò anche lui: nei suoi occhi v’era forse una condanna, forse l’idea che stava morendo per colpa mia, forse il rimprovero per non essermi ancora fatto avanti. O forse mi stava chiedendo di badare ai suoi figli, se mi fossi salvato, forse di chiamare rinforzi ed espugnare il forte.
- Nove.
Non eravamo rimasti in molti: nel cortile contai una ventina di persone al massimo. Uno stormo di strani uccelli neri, come grandi corvi, si levò in volo gracchiando e coprì i primi versi della canzone. Mi fu quasi di sollievo sentire la morte gracchiarmi intorno.
- Ventisei.
Eccolo, il mio turno. Il soldato mi guardò e si diresse verso di me.
- Scusa – intervenne l’ufficiale basso – il 77 è già uscito?
Ironico, pensai: mancava all’appello solo il parente rincoglionito, quello che non segue il gioco e si perde i numeri estratti, e mi toccava sentirlo proprio un istante prima di andare a morire.
- Sì – gli rispose l’ufficiale alto.
- Allora ho fatto tombola con l’82.
- Alt! – ordinò l’ufficiale estrattore. – Liberate tutti i prigionieri: lo spettacolo è finito.
Il militare al mio fianco si fermò.
- Sei fortunato – mi disse lo spilungone indicando il suo socio. – Ricorda questa faccia: quest’uomo ti ha salvato la vita. Si presenti, caporale.
- Caporale Angelo Bolleri – obbedì quello.

Detto questo, vi saluto per un paio di settimane. Vado a conquistare il potere in due o tre Paesi del Nord Africa e poi ci rivediamo. Prossimo racconto il 15 febbraio.