lunedì 31 gennaio 2011

Il pozzo

Il cancello si aprì con un cigolio intenso e lunghissimo. Alle spalle della possente struttura in ferro battuto nero un giardino meraviglioso si apriva davanti a me: alberi altissimi e frondosi, piante esotiche delle quali non sospettavo l’esistenza, uno scrosciare di fontane. In fondo, una scala. Altissima.
Entrai nella villa: sapevo di non potere tirarmi indietro, a quel punto. Le gambe si muovevano pesanti, come se avessi camminato per ore. Eppure non mi sembrava di avere camminato così tanto: anzi, a memoria, mi sembrava di essere nato lì, davanti a quel cancello. Due cani, due grossi cani neri, mi diedero il benvenuto. Un benvenuto a modo loro: correvano abbaiando e ringhiando, senza che nessuno potesse controllarli. Guardai la scala: era troppo lontana. Non avevo vie di fuga: era forse questa la morte che mi aspettava?
Fu uno sferragliare a salvarmi: il rumore delle catene che si tendevano e frenavano i cani a pochi metri da me mi raggiunse prima ancora che potessi rassegnarmi a essere sbranato dagli animali, prima ancora che potessi accorgermi che i due molossi erano inoffensivi. Una goccia di sudore mi bagnò il petto.
Mi inerpicai per la scala. Bussai al grande portone della villa, chiesi del proprietario e fui accolto in un enorme salone. Attesi per un tempo che mi sembrò eterno. Infine il Conte arrivò da me.
- L’hai portato? – mi chiese.
- Certo, signore – risposi. – È il cuore, come avevate chiesto.
Cavai dalla mia borsa un fagotto sanguinolento e lo consegnai al mio ospite.
- Devi essermi molto devoto per portare qui il cuore di tuo figlio – osservò.
Lo guardai: non sapevo che fosse il cuore di mio figlio. Anzi, a ben pensarci, non sapevo proprio di avere un fagotto nella bisaccia, né tantomeno che quel che fagotto contenesse un cuore. Il Conte ripose il fagotto e mi guardò.
- Adesso – soggiunse – la magia si compirà.
Il Conte batté le mani. Alle sue spalle due servitori enormi portarono un calderone fumante: il Conte immerse il cuore nel pentolone e osservò il fumo prendere la direzione del vento.
- Saranno mesi di carestia – decifrò. – Al termine di queste giornate terribili, però, saremo più forti. Saremo invincibili.
Calò un mestolo nel pentolone. Ne trasse un liquido denso e sanguinolento. Odorava di sudore. Con calma, lo versò in una borraccia e me la consegnò. Curiosa borraccia: di cuoio, ma con il disegno di un pozzo su una delle pance.
- Questo – spiegò – è l’elisir della vita eterna. Basterà berne un sorso perché ogni malattia sia vinta, perché ogni ferita patita in guerra possa essere sconfitta.
Il Conte fece una pausa. Mi fissò, come a leggere in me, anziché nel fumo, il futuro della nostra terra.
- Ma tu – proseguì – non potrai raccontarlo.
Batté le mani due volte. Due armigeri entrarono nel salone dalle mie spalle e mi afferrarono per le braccia.
- Uccidetelo – disse. – Nessuno che sia capace di tradire il sangue del proprio sangue potrà essere fedele a me.
Fui condotto in un’altra sala, ancora più grande. Un uomo buffamente abbigliato lesse una pergamena.
- Per il tradimento dei valori di lealtà, per il pericolo che rappresenta per le nostre terre e per la sopravvivenza del nostro popolo tutto – annunciò pomposo – quest’uomo oggi sarà ucciso per decapitazione.
Mi legarono a una gogna. Il boia era accanto a me: la sua spada era lucentissima. L’alzò, ma attese qualcosa. Infine arrivò: una tromba annunciò l’esecuzione. Si ripeteva, monotona, e sembrava non finire. Ne gioii: finché quella tromba non avesse smesso di suonare sarei rimasto in vita.

Aprii gli occhi. La sveglia mi richiamava alla realtà. Una realtà fredda: la finestra era rimasta aperta. Mi alzai e la richiusi. La sentii cigolare.
Mi avvicinai al bambino: la sua fronte scottava ancora. Era sudato, poverino.
- Papà – mi disse. – Ho sete.
Presi dal comodino una borraccia e la diedi al bambino.
Lo vidi bere, e solo allora notai che su una delle pance era disegnato un pozzo.
Ne fui sorpreso: sapevo di averlo sognato, ma non ricordavo come.
- Sogni – sorrisi. – Non ce n’è uno che sopravviva al mattino.

venerdì 28 gennaio 2011

Antimafia

Fine settimana con esordio su queste pagine: a voi Accursio Sabella.

Il suo sguardo era proprio come avevo immaginato. Sembrava guardare attraverso il fumo. Guardare oltre. Persino oltre la figura di Antonio Mangiarano, simbolo della legalità. Della lotta alla mafia. Della voglia di cambiamento in Sicilia. “Sto figlio di pulla”, lo apostrofò Gigi Bevilacqua. Panettiere di Casimi, paesino alle porte del capoluogo. A lui la mafia aveva bruciato il portone del negozio. Aveva fatto trovare sgrammaticati biglietti di minaccia sotto la porta di casa. Aveva persino avvicinato il ragazzo che per lui impastava il pane e preparava la pizza. E per qualche giorno il pane dal suo forno uscì senza sale. E lo sfincione era acido. La salsa non era buona.
Ma Gigi Bevilacqua andava avanti. E non capiva. O faceva finta. Faceva lo svedese. Così, di fronte a chi gli diceva: “Ma tu ti sei messo a posto?”. Lui rispondeva: “Io sono nato a posto”. E il suo posto era Casimi. Dove era nato. E dove voleva morire. Da vecchio, però. E poco lo attraevano le luci di Palermo. Che lui a volte intravedeva, la sera, dalla piazza del paesino. In alto. Dove il capomafia Totò Castrenze si sedeva a prendere il caffè. E lo guardava. Con uno sguardo bonario, per la verità. Quasi compassionevole. Totò Castrenze invece amava Palermo. E ci scendeva ogni giorno, a curare i suoi affari.
Anche Antonio Mangiarano amava la città. Il paesino gli stava stretto già da ragazzo. Era di Montegrano, a due passi da Casimi. Ma Palermo era un'altra cosa. Le sue “lotte” da ragazzo interessavano pochi e scalcinati picciotti di paese. Le sue denunce erano indirizzate ad amici di amici. Con i quali, alla fine, un modo per prendere un caffè insieme lo si trovava. Ma a Palermo era un'altra cosa. C'erano i giornali. C'era la tivvù. E c'erano tante occasioni per sedersi dietro i tavoli dei convegni. Delle conferenze. Degli incontri con gli studenti.
E anno dopo anno, il ragazzino di Montegrano divenne simbolo. Immagine. Con quel suo slogan: “Leviamo le ruote alla mafia”. Che diventò mantra per tanti. Simbolo del cambiamento.
“Sto figlio di pulla” lo apostrofava, nonostante tutto, Gigi Bevilacqua. E tirava un boccone di fumo sofferto. E sembrava guardare oltre. Oltre il palco dove Antonio Mangiarano stava per salire. Lo attendevano in tanti. Aveva, si disse, qualcosa di importante da dichiarare. Quando entrò nella sala del cinema Liberty una ressa di gente lo accolse. Gli strinsero mani. Pacche sulle spalle. Sorrisi e braccia aperte. Finché qualcuno non lo “catturò”, per scortarlo fin sul palco.
“Sto figlio di pulla”, stavolta Gigi Bevilacqua non lo disse. Ma non c'era bisogno. Lo conoscevo bene. Gli avevo parlato spesso, e in tante occasioni. Raccolsi i suoi sfoghi e la sua rabbia. La sua solitudine. Il giorno dopo l'incendio del portone gli dissi: “Devi guardare oltre. Oltre quel fumo”. Lo fece. Ma quel giorno al cinema Liberty il fumo sembrava arrivare da troppe direzioni per poter trovare un varco. Mi avvicinai e lo presi per un braccio. “Andiamo a prendere un caffè”, gli dissi. Mi seguì, come se attendesse quell'invito da tempo.
Fuori dal cinema la città sembrava silenziosa e placida. Come una cicciona sdraiata al sole. Persino al bar “I gerani” pareva essere stati catapultati altrove. Nel tempo e nello spazio. Dentro, invece, Antonio Mangiarano aveva iniziato a parlare. “Cari amici, è il momento in cui tutti dobbiamo stare vicini. Perché proprio in questi mesi, in cui tanti, troppi ingenui hanno pensato a una prossima sconfitta della mafia, bisogna alzare la guardia. Stare all'erta”.
Noi, intanto, ordinammo il caffè. Mi accorsi solo in quel momento che Gigi Bevilacqua non aveva ancora aperto bocca. Lo invitai: “Che hai? Che è successo?”.
Mi guardò finalmente negli occhi. Arrivò il cameriere al tavolo con i due caffè. “Ti hanno tirato mai per le due braccia?” mi disse finalmente. Ma non colsi. “Per le due braccia. Uno ti tira da una parte e una dall'altra”. Gli chiesi di spiegarmi. E lui: “Tu lo sai cosa mi è successo. Mi hanno dato fuoco al negozio, mi hanno minacciato, mi sfottono se giro per le strade di Casimi. Hanno persino aperto una panetteria di fronte alla mia, per togliermi i clienti. Dicono che sono un amico degli sbirri. Persino i miei parenti evitano di salutarmi”.
Già, la mafia, pensai. Che si rivela lì, Nelle pieghe lasciate intatte dalle bombe al tritolo. Dai funerali di Stato. Dalle leggi e dalla repressione. Dalle grandi manifestazioni zeppe di retorica. Eccola lì, la mafia. Sulle labbra di Gigi Bevilacqua, che quasi tremano. Negli occhi di chi lo guarda in giro per Casimi e in quelli di chi si volta dall'altra parte.
“Io, lo sai, chiesi aiuto ad Antonio Mangiarano. Alla sua associazione. E mi aiutarono, in effetti. Fecero conoscere la mia storia a tutti. Ebbi una certa visibilità. E le cose per me un po' migliorarono”.
“Leviamo le ruote alla mafia”. Così Antonio Mangiarano, intanto, tuonava dal palco del Liberty, mentre io e Gigi Bevilacqua stavamo seduti al nostro tavolino del bar. E proprio in quegli attimi, il “simbolo” dell'antimafia sferrò il suo attacco: “Mi riferisco a quell'associazione di presunti antimafiosi, che si sono permessi – scandì quella parola alzando il tono della voce – di scegliere, come slogan, quello di 'Togliamo il motore alla mafia'. Si tratta di un chiaro tentativo di avvicinare, nell'immaginario collettivo, la loro non ancora chiara attività, alla nostra meritoria associazione. Per questo – aggiunse – abbiamo dato mandato ai nostri legali di verificare, in tutte le sedi, i presupposti per un'azione legale nei loro confronti”. Applausi. Ma non era finita lì.
“E non lasceremo passare – aggiunse – nemmeno il tentativo di un giovane, forse non ancora esperto romanziere, di riscrivere la storia della nostra Terra. E soprattutto la storia dell'assassinio del sindacalista di Libiria, Pino Catalano. Questo scrittore imberbe, infatti, si è permesso di affermare, nelle pagine di un libro inaspettatamente e ingiustificatamente di successo, che il processo sulla morte di Catalano sia stato riaperto grazie alle dichiarazioni del pentito Carlo Tagliameni. Bene, chiederemo i danni a lui e alla sua casa editrice, visto che il processo fu riaperto in seguito all'esposto alla magistratura presentato, già un anno prima, dalla nostra associazione”.
Il pubblico era in visibilio. E la notizia rimbalzò su tutti i tg. Persino quelli nazionali. Dove Antonio Mangiarano esibì un'espressione dolente, dispiaciuta, per gli abusi di certi, ripetè, “presunti antimafiosi”.
“Sto figlio di pulla”, avrebbe detto Gigi Bevilacqua davanti a quel tiggì, qualche ora dopo, prendendosi il cazziatone di sua moglie. Ma lì, davanti al bar, mi svelò i motivi della sua rabbia.
“L'altro giorno, quando mi hai intervistato”, mi disse, “io ringraziai i poliziotti e i carabinieri che mi erano stati vicini...ricordi?”.
“Certo”, risposi. “E io l'ho scritto”.
“Sì, giusto. Solo che mi sono dimenticato di ringraziare Antonio Mangiarano”.
“E allora?”
“Guarda qui”.
Prese una busta dal taschino. La aprì. Era una lettera di Mandarano indirizzata a lui. Poche righe, che recitavano: “Leggo sul giornale che devi ringraziare solo polizia e carabinieri. Ne prendo atto. Non so se considerarlo un esempio di maleducazione o di masochismo. Io e la mia associazione ce lo ricorderemo quando avrai di nuovo bisogno”.
Lo guardai attonito. Aveva le lacrime agli occhi. Accese una sigaretta. Guardò oltre il fumo. Per qualche secondo regnò il silenzio. Al bar “I gerani” sembrava d'essere altrove. Mentre al cinema Liberty risuonava ancora l'intervento di Antonio Mangiarano. E gli applausi scroscianti della gente accorsa. E il ticchettio dei computer che avrebbero raccontato l'evento.
“Ormai”, mi disse Gigi Bevilacqua salutandomi, “pure quando fumo una sigaretta, ho l'impressione che qualcun altro me l'abbia messa in bocca”.

giovedì 27 gennaio 2011

La macchina del tempo

Silenzio. Arturo si guardò intorno: niente, nessun ticchettìo, se non quello taciturno delle tastiere. Niente, in confronto al rumore che conosceva, a quel meraviglioso frastuono delle macchine per scrivere. Ne aveva sentite venti, trenta, quaranta in contemporanea, e su quell'orchestra dall'arrangiamento intangibile aveva imparato ad appassionarsi, a indignarsi, a riflettere. Aveva imparato a cogliere le sfumature delle parole scritte, a riconoscere il suono metallico perfetto di una Lettera 32 dallo sferragliare incerto di una vecchissima M1, a distinguere l'ansia del “biondino” dalla stanchezza del cronista scafato. Gli mancava, quel mondo, gli mancava senz'altro.
Gli mancava tutto, adesso che era a un passo dalla pensione. Adesso che dall'adrenalina di uno scrivente era passato al desk, a un ruolo di responsabilità: gli avevano affidato la prima pagina, un'autostrada verso la pensione, il riposante gioco della fiducia. E fiducia dovevano averne: a mezzanotte, all'una, quando i colleghi erano tutti a dormire o a bere una birra, lui rimaneva lì, da solo, senza l'assistenza di un caporedattore e men che meno del direttore, con l'incombenza di un titolo efficace, estremo difensore del quotidiano dal folleggiare della cronaca.
La cronaca. Quella se n'era andata, col tempo. Aveva seguito l'odore della colla ed era scomparsa da quelle scrivanie: la nobile abitudine di appiccicare striscioline di carta con i titoli da comporre a video in tipografia era stata sostituita da quella, meno cavalleresca, di raccogliere un'agenzia dal Telpress e metterla in pagina, senza verifiche né sforzo alcuno. Era pur sempre un modo d'incollare, in fondo, e col tempo l'editore aveva capito che dei redattori, degli informatori, dei collaboratori poteva benissimo fare a meno: bastava soltanto qualcuno che fosse capace di leggere un'Ansa e capirla, soppesarla, bilanciarla con un'AdnKronos e il gioco era fatto. Un giornale, purché fosse. Qualcosa di identico a tutti gli altri. Senza vita. Senza odori. Senza storia.
Le storie. Con la colla erano andate via pure quelle: l'intrecciarsi di concretezza, di sofferenze e di virtù, di angosce e pregiudizi, di delitti e castighi, polemiche e conseguenze, negli anni, era sparito. Sparito da tutti i giornali, non solo dal suo: forse era per questo, credeva, che il berlusconismo aveva potuto prendere piede in Italia. Perché nessuno più faceva il mestiere di incollare striscioline di carta, perché nessuno sapeva più quanto sono duri i tasti di una macchina per scrivere e quante imprecazioni costa, quanta fatica c'è in una lettera fuori posto.
Accarezzò il telefono. Compose il 271: rispose Ennio, l'ultimo dimafonista, l'unico forse che come lui aveva visto sparire il mondo di cui era innamorato. Nessuno più dettava i pezzi al telefono: una mail, un click col mouse, e la corrispondenza era gioco fatto. Sorrise: pensò a quante volte, prima che la parola Word entrasse nel suo vocabolario, aveva contato le battute “a orecchio”, a come aveva imparato a misurare gli articoli senza che nessun altro lo facesse per lui. Ennio, dall'altra parte del telefono, ripeté il suo “pronto”, ma Arturo non aveva niente da chiedergli: voleva solo sincerarsi di non essere l'ultimo giapponese, l'ultimo uomo d'un'altra epoca rimasto sulla terra. Avrebbe potuto confidargli le sue angosce, la consapevolezza che, come lui, anche Ennio era destinato a un pensionamento che non prevedeva sostituzione, ma finse di avere sbagliato numero. Ennio, in fondo, era a fine turno, ed era giusto che tornasse tranquillo a casa. Era a fine turno come tutti. Meno lui.
Le luci si spegnevano progressivamente. Arturo vide sfilare Colomba, il cronista giudiziario, poi De Luca e Bono. Andarono via anche gli altri, e una sola luce restò accesa: quella di Tedesco, il giovane cronista parlamentare. Non era più un “biondino”, un giovane giornalista alle prime armi: ormai lavorava lì da quattro o cinque anni, ma aveva conservato l'entusiasmo dei primi giorni, tanto da rimanere fino all'ultimo in redazione per cogliere quella dichiarazione in più, quella sfumatura non colta, quell'intuizione imprevedibile. Arturo avrebbe voluto alzarsi, metterlo in guardia: “Stai attento, Marcello, stai attento. Il tempo sconfiggerà anche te, ti renderà obsoleto, annoiato, abitudinario. Fuggi, finché sei in tempo: metti in salvo il tuo entusiasmo”.
Troppo tardi. Mentre Arturo sceglieva le parole anche Marcello Tedesco andò via: il miagolio di Windows segnalò l'arresto del sistema, poi il giornalista spense la luce, chiuse la porta dell'ufficio e infilò il corridoio. Ancora una volta, quella sera, Arturo era stato sconfitto dal tempo: l'aveva guardato scorrere via, impotente, e non aveva fatto nulla per riportarlo indietro. Già: riportarlo indietro. Gli sarebbe piaciuto, avere una macchina del tempo.
Un'intuizione gli balenò in testa. Raccolse il mouse, lo spostò rapidamente. Completò il lavoro e guardò l'orologio: la prima pagina fu pronta in pochi minuti. Stampò, diede un'occhiata al foglio e si avvicinò verso il muro. La posta pneumatica: già, anche quella era rimasta indenne al tempo. Infilò il foglio in un bussolotto, lo appoggiò sulla bocca del tubo e pigiò il pulsante. Una voragine aspirò la prima pagina verso la tipografia.

Il giorno dopo Arturo non andò al lavoro. Comprò il giornale, lo tenne stretto e andò all'aeroporto. Salì sul primo aereo e solo allora lesse il titolo.
“Leone rassegna le dimissioni
Verso un governo di centro-sinistra”
Mancava un dettaglio: quel giorno il pezzo lo aveva scritto lui. Ma il tempo, ora, era comunque alle sue spalle.
Arturo sorrise.

mercoledì 26 gennaio 2011

Il disgusto

Il disgusto, ecco cosa mi dà: Palermo mi dà il disgusto. Chiudo bene il portone, ché poi entrano i ladri. Esco in strada: traffico, rifiuti, odore di lercio. Città sporca, gente sporca: meridionali. Folla vociante, bucato al balcone, clacson senza sosta. Immondizia: accanto al cassonetto, accatastata, ma anche per strada. Sul bordo del marciapiede, a intasare i tombini, in mezzo alla carreggiata. E loro? Loro non se ne accorgono. Lo ignorano, lo danno per assodato.
Arrivo all'auto. C'è un volantino: prestiti facili, mi suggerisce. Pezzenti: non hanno i soldi per campare, ma s'indebitano. Compreranno un'auto di cui non hanno bisogno, un gioiello pacchiano, un vestito per festeggiare chissà che. Per fare tardi e ubriacarsi, cantare, urlare in mezzo alle strade. Salgo a bordo: scendo verso piazzale Ungheria, svolto a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra. Tiro dritto, arrivo in piazza Politeama: fermo al semaforo, fermo ad aspettare che passi l'ennesimo corteo. Il tizio accanto a me è troppo grasso, troppo irritato, troppo sanguigno. Suona il clacson: lo suonano tutti.
Davanti a me sfilano in venti. La polizia li scorta, li tutela, li tollera. Basterebbero trenta secondi, e invece eccoli lì: si fermano, gridano qualcosa, poi fanno un paio di metri e si fermano ancora. Invocano briciole di precariato, un'altra stabilizzazione che non arriverà mai, sperperi eterni a spese di mamma Regione. Il capopopolo è un uomo enorme: alto, ma soprattutto grassissimo. Come avrà fatto a ingrassare con lo stipendio da lsu? Lavora in nero, è sicuro. Forse è un ex-detenuto, perché anche a quelli danno il lavoro. Mentre me lo chiedo, il corteo scivola via. La polizia municipale riapre la strada, si mette da parte, fa cenno di andare. Ho un'esitazione, ma dura un attimo: un clacson, un altro clacson, mi invita a proseguire. Perentorio, indifferente ai tre vigili alla mia destra. Ha ragione: se ne fregano, non lo multano. Scorro via.
Supero via Emerico Amari, arrivo al porto. Puzza. Puzza di inquinamento, di scarichi a mare ignorati per decenni, di chissà quali rifiuti “speciali”, non so se mi capite. Sul giornale parlavano di tonnellate di tritolo, ma certo anche qualche cadavere sarà finito fin laggiù. Scivolo su via Crispi, arrivo in via Montepellegrino. L'ortofrutticolo, un altro spettacolo: resti di ortaggi in mezzo alla strada, bancarelle, aria da suk. È la parte più difficile: contenere il disgusto, contenere il disgusto, contenere il disgusto. Proseguo per via Rabin, giro a sinistra, arrivo in piazza Leoni. Al semaforo un negro si fa avanti: gli dico di no, ma lui appoggia lo stesso la spugna sul parabrezza. Metto in azione i tergicristalli, impreco, lo mando via. Sorride ebete, alza le spalle, importuna qualcun altro.
Prendo viale Diana, la Favorita. Un parco meraviglioso, guardate com'è ridotto: sporcizia ovunque, chissà quanti delinquenti, chissà quante siringhe. Là dietro, sicuro, c'è qualcuno che si droga. Qualcuno che fa chissà cosa, mentre nessuno controlla. Assedio: cani randagi, auto a 150, clacson impazziti. Accosto. Abbasso il finestrino. Parlo.
- Quanto bocca-culo?

martedì 25 gennaio 2011

Notturno

Lo ammetto: ho un debito con quelli di Umore Maligno, quindi mi tocca pubblicare i loro racconti. Oggi è la volta di Orio.

- Ti piace?

Mi muovo in fretta, ho il respiro pesante. Ansimo. Sono troppo eccitato, devo pensare ad altro. Non sono abituato alla presenza di una donna. Non so cosa dire, non controllo bene le emozioni. Devo pensare ad altro, devo pensare ad altro. Il mio pessimo rapporto con il sesso. Roba da analisi, mi terrà tranquillo per un po'.

Tutta colpa dei traumi infantili, così dicono. Forse è vero. Ricordo lo shock quando sorpresi i miei che lo facevano. Quel giorno ero tanto sconvolto, mio padre dovette accarezzarmi a lungo. Quella volta non mi piaceva, non di fronte a mia madre, non dopo quanto avevo appena visto. Il pensiero di mia madre ha un pessimo effetto sulla mia erezione. Torno a pensare alla mia ragazza, alla prima volta che l’ho vista. La giro con decisione e ricomincio a prenderla.

È stato nel parco, di sera. Portava il suo cane in giro. Taglia piccola, per fortuna. Non sono simpatico ai cani grandi. Era al telefono, non mi aveva notato. La guardavo senza essere visto. A vederla bene ricorda molto mia madre, il suo modo di gesticolare è identico. Ampi gesti dietro la macchina fotografica. Ero terrorizzato ma lei sapeva come tranquillizzarmi, mi accarezzava la schiena solcata e dolente. Non mi controllo più. Il ricordo è intenso, le sensazioni amplificate dal ricordo.

Bene così. La sentivo distante negli ultimi minuti, anche un po' fredda. Rimango fermo su di lei a lungo, con gli occhi chiusi. Finalmente mi decido e mi sposto. L’auto in fin dei conti non è il posto più comodo. Lei è immobile, tranquilla. Mentre mi rivesto la guardo, non ricambiato. Apro lo sportello, dopo averla coperta bene. In piedi fuori dall’auto rimango fermo e guardo la notte. Ascolto la notte. Respiro la notte. Il buio fitto mi fa sentire in pace con me stesso. Cosa darei per una sigaretta. No, maledizione. Meglio così. È un pessimo vizio.

- È tardi, sarà meglio andare.

Torno verso l’auto, le giro intorno. Apro delicatamente il bagagliaio. Di spazio ce n’è tanto, nonostante ci sia già il cane. È davvero comoda la mia auto.

lunedì 24 gennaio 2011

Cena per quattro

- Ho portato del vino. Un buon Nero d'Avola, che ne dite?
Luca piazzò la sua bottiglia da 5 euro nella mano che attendeva un cappotto. Un filo di imbarazzo lo percorse: non sapeva farle, quelle cose. Non sapeva mai quando consegnare la bottiglia: sfilarsi il cappotto e poi mostrare il proprio modesto contributo alla cena oppure cavarsi subito il dente? Sorrise pensando a quel che avrebbe detto Alice: erano problemi infinitesimali che affannavano solo lui e nessun altro, ridicole etichette a cui si appigliava. Non le dava retta, naturalmente: era convinto che fossero i dettagli a fare la differenza, sebbene fossero proprio i dettagli a metterlo in difficoltà. Il risultato, comunque, era negativo: adesso, mentre si sfilava il cappotto, le mani di Giulia non lo attendevano più, impegnate com'erano a rimuovere dalla tavola l'Amarone che era stato scelto per la cena. Si limitò ad appenderlo all'attaccapanni. La casa era silenziosa.
- E Filippo?
Ennio guardò Giulia. Un lampo corse nei loro sguardi.
- È tornato al suo paese - rispose il padrone di casa.
- In Ucraina? - insisté Luca.
- Sì - intervenne Giulia. - Sai com'è? L'agenzia pretende che ogni tre mesi il bambino torni a casa, sai? Per non perdere la confidenza con la lingua, i… come dicono, Ennio? I… contatti col territorio.
Alice rise sguaiata.
- Sarà il bambino più invidiato del villaggio, grasso com'è.
Il gelo piombò nella stanza. Persino Alice lo capì: smise di ridere e fece un'osservazione sul tempo, riportando la conversazione a un livello da ascensore. Ennio riprese il pallino in mano.
- Vogliamo adottarne un altro, capite?
- Ma sì, certo - abbozzò Luca. - Un fratellino. Era questo l'annuncio che volevate farci?
- No, per quello c'è tempo. Prego - fece Ennio indicando una sedia.
Giulia corse in cucina, risalendo la corrente del profumo che invadeva la stanza. Tornò con un paio di piatti di pasta.
- Pappardelle al ragù bianco di maialino nero dei Nebrodi insaporito al Syrah - annunciò entusiasta.
L'odore era niente male, ma il sapore era decisamente migliore. Giulia era una grande cuoca: sin dai tempi di scuola, quando Luca in fondo le faceva il filo, la ragazza aveva sempre avuto una grande dimestichezza coi fornelli. Col tempo era ingrassata e aveva perso il proprio fascino, ma non la capacità di deliziare il palato.
- L'annuncio - spiegò Ennio mentre gli ospiti mangiavano il primo - è legato proprio a questa cena. Vogliamo farlo diventare la nostra attività, capite?
- Aprire un ristorante? - chiese Alice.
- No, non esattamente - replicò Giulia. - È la moda del momento, sapete com'è? Cene in casa, cioè: noi mettiamo l'annuncio su internet, raccogliamo le prenotazioni e… spiegalo tu, Ennio. Insomma: cuciniamo per una decina di persone a menu fisso.
- Non ci farete mica pagare? - domandò Alice con un'altra risata.
Ennio la guardò, pensando che Luca, alla fine, aveva scelto una moglie senza tatto. Non sapeva se rispondere, ma alla fine optò per una battuta.
- Al limite dovremmo pagarvi noi - sorrise. - Siete le nostre cavie.
- Ci è andata bene - proseguì Alice, stavolta senza ottenere risposta.
Giulia tornò in cucina: ne uscì con due piatti fumanti.
- Guanciale al forno in crosta di mandarino - disse stavolta.
Anche il secondo era molto buono: aveva un retrogusto vagamente dolciastro che Luca attribuì al mandarino, ma niente che fosse fuori posto.

La cena proseguì relativamente tranquilla: Luca e Giulia parlarono degli anni di scuola, Alice si esibì in un'altra decina di battute sgradevoli ed Ennio cercò di mantenere saldi i nervi.
- E allora? - chiese Ennio sulla porta.
- Allora approvato - rispose Luca. - E poi, insomma, lo sappiamo: Giulia è una grande cuoca.
- Già: nessuno cucina meglio di chi adora mangiare - aggiunse Alice.
Ancora una volta nessuno le rispose. Luca arrossì per la moglie, salutò l'ex compagna di scuola e il marito e si accomiatò. Visto il comportamento di Alice, forse non sarebbero stati più invitati.
- Al limite - disse entrando in auto - una volta o l'altra potremmo prenotare una di queste cene.
- Purché non si facciano pagare - rise Alice.
Luca si chiese perché l'avesse sposata.

- Mi spiace - disse Giulia a Ennio. - Luca è un amico, ma Alice è proprio impresentabile.
- Beh, comunque è stata una bella cena. Complimenti, amore, non c'era un solo dettaglio fuori posto, capisci?
- Non lo so, ma se non se ne sono accorti loro non se ne accorgerà nessuno. Non conosco nessuno più pignolo di Luca.
- Certo, amore: la storia del ritorno al paese regge sempre, capisci?

venerdì 21 gennaio 2011

Premure

Chiudiamo la settimana con uno dei più pregevoli autori italiani del momento. Un autore irriverente, fantasioso, pieno di ritmo e d'intuizioni imprevedibili. Carico di ironia e capace di fotografare la società di oggi come nessun altro. Anzi no: oggi Richi Selva. Uno che in assenza di un blog suo sparge le sue cose ovunque, da senzavoglia a Umore Maligno, qui non poteva mancare.

Massimo fermò lo scooter a un centinaio di metri dal civico 38. Lo appoggiò sul cavalletto e si sedette su una panchina. Osservò il cielo plumbeo e si accorse che da lì a un attimo avrebbe potuto trovarsi alle prese con una fastidiosa pioggia di novembre.
- Come se non bastasse il freddo che mi attraversa le ossa, girando in motorino tutto il giorno! - pensò un po’ scocciato, ma non troppo.
Insomma, era una giornata pessima e lui se ne stava lì su una panchina per il solo motivo che certe cose vanno fatte, sempre, con il sole, la pioggia, il vento, la neve o un terremoto. Si sentiva una persona tutta d’un pezzo, capace di affrontare le proprie responsabilità in ogni situazione. O perlomeno cercava di esserlo, ma in fondo sapeva benissimo che non era così. Nessuno lo è veramente.
Seduto su quella panchina, a un centinaio di metri dal civico 38, prese dalla tasca destra della giacca un piccolo coltellino multiuso che era solito portare sempre con sé, aprì una lettera che aveva custodito con attenzione e si mise a leggere.

Carissima Anna, sono un vigliacco lo so. L’idea è quella di consegnarti questa lettera di persona, ma non so se sarò in grado. Finirò per spedirla. Ma, anche se non andasse così, e trovassi la forza di consegnarti io stesso questo misero e triste pezzo di carta, sarò un vigliacco ugualmente. Perché in ogni caso non avrei mai il coraggio di guardarti negli occhi mentre la leggi. Probabilmente finirei per scappare di corsa, come un pazzo, e lasciarti confusa sull’uscio di casa, alle prese con queste mie folli parole.
Mi dispiace Anna, siamo stati benissimo insieme, ma io me ne vado. Ho altri progetti per il mio futuro e i recenti avvenimenti fra di noi hanno dissipato i dubbi che già mi tormentavano negli ultimi mesi. È finita.
Sono un vigliacco, lo so, a lasciarti così. E purtroppo mi dispiace solo di questo.
Cerca di essere felice, io lo farò.
M.

Massimo sospirò forte e reclinò la testa all’indietro, guardò ancora una volta in alto e si trovò a sperare che quella promessa di pioggia che veniva dal cielo si risolvesse al più presto. Avrebbe voluto presentarsi completamente fradicio, davanti al civico 38.
Riprese lo scooter e lo mise in moto, viaggiò pianissimo per pochi secondi e si trovò di nuovo fermo. Era giunto a destinazione. Non spense il bimotore, lo lasciò sul cavalletto a motore acceso, pronto a ripartire al più presto, non appena avesse compiuto quello che doveva compiere. Si avvicinò alla porta del civico 38 con passo pesante ma deciso.
Suonò il campanello, che fece un drin loffio e surreale, nello stesso istante in cui Anna aprì la porta. La ragazza stava uscendo per delle banalissime commissioni.
Si trovarono bruscamente faccia a faccia.
Era una coincidenza assolutamente stupida e priva di significato, ma rimasero entrambi sorpresi e imbambolati, a fissarsi come se entrambi non avessero mai visto un altro essere umano fino a quel momento. Poi Massimo agì per primo.
- Mi dispiace... - le disse, porgendo la lettera.
Improvvisamente si mise a piovere, ma a nessuno importava.
Anna prese meccanicamente la busta fra le mani, la osservò con diffidenza, poi, con altrettanta diffidenza, osservò Massimo. Che riprese a parlare.
- Mi duole comunicarle signora Anna, o signorina?... beh, scusi, non è certo questo il caso... signora o signorina, comunque sia, mi duole comunicarle che sta per ricevere una brutta notizia da colui che presumo essere il suo fidanzato... Mi dispiace...
Anna lo osservava incredula, vide uno stemma sulla sua giacca gialla e blu: Poste Italiane. Non disse niente.
Massimo continuò.
- ...io... io... sono stato sposato, un tempo... ed ero veramente innamorato... poi... poi... vabbeh, adesso non è il caso di parlare di me... tenevo solo a dirle che so cosa significa rimanere soli, e dover ricominciare. Non si abbatta... è meno dura di quello che sembra... forza...
Accompagnò le parole stringendo le mani a pugno, in segno di incoraggiamento, poi fece un sorriso un po’ malinconico. Accennò una specie di goffo inchino e fece per andarsene.
- Un momento! Si fermi! – Anna lo chiamò con decisione e lui, che aveva fatto solo pochi metri, si voltò restando fermo sotto la pioggia.
- Cos’è ‘sta roba? Insomma! – chiese Anna con voce vibrante – Che modi sono, questi? Esiste una cosa chiamata cassetta delle lettere, se lei non lo sapesse! – e indicò la cassetta delle lettere – E poi, da quando in qua la Posta consegna buste APERTE alla gente?
Massimo non esitò un solo istante e rispose.
- Dal 1° gennaio di quest’anno, signora. O signorina. Art. 27bis comma 3 paragrafo f) del nuovo Codice Comportamentale relativo ai Servizi Pubblici di Comunicazione.
Anna rimase impietrita di fronte a una risposta tanto sicura e precisa, ciò nonostante si mise a borbottare qualcosa di incomprensibile, facendo chiaramente intendere di non essere assolutamente al corrente di tali articoli, commi e paragrafi.
Massimo cercò di essere meno burocratico.
- Signora, o signorina. Lei si renderà conto che al giorno d’oggi, con tutti questi supertelefonini che fanno tutto, con questi computer, è assai raro comunicare attraverso una lettera. Oramai per posta mandano solo più la pubblicità e gli avvisi di garanzia, neanche più le bollette mandano, per posta.
Anna annuì, sebbene poco convinta.
- Quindi – continuò Massimo – una lettera “privata”, “personale”, è decisamente rara e i nostri studi statistici hanno provato che essa è quasi sempre portatrice di brutte notizie. Il Governo ci ha autorizzato, anzi, per meglio dire ‘imposto,’ ad aprire e a leggere questo genere di corrispondenza, al fine di preparare al meglio le persone interessate, sperando di riuscire a ridurre un eventuale trauma psicologico. Ho seguito un corso specifico, sa?, per fare questo lavoro! Le Poste e il Governo si preoccupano per lei, signora. O signorina. In ogni caso, mi dispiace ancora molto per lei e il suo ragazzo, cara Anna.
Detto questo, Massimo si girò e si incamminò sotto la pioggia verso il suo scooter bianco, vi salì sopra con la maestosità di un principe rinascimentale e si diresse verso casa.
Per quel giorno aveva finito, sentiva di aver fatto il suo dovere, non solo di postino, ma anche di cittadino sensibile e responsabile. Andò a dormire un po’ turbato per la vicenda personale di quella ragazza, ma sereno e in pace con se stesso.
Senza sapere che tutta quella serenità sarebbe durata poco.
Purtroppo per lui la denuncia di Anna fu addirittura la sesta, in neanche quindici giorni, e i carabinieri decisero finalmente di agire, identificandolo e rintracciandolo in breve tempo.
E nessuno si premurò di informare Massimo con tatto, comprensione o solidarietà, che era nei guai fino al collo per gravi violazioni della privacy.

giovedì 20 gennaio 2011

Non è la posizione adatta

Nuovo racconto a quattro mani: stavolta con paté d'animo.

© Simon Howden
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Ci sono il vento e il sole, qui, oggi.
Mi si gelano le mani ugualmente a stare seduta sul gradino.
Non è la posizione adatta.
C'è una vespa fuori stagione che non vola ma striscia raso terra, con le ali mezze aperte; c'è un tizio che parla seduto in auto e sbatte forte il pugno sul volante; c'è il gatto mai visto prima che arriva, mi guarda e si siede sui miei piedi.
No, non è la posizione adatta.

Mi adeguo: spengo la sigaretta, scosto il gatto con una carezza e attraverso la strada. Il tizio sembra interessato: appena passo davanti a lui la telefonata si interrompe, ma non scende. Mi guarda il culo, probabilmente.
Ci sono abituata. So come sono fatti gli uomini: se una ragazza passa davanti a loro non possono fare a meno di soppesarne il culo. Di analizzarlo con cura: probabilmente, soprattutto dopo una telefonata litigiosa, valutano la possibilità di provarci, se il culo in questione è accettabilmente carino, se la ragazza lo è. E io, oggi, sotto questo sole, mi sento molto più che accettabile.

Lo ignoro, naturalmente. Arrivo nel parco di fronte, trovo una panchina sufficientemente illuminata e mi siedo spalle alla chiesa. Il gatto, dall'altra parte della strada, scivola via come se niente fosse.
In questa posizione, per caso, scopro che riesco a vedere perfettamente il tizio nella macchina che apre lo sportello, mi rivolge uno sguardo e riattacca a telefonare. Adesso pare più tranquillo, rilassato, sorride... Non è ancora la posizione adatta.
Ma ora sento cosa dice. Presumo: telefonata ad un amico, convenevoli noiosi, aggiornamenti inutili, risata grassa, e di rito "eh, stavolta mi ha beccato un sms... sgamato di brutto!", altra risata grassa.
Presumo. O pregiudico? Alla fine, in questa scomoda posizione, di distanza, che scelgo volontariamente, la mia realtà si avvera solo per me, posso trovare scuse per l'odio, la supponenza, la vendetta. Scelgo io il filtro per le parole altrui, mi accontento di uno sguardo superficiale senza voler vedere e ascoltare altro.
Mi racconto la sua storia come fosse la mia.

È tornato a casa dopo il lavoro. “Ciao amore”, saluti d’ordinanza, una carezza ai bambini. Il giocattolo nuovo per il figlio più piccolo – Mario o Salvatore, un nome non troppo ricercato, probabilmente quello del nonno – è un pallone. Non brilla per fantasia. “Vado a fare una doccia”, il cellulare sul tavolo, la tragedia. Urla, piatti rotti, “chissà a chi voleva mandarlo”. Trattative estenuanti, “ora la chiamo in vivavoce e ti dimostro che non c’è nulla”, lacrime, bestemmie, “tu stanotte dormi dove cazzo ti pare ma non qui”, i bambini in camera. La valigia che ora s’intravede sul sedile posteriore riempita in fretta e furia, la fuga in auto. La richiesta di asilo a un paio di amici, la complicità.

Esce dall’auto. Parla camminando. La risata si fa isterica. Mi smentisce.
- Sì, dieci giorni di sospensione.
- ...
- Senza stipendio, certo, altrimenti sarebbero ferie.
- ...
- No: la terza. Una volta due minuti di ritardo, un’altra una mail privata, stavolta un sms.
- ...
- Anche meno di tre mesi. Per me è un modo morbido per prepararmi al licenziamento.
- ...
- Guarda, io li manderei anche a fanculo, ma poi che cazzo faccio?
- ...
- Ma dove, Stefano? Dove? Con la crisi che c’è?
- ...
- Vabbeh, capisco. Grazie, Ste’, non pensarci.

Tira fuori una pistola. È un istante.
No, non è la posizione adatta.

mercoledì 19 gennaio 2011

Farewell Kitty

Mi perseguita. Lo fa da anni. Mi spia: sorveglia ogni mio movimento.
Non sopporta l'idea che io mi sia dimesso da quella cazzo di fabbrica, così manda i suoi agenti in giro per la città a tenermi d'occhio. Ormai ho capito il suo gioco: colgo i dettagli, i particolari, le sfumature.
Oggi, per esempio. Anche volendo ignorare le decine di ragazzine con quell'orrenda magliettina rosa e la sua faccia, perché in fondo ho lavorato per produrle e so che si vendono bene, ho comunque le prove della persecuzione: ero in piazza Politeama, stavo attraversando normalmente la strada ed eccola lì, ferma al semaforo. Una Smart, e va bene. Rosa, e va un po' meno bene ma i gusti sono gusti. Con la faccia di Hello Kitty sulle fiancate. E un uomo a bordo. Troppo, no?
Torno a casa, tranquillo. Mi affaccio al balcone, e cosa vedo? Un asciugamano rosa. Hello Kitty. Scendo a comprare le sigarette: una ragazzina con lo zainetto di quel gatto spione. Lo so bene cosa fanno: lo so perché ci ho lavorato. Usano quello sguardo ammiccante, che ispira tenerezza, per controllarci. Da bambini, direttamente, con un Gps. Ma anche indirettamente, con una webcam: per questo mi hanno mandato i loro sgherri. Vogliono conquistare il mondo.
Lo dirò al dottore Passantino, ma so che non mi darà retta. Dirà la solita cosa, già me lo vedo: “Dovrebbe trovare un lavoro, Li Calzi. Un lavoro e lo stress passerà”. Non lo sopporto. Soprattutto non sopporto che mi chiami per cognome. Forse è un agente pure lui.
(tratto dal diario di Nicola Li Calzi, 10 febbraio 2010)

In data 11 febbraio 2010 perveniva allo scrivente Commissariato di PS una segnalazione anonima da via dell'Olimpo 12 circa la presenza di un uomo armato di fronte al locale stabilimento della ditta COMPROFAD s.r.l., responsabile per la Sicilia occidentale della produzione di oggettistica per la nota marca HELLO KITTI. Una pattuglia veniva inviata sul luogo e l'agente Domenici riferiva a questo Commissariato trattarsi di sparatoria in corso. Un disoccupato, successivamente identificato in LI CALZI Nicola, nato a Palermo il 30 aprile 1975 e residente in Palermo, in via del Levriere 12, ex dipendente dell'azienda, brandiva una pistola modello Beretta 92FS, regolarmente dichiarata, e sparava all'impazzata contro le finestre del suddetto stabilimento, provocando svariati danni ancora da quantificare.
Dopo aver convinto il LI CALZI a deporre l'arma, l'agente Domenici procedeva all'arresto in flagranza di reato ai sensi dell'art. 381, comma 3, sub lettera h c.p.p, per il reato di cui all'art. 635, comma 2 c.p. L'arrestato veniva posto a disposizione dell'Autorità Giudiziaria per la convalida dell'arresto.
(tratto dal verbale di Polizia Giudiziaria
redatto dal vicequestore Giovanni Marino)

Una porta si aprì. La caverna era piuttosto tetra: sembrava strappata a un film sparatutto anni Settanta, con il Cattivo in fondo all'antro ad accarezzare un gatto nero.
- Ha chiamato l'agente Passantino, Signore. L'hanno preso.
Il Cattivo uscì dal cono d'ombra. Era un enorme gatto rosa.
- Era ora.
Un ghigno riempì la stanza.

martedì 18 gennaio 2011

Non finisco mai niente

Devo confessarvi una cosa: sono invidioso degli svogliati. Loro pubblicano un post di Uomomordecane? Ne voglio uno anch'io. Loro ne pubblicano uno di Alexfor? Anch'io ne chiedo uno. Insomma: nessun autore deve passare da lì senza stare anche qui. Potrebbero darmi scacco matto pubblicando l'ultima enciclica del Papa, ma - insomma - sto divagando. Dovrei presentarvi Alexfor, insomma: vi basti sapere che il nome completo è Alex for Segretario of Partito Democratico, perché il nostro un giorno ha deciso di farsi eleggere segretario del Pd. Leggetelo e capirete se valga la pena di affidargli un partito inesistente.

Mi faccio largo tra i respiri estranei, nella calca di un locale scuro che mi sta soffocando. Non la voglio lasciare finire nelle mie orecchie questa terribile You oughta know di Alanis Morrisette. Devo scappare.

Oddio, terribile… Tutto sommato la cantante è decente, fighina nei suoi pantaloni di pelle da rocker dei poveri agita convinta le chiappe e spolvera l’atmosfera usando i capelli lisci corvini con partecipazione. Alcuni musicisti sono adeguati, soprattutto lo scostante batterista.

Ma il bassista no. Non lo posso reggere. Continua a tediare il suo strumento con goffe slappate, usando un pollice slabbrato più della vagina di una pornostar in pensione.

“Ricordi come la facevi bene?”, mi dice un amico immaginario dell’adolescenza, fan sfegatato delle mie performance al basso nel gruppetto emergente del paese.

E così non finisco neanche questa serata, passata in solitaria come sempre ed annegata in un paio di insipidi mojito.

Meglio che vada a casa, a non finire a letto, a cazzeggiare un altro po’ su Facebook.

Taglio con il naso il freddo della via anonima, diretto all’auto parcheggiata malamente sul marciapiede. Sento le spalle pesanti, curve nella solita postura scoliotica; mi viene da drizzarle, e fingere l’andatura di un Fonzie un po’ démodé.

Quand’ecco che la tasca del jeans vibra: “Un SMS a quest’ora?”

Lo estraggo e titillo il display dotato del più moderno touch screen.

È di Elena.

“Elena? Che cazzo vuole?”

Elena è una storia che non ho finito.

Io non finisco mai niente. A volte non comincio neanche.

Ho iniziato presto a non finire le cose.

Non finivo la poppata da mia madre, che passò subito al latte artificiale per non provare più dolore al seno non succhiato a dovere.

Alle elementari non finivo mai i temi. Non ne avevo voglia. Ma riuscivo a non farmi scoprire.

Cioè. Io avrei potuto scrivere molto di più, ma non lo facevo. Scrivevo quel che mi bastava per portare a casa un otto o un nove. Tanto cos’avrei preso se avessi scritto tutto? Venticinque? Oltre al dieci non si andava.

Più avanti ho continuato a coltivare ed affinare quest’arte. Per esempio, non ho finito l’adolescenza, passata ad essere spettatore delle avventure dei miei amichetti.

Non ho finito l’università. Mi sono messo a fare diversi lavori. Ovviamente non finendone nessuno.

E nonostante tutto, qualcuno ad un certo punto mi ha fatto dirigente. Sì, perché sono sempre stato molto bravo a far finire le cose agli altri. La chiamano leadership. Contenti loro.

Elena l’ho conosciuta lavorando. Una donna solida, non bella nel senso occidentale del termine, ma trainante, feroce e luminosa. Una donna in 3D.

Me ne sono innamorato, ma non completamente. È ovvio.

Lei aveva un debole per gli uomini di potere. Sapevo che se ne era passati un certo numero, in azienda.

Io non ero all’altezza. Ero bravo, ma la conquista del potere non era una cosa che intendevo finalizzare.

Quando ha capito che mi piaceva, ha cominciato a sventolarmela in faccia, ma non me l’ha mai mollata. Si è sempre ritirata al momento giusto. La situazione perfetta per me, che non volevo finire come tutti gli altri: a letto.

Abbiamo pericolosamente incrociato i flussi delle nostre lingue un paio di volte: questo è il massimo brivido che ci siamo concessi.

Alla fine mi sono stufato di questa non-storia. Così ho fatto in modo di lasciarla in sospeso, senza finirla del tutto. Semplicemente non l’ho più cercata.

Lei si è messa con Gianni, un uomo di potere. Presunto potere, perché in realtà questo pseud-uomo non vale una cicca. Si è illusa talmente tanto che questo raccomandato abbia un senso nel disegno divino, che ci ha pure fatto una bambina.

“Beviamo una cosa insieme?”, dice il messaggino. Sembra l’invito della scopamica che vedi una volta a settimana. Invece è quasi un anno che non ho interazioni con lei.

“Che cazzo ti ha preso? Ma vaffanculo!”, è la risposta che il mio lato istintivo vorrebbe scriverle. Ma alcune sovrastrutture psichiche hanno il sopravvento. E la risposta che invio è “Dove sei?”

“Sono al Byron. Ma forse è meglio che non ci vediamo”, risponde con un delay quasi nullo, da chat.

“Cogliona, stavolta ti frego”. Il Byron è a cento metri da dove mi trovo.

Ricordo come faceva. Poteva tenermi per ore a supplicarla di incontrarci, e alla fine bucarmi.

Entro. Scandaglio. Individuo. Mi spoglio del giubbotto démodé. Mi siedo.

Parliamo. Gianni l’ha già stufata. La bimba, Azzurra, si è già trasformata in una piacevole zavorra. Ha bisogno di un coglione con cui sfogarsi. Io le sembro perfetto per lo scopo.

Offro io. Usciamo. Passeggiamo nella foschia che sembra portarci al finale di Casablanca. Le nostre spalle si sfiorano, con i corpi che ondeggiano più del dovuto, come per avvicinarsi. C’è voglia di contatto. Di lingua. Di saliva che scende dalle labbra. Di mani che scendono sul seno. Di sangue che gonfia i genitali.

Siamo alla sua macchina. Ci guardiamo. Lei ha un fumetto esplicito e rosso negli occhi verdi che dice “baciami, lascia che ti faccia capire come faccio i pompini usando la tua lingua”.

Sembra proprio la volta buona che si fa sul serio. Che si scopa. Addirittura.

Ma qualcosa mi ferma. Un improvviso, inaspettato, moto d’orgoglio.

Questo è ciò che scorre come un lampo nelle mie sinapsi: “Fottiti. T’ho annusato il posteriore per mesi, e tu sei sempre andata a pisciare altrove. Ora sei qui per usarmi, per colmare il vuoto di una sera. Fanculo, cagna”.

“Io vado, Elena. Buonanotte”. Lei rimane di pietra. Non riesce neanche a voltarsi per aprire l’auto.

Mi giro senza neanche darle il bacino di rito e mi avvio. Non mi volterei neanche se fossi Orfeo e alle mie spalle ci fosse Euridice.

Salgo in macchina, e porto attenzione agli addominali. Sono contratti ma, mentre li ascolto, si sciolgono.

Sorrido. Poi rido. Rido forte. Sempre più forte. Finché il riso si trasforma in un urlo.

“AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHH!!!”

Piango di gioia. Accendo l’auto e vado, con Mr. Cab Driver di Lenny Kravitz a tutto volume che mi pompa ancor di più il sangue nei ventricoli.

Faccio circa duecento metri, quando mi sembra di notare che una macchina mi segue. I suoi fari rimangono fissi nello specchietto retrovisore, mentre le luci dei lampioni sfuggono come un sciame di stelle cadenti.

Arrivo a casa. L’altra macchina si accosta un po’ più in là, ma è vicina. Non è quella di Elena. Anche questo è un BMW, ma è grigio chiaro metallizzato, mentre quello di Elena è canna di fucile.

Scendo e infilo il porticato che mi conduce all’atrio del condominio. Sento una presenza dietro di me.

Mi giro. È un uomo. Mi punta con degli occhi infuocati. Alza un braccio, come se fosse un Big Jim cui un bambino ha schiacciato la schiena. Un oggetto metallico scintilla all’estremità dell’arto.

L’uomo urla: “Devi stare lontano da lei! IO TI AMMAZZO!!!”

È Gianni. La nullità con potere mi sta seguendo con una pistola.

Dovrei chiedermi come diavolo è possibile che lui sia lì. Ci siamo parlati un paio di volte. Lei gli avrà parlato del fatto che io le stavo dietro. Chissà che film si è fatto. Avranno litigato, lui avrà pensato che io e lei abbiamo una tresca. Boh?

Ma non c’è tempo per fare l’esegesi di un omicidio passionale in fieri.

Corro. Scatto come una gazzella. Ansimo e in un istante mi butto a destra dietro un angolo di muro. Proprio mentre un rumore di fuoco d’artificio esplode alle mie spalle. Sento un calore che sibila alla sinistra della testa.

Sono al riparo, per ora. Incolume. Incredibilmente calmo. Lucido.

E dire che io una pistola vera non l’ho mai vista. Uno sparo vero non l’ho mai sentito. Per me sono cose da scene di film irreali, visti al cinema o in tivù.

Sento il suo respiro rotto che si avvicina. Potrei proseguire la mia fuga, in direzione del prossimo spigolo dell’edificio, ma una forza misteriosa mi ferma. So che lui pensa che io stia scappando.

Ho le spalle al muro, la schiena è ferma e pronta all’azione. D’acciaio liquido.

Spunta l’arma e poi il braccio e poi la spalla e poi il naso. In una frazione di secondo, gli afferro il polso destro con la mano sinistra per disinnescare l’arma, contraggo la mano destra in un pugno di pietra, e glielo scaglio sul volto.

Sento le ossa sue e le mie che impattano. Ma le mie sono le nocche e il metacarpo, le sue sono quelle dello zigomo sinistro.

Cade a terra. Gli prendo l’arma. È in mio potere. Mi guarda negli occhi e capisco cos’è il panico, quello che io poco prima, miracolosamente, non ho sentito.

Ora so di poter fare l’eroe. Il buono. Posso sfoderare il cellulare dalla tasca, chiamare la polizia, ed assicurare questo guscio vuoto di essere umano alla cosiddetta giustizia.

Posso urlargli contro qualunque insulto. Nonostante il rumore dello sparo, so che non ci vede e non ci sente nessuno.

E invece di nuovo una strana forza si impossessa di me. Cristallina, autorevole, presente. Mentre non una parola fluisce tra noi due.

Appoggio la fine della canna fra le sue sopracciglia e premo il grilletto.

La testa di Gianni esplode. Mi arrivano in faccia spruzzi caldi di sangue e cervello. Un frammento d’osso mi taglia vicino all’occhio.

Respiro. Mi alzo. Mi gonfio di potere. Mi sembra che la realtà intorno si deformi, come nel finale di Matrix, quando Neo capisce di essere davvero Neo.

Sposto il piede destro lentamente. Poi l’altro, con un po’ più di velocità. Cammino. Mi infilo nell’atrio, spostando il portone quasi con la sola forza dello sguardo.

Prendo atto che ho una pistola in mano, e sono coperto di sangue come un bambino appena uscito dall’utero della madre.

Ed ecco, un pensiero che affiora. Mi rendo conto, mentre lo produco, che è il primo, da qualche minuto a questa parte, dopo un’incredibile apnea cerebrale.

“Beh, almeno per una volta una cosa l’ho finita”.

lunedì 17 gennaio 2011

Referendum 21

“Si spogli”, disse l’agente Mangiaracina. Fece una pausa, prima di continuare: lo guardò dall’alto in basso, come per soppesarne la consistenza, e socchiuse le palpebre. A Giulio sembrò che gli stesse ammiccando ancor prima che la poliziotta gli impartisse il secondo ordine. “Completamente. Si spogli completamente”.
Era un gran bel vedere, l’agente Mangiaracina. Bionda, ma dalla carnagione scura, con occhi di un nocciola intenso e labbra turgide che nascondevano a fatica una lingua ballerina. Naturale che al momento di sfilarsi i boxer Giulio fosse in preda a una solida erezione: nonostante la situazione fosse fuori dal suo controllo, ma forse anche per questo, per quella vaga sfumatura bondage delle sue preferenze erotiche, l’ordine impartito dalla poliziotta gli fece correre il sangue alla testa e, com’era del tutto evidente, non solo lì.
La poliziotta, del resto, gli ricordava Eva. Forse l’agente aveva un seno un po’ meno generoso, ma in generale era lo stesso tipo di ragazza. La fissò: le labbra, in particolare, erano l’elemento di contatto più forte, ma anche il taglio degli occhi e il colore dei capelli erano singolarmente somiglianti a quelli di Eva. Cioè, in qualche modo, al motivo per cui era finito in carcere.

Era naturale, in quella situazione, ripensare a Eva. Era stata una folgorazione, la sua: avrebbe fatto qualsiasi cosa, per conquistarla, e in effetti si era fatto trascinare un po’. Niente di pericoloso, niente che Giulio non avesse fatto per altre ragazze, ma forse un po’ noiosa, come occupazione per una domenica pomeriggio.
Eva era un’attivista del Comitato per il referendum 21, e pur di portarsela a letto Giulio aveva accettato di iscriversi a sua volta. Era finito in centro con una coccarda al petto e un banchetto instabile, ma quando aveva dato la propria disponibilità non aveva capito che sarebbe stato solo. Senza Eva, senza il motivo per il quale aveva accettato di inseguire passanti per convincerli a firmare per la consultazione. “Salve, può dedicarmi un minuto per una causa importante?”, chiedeva, ma lo sapeva anche lui che quella causa non era in fondo così decisiva per le sorti del Paese. Anzi, in definitiva, pensava che il motivo per il quale doveva infastidire la gente fosse del tutto irrilevante: a chi volete che importi niente del referendum per abolire il divieto di far indossare maglioncini ai cani? In realtà, nel profondo delle sue vaghe convinzioni politiche, ma anche del suo senso estetico, credeva che impedire che i boxer fossero imbracati in gilet di lana orrendi fosse persino una decisione di civiltà.
I risultati, com’è ovvio, erano conseguenti. Aveva preso servizio al banchetto alle 10, e all’ora di pranzo non aveva ancora raccolto una firma sui moduli prestampati che fosse una. Stava per decidere di fermarsi e andare a mangiare un boccone con un bel boccale di birra, ma rimandava la decisione perché era convinto che se fosse tornato senza nessun risultato al Comitato se la sarebbe potuta scordare, quella benedetta scopata. Era una spirale da ansia da prestazione, in fondo: non sapeva se interrompere la ricerca o proseguire, ma nel frattempo se ne stava lì a pensare e non fermava nessuno. Il tempo scorreva, le auto continuavano a sputacchiargli gas in faccia e il risultato si allontanava. Il Risultato, quello con la R maiuscola: Eva stesa fra le lenzuola di camera sua, mica il referendum.
A far arrivare la prima firma, infatti, fu una richiesta spontanea. Giulio non l’aveva neanche notata, tanto era assorto: si fermò davanti a lui, lo fissò e gli chiese di firmare. Anzi, per l’esattezza, la domanda fu minimamente differente: “Se io sostengo la tua causa, tu sosterrai la mia?”. Giulio alzò gli occhi dai volantini propagandistici e si sentì mancare il fiato: non per il vestitino a fiori gialli, rossi, verdi, blu e viola che la ragazza indossava, e che già di per sé avrebbe fatto sussultare chiunque per la sua singolare bruttezza, e neanche per il fatto che quel vestitino era talmente leggero che sembrava aspettare un soffio per volare via, ma proprio perché quella era senza dubbio la donna più bella che gli fosse mai capitato di incontrare. Alta, filiforme e quindi non dotata di un seno particolarmente degno di nota, ma con un viso dalle proporzioni perfette. Mora, con i capelli vagamente ondulati, occhi di un verde smeraldo ricco di sfumature e, ancora una volta, labbra carnose e increspate: molto meglio di Eva, qualunque fosse la sua battaglia politica. “Va bene – disse – ma spiegami qual è la tua causa”. Prima che la ragazza potesse iniziare a parlare Giulio la fermò: incassò la firma, ripiegò il banchetto e le propose di pranzare con lui. “Mi sembra un’ottima idea”, sorrise la ragazza tendendo la mano. “Io sono Giada”.
Non si allontanarono di molto: Giulio si fece accompagnare all’auto, posò il banchetto e i volantini nel portabagagli e le propose di sedersi in un pub con cucina tedesca poco lontano dalla sua zona di attività. Giada non aspettò di sedersi per iniziare a discutere della sua causa, ma sembrò voler prendere l’argomento molto alla larga. Era sospettosa, la ragazza: gli fece numerose domande su cosa gli piacesse e cosa no, ma il tono era vagamente inquisitorio, come se ogni risposta di Giulio fosse determinante per il prosieguo della conversazione. Lui, dal canto suo, per non perdere un’occasione del genere si tenne abbastanza sul vago: giudizi non troppo tranchant, nessuna levata di scudi estetica, soprattutto perché se la ragazza trovava naturale andare in giro con un vestito del genere evidentemente non era granché dotata di gusto. L’interrogatorio durò una decina di minuti prima del pranzo e proseguì durante la degustazione di un weisswurst con kartoffelsalat, ma alla fine Giada si decise a scoprire le carte: “Sono del FLCG e vorrei che ti unissi a noi”.
Il FLCG. Ovvero il Fronte per la Liberazione del Cattivo Gusto, una formazione terroristica della quale si sospettava l’esistenza, ma che molti ritenevano fosse solo una balla giornalistica, un espediente per giustificare l’inserimento di specchi stuccati e lampadari dorati in alcuni uffici pubblici. Atti dimostrativi ma mai rivendicati: i giornali avevano ipotizzato che la nuova formazione terroristica volesse protestare in questo modo contro la messa al bando degli oggetti rococò decisa dal governo quattro mesi prima e contro il divieto di utilizzare la parola “kitsch”, ma non c’era mai stata una rivendicazione che facesse pensare a un’iniziativa organica. Adesso Giulio ne aveva la prova: non solo il FLCG esisteva davvero, ma utilizzava gnocche di sorprendente bellezza per adescare adepti. E la pratica, evidentemente, dava i suoi frutti: Giada gli spiegò che il Fronte, in meno di tre mesi, aveva già raggiunto un milione di militanti. Probabilmente gonfiava i numeri, ma non era quello il punto.
Una formazione terroristica. Diventare un individuo misterioso, un pericolo per la società: Giulio era attratto dalla possibilità che gli veniva offerta, oltre che da chi gliela stava offrendo. Accettò. Giada pretese di pagare il conto, si alzò mostrando un culo scultoreo che lì per lì Giulio non aveva notato e lo invitò a seguirla. Lo portò in un palazzone neogotico del centro, sussurrò una parola d’ordine che assomigliava a qualcosa come “La storia di Giovanni e Margherita” e gli presentò altre due amazzoni che dissero di chiamarsi Sonia e Lavinia. La prima immagine che balenò nella testa di Giulio fu una gang bang: districarsi fra Giada, Sonia e Lavinia riflesse in tutti quegli specchi non sarebbe stato male, pensò il ragazzo dando un’occhiata al profluvio di statue neoclassiche che ingombrava la stanza. Le tre fermarono la sua fantasia erotica spiegandogli quale sarebbe stato il suo rito di iniziazione: Giulio fu deluso, quando scoprì che non si trattava di performance di sesso estremo. Tutt’altro: avrebbe dovuto distribuire un centinaio di nani nei giardini della città, ma anche imparare a memoria la formula rituale di giuramento. Naturalmente le tre ragazze condirono la richiesta con argomentazioni sulla necessità del cattivo gusto per fare emergere la bellezza, sul diritto alla libertà d’espressione e sulla temporaneità delle categorie estetiche, ma Giulio tendeva a provocare il vuoto pneumatico nel cervello durante tutte le parti più strettamente politiche. Accettò l’incarico, specificando che avrebbe iniziato il giorno successivo. “Giusto il tempo di restituire i moduli per il referendum 21 per non dare troppo nell’occhio”, spiegò.
La mattina successiva, poco prima dell’alba, era già in auto. Il tour dei giardini cittadini andò abbastanza male, all’inizio: le prime due villette avevano cani molto aggressivi e sufficientemente grossi da far intuire di non aver mai indossato un maglione, ma con un po’ di adrenalina e una piccola dose di fortuna la consegna del nano andò in porto. Le successive trenta furono persino più facili: Giulio imparò a evitare le villette dotate di difese canine, superò indisturbato i cancelli di quelle sprovviste di animali da guardia, posò gli oggetti forniti dal Fronte e sgattaiolò via velocemente. Nessun rischio, niente di più facile: una trentina di nani consegnati in una notte e pochissimi rischi. Quando andò a dormire erano passate da poco le 7: Giulio pensò che gli sarebbero bastate altre due notti per completare l’impresa e abbandonarsi a chissà quali avventure erotiche con le compagne della sua cellula.
L’irruzione arrivò alle 10: appena svegli, una trentina di cittadini aveva denunciato la scoperta di un nano nel proprio giardino e, sfortunatamente per Giulio, alcuni di loro erano sprovvisti di cani perché avevano installato un sistema di videosorveglianza. Uno di questi non si limitò, come gli altri, a inquadrare perfettamente il terrorista, ma riuscì a registrare anche la targa dell’auto. Agli investigatori bastarono poche ore, per rintracciare il sospettato e portarlo in galera.

Giulio era stato processato per direttissima. La pena per gli atti terroristici finalizzati al decadimento del senso estetico collettivo non concedeva valutazioni al giudice: l’unica eccezione alla pena di morte contemplata dal codice penale era concessa ai malati terminali con un’aspettativa di vita inferiore ai tre mesi, ed evidentemente non era il suo caso.
Quando si fu spogliato del tutto, l’agente Mangiaracina gli consegnò un paio di boxer Dolce & Gabbana e un completo scuro di Valentino: al legislatore era sembrato ironico, questo contrappasso nelle condizioni di morte dei terroristi antiestetici. Giulio si vestì di tutto punto, si guardò allo specchio e pensò che in fondo, almeno, moriva vestito con gusto: gli erano sempre piaciuti, questi abiti. Sarebbe stato un peccato, in fin dei conti, abbandonare la vita senza averne mai indossato uno.

venerdì 14 gennaio 2011

L'importanza di chiamarsi Enrico

L'autore che vi presento oggi era partito male. Molto male: vincendo il premio "S. Valentino: poesie e lettere d'amore" (!) di Quartu Sant'Elena. Abbandonata la via romantica, della quale resta, fra altre cose, una discreta traccia qui, si è riabilitato diventando Uomomordecane, nick con il quale ha ottenuto il titolo di cattivo più temibile della blogosfera. Una maledizione, anche quella: ottenuto il premio di Macchianera, invece di ringraziare i servizi segreti, il nostro ha deciso di imbrattare tutto l'imbrattabile: da Umore Maligno a l'Unità, pare che nessun sito che conta possa fare a meno di lui. Visto l'andazzo (e viste le smisurate ambizioni di questo blog), ho pensato di non potermi esimere. Eccovelo.

La mia giornata si era conclusa come tutte le altre, con il mio nome, le mie "elle" e le mie "effe".

Al mattino avevo perso tutto, anche la mia identità. E il senno, senza nessun Astolfo da incaricare per il recupero. Si sa, un figlio unico di due figli unici non ha cugini. Men che meno di nome Astolfo. E comunque sarebbe stato un nome desueto. Anche se la desuetudine è parametro irrilevante ai fini di questa narrazione, che avrei potuto puntellare per i più dando precisi riferimenti come il Canto XXXIV ma poi dove sarebbe stato il gusto della sfida culturale?

Non sapete di cosa io stia parlando. Oppure nicchiate1. Continuate, siete carinissimi.

Altro problema2, neppure io mi chiamavo Orlando, ma da piccolo conoscevo uno che si chiamava quasi uguale: Virgilio; che magari potevano pure essere confusi tra loro, Virgilio e Orlando, se non fosse stato che in realtà si trattava di due nomi diversi. Appartenenti a persone diverse. Una delle quali non esisteva neppure3.

Qualcuno potrebbe chiedersi come si potesse confondere Orlando con Virgilio. Ebbene, dipende dall'edizione dell'antologia che avevate alle medie e dal grado di attenzione profuso dopo la ricreazione a base di grassi saturi (personalmente le compravo più per la sorpresa, le patatine, ma poi che fai, le butti?).
Ma sto divagando e non vorrei trovarmi a parlare del meccanismo di Green-Schwarz. Non sarei all'altezza nè conosco la vostra lingua.

Torno al punto: al mattino suona la sveglia come sempre e "SBADABAM!"
SBADABAM! è il mio cane. Con il punto esclamativo. Ce l'aveva anche quando lo trovai per strada e ho voluto tenerlo.
Quando la mattina suona la sveglia lui si infila sotto le mie coperte e mi aiuta a svegliarmi. Del resto dopo le sette a letto è il suo turno.

Quella mattina però accadde qualcosa di assolutamente insolito: non riuscivo più a pronunciare la lettera "elle" nè la lettera "effe".
Il fatto mi incuriosì dapprima: pensai ad una sorta di sortilegio, e mi piaceva l'allitterazione appena costruita. Ma non credevo a queste cose (le allitterazioni sono fandonie, sapete?). Dunque incolpai la scienza. Attorno a me, del resto, era pieno di tecnologia (televisori ultrapiatti, computer, cellulari, maioliche rarissime), mica di ali di pipistrello e pozioni magiche.
Decisi di andare a fondo alla questione e andai dal mio medico.

- Dunque?
- Dunque non _o so. Ecco! Visto? Ancora!
- Stia calmo e cominci dall'inizio.
- Ancora? G_ie_'ho detto! Ecco! Questo! Non riesco più a pronunciare nè _a "_" nè _a "_"!
- Cosa?
- Ma perdìo! _a "_"! "_"! Non riesco!
- Si calmi Enrico.
- Massimi_iano, ma che _a, non si ricorda nemmeno?
- Bene signor Enrico, ma...
- Massimi_iano!
- Certo, come vuole, ma si calmi ora e sistemeremo tutto.
- Massimi_iano.
- Enrico, certo.
- _ottiti!

Il medico non risolse il mio problema ma mi fece ottenere un alto punteggio a Scarabeo e mi prescrisse un calmante.
Andai in farmacia e anche qui mi chiamarono "Enrico". E così fece Giulio, il mio vicino di casa incontrato sulla via del ritorno.
Sembrava che tutti fossero d'accordo per farmi impazzire ma chi ci andava sempre molto vicino era Giulia, la ragazza del quarto piano: dio che pere! Lei non mi chiamò Enrico. Probabilmente perchè non la incontrai.
Rientrai a casa e mi addormentai sul divao seenza ricontrollare qwesta bozza.

Il sonno portò consiglio. Un ladro si intrufolò nel mio appartamento e mi colpì alla testa nel sonno. Ovviamente mi svegliai e come in un qualunque B-Movie anni '50 il mio cervello ebbe un qualche contraccolpo che mi fece balenare la soluzione.
Ringraziai il ladro (ma come si è ridotto Luca Giurato?) e lo congedai con una dozzina di strafalcioni che avrebbe potuto riutilizzare liberamente nei mesi a venire.

Il problema era presto risolto: la sera prima SBADABAM! aveva sbavato più del solito sulla tastiera, cortocircuitando le lettere "elle" ed "effe". Ovvio che al mattino queste fossero fuori uso. Ma io non potevo saperlo, dunque iniziai la mia giornata come al solito, come se le avessi. Solo una volta iniziato ad usarle mi resi conto del danno ma non feci mente locale e mi spaventai molto.
Che idiota!
Il giorno dopo andai a comprare una nuova tastiera e la plastificai, stavolta.

Quanto all'altro problema, il fatto che la gente mi chiamasse "Enrico", la spiegazione era ancora più semplice e mi vergogno non esserci arrivato prima.
Non farò un torto alla vostra intelligenza, so che a questo punto è evidente il motivo per tale scambio di identità. Ma per i pochissimi magari stanchi a quest'ora lo dirò comunque.
Enrico era biondo.


1 da piccoli non si sa nicchiare, lo sapevate? (torna su)
2 qui la nota non era necessaria (torna su)
3 pensavo per meglio differenziarsi (torna su)

giovedì 13 gennaio 2011

Dovere e apparenza

Anche questa settimana nuovo errebi. Settima puntata della saga (puntate precedenti: 1, 2, 3, 4, 5, 6).

È passato più di un anno da quando Clara e Livio non hanno più visto Francesco. Qualche contatto telefonico di Clara con Elena, niente di più. L’ingegnere scomparso con i cognati ma soprattutto con il nipote. La signora Silvia non sa più che pesci pigliare. Sente, vede la rottura definitiva ma spera, prima di lasciare questo mondo vorrebbe vedere ancora l’unione della famiglia. Ma quale unione poi, non c’era mai stata, solo pro forma e dovere verso i due vecchi, Giulio e Silvia. Ed è così che si arriva all’ultima vicenda. Sta arrivando Natale e tutti si diventa un po’ più “buoni”. Tutti più “buoni” per finta. Regali fatti per dovere, confezionati con cura e un sorriso stampato sulle labbra di rossetto pitturate. Ecco Clara, dovere e apparenza. Tutto nasce con una telefonata di Clara alla madre: “Ciao mamma, non ho dormito nemmeno questa notte. I sonniferi non mi fanno più effetto e piango, non riesco a farmene una ragione”. “Oh, Clara, su, dai, non fare star male la tua vecchia mamma. Quale ragione ti angustia cosi tanto?”. ”Oh mamma dai non far finta di non capire, lo sai bene anche tu. Il distacco con Elena non riesco ancora a spiegarmelo e poi quel povero ragazzo, Francesco, da quanto tempo non lo vedo”. Il distacco la tormenta ma come? Non sono stati loro a volerlo, quel ritirarsi per salvarsi… quello scomparire per salvare il dramma in cui si stava infilando il fragile equilibrio psicologico della famiglia di Clara, dopo l’incidente di Francesco. Ed ora? Rimorsi di coscienza oppure il calcolo metodologico per salvaguardare la propria immagine? Conoscendo Clara dubbi non ne esistono. L’apparenza inganna e lo specchio mente. Giocare con la mamma è la possibilità di aggancio con Elena. Con Claudio non era certamente possibile. “Apetto ancora le loro scuse. Devono venire qui a casa nostra. E non è per lo stronzo con cui mi ha apostrofato Livio l’ultima volta che ci siamo visti ma per come ci hanno scaricato in un momento in cui non potevamo permettercelo. Aspetto, e se veramente Livio, come ha sempre detto, è un uomo con le palle, abbia il coraggio di venire qui e parlarne e non continuare a nascondersi mandando avanti in prima linea la moglie”. No, con Claudio era proprio impensabile. Ed ecco allora il modo di usare la mamma come interfaccia per riagganciare Elena. “Francesco, mamma, il desiderio di andarlo a trovare è continuo, dammi una mano, senti Elena, vedi se c’è una possibilità”. “Ma certo Clara, lascia fare a me. Telefono io a tua sorella vedrai, non farà problemi”. Insomma anche questa volta Clara ha centrato l’obiettivo, usare la signora Silvia. Da un po’ di tempo ormai aveva quell’atteggiamento triste, sconsolato e davanti ai genitori era un martello pneumatico continuamente a ripetere il suo star male di fronte a una situazione che certamente lei non aveva né voluto né cercato. Prima la rottura con Virginia per quella consulenza sul passo carraio, poi quella con Elena, no proprio non ce la faceva più. Si sentiva ormai isolata, messa da parte, e il suo orgoglio ne soffriva terribilmente. Non fatevi commuovere comunque dalle false buone intenzioni. Stesso refrain anche l’anno scorso nello stesso periodo. La tecnica però un po’ diversa… usava i messaggini dove rispolverava lo stile retorico del signor Giulio: “Che lo spirito natalizio risvegli sentimenti famigliari sopiti e ci ritrovi uniti sul desco della santa festa”. E giù risate da Claudio mentre Elena, indifferente alle parole della sorella, non ci faceva più tanto caso. “La situazione Claudio era già difficile prima, non c’è proprio nulla da meravigliarsi. Anzi proprio gli ultimi fatti mi hanno molto aiutato. Ho sviluppato un siero antiveleno, funziona ed ora sto meravigliosamente bene”. Clara la zia perbenista con la figlia più brava laureanda, con il marito da invidiare, conclamata al suo narcisismo che sotto le festività natalizie, presa dall’atmosfera che la circonda, riaccende il fuoco dell’unione famigliare che si è sgretolato alla prima vera difficoltà. Situazione grottesca creata da lei da suo marito di cui non si accorgono accecati da quell’orgoglio di sentirsi un gradino più alto perché loro sono la “famiglia”.

La signora Silvia non perde certamente tempo. Alla prima occasione telefona alla figlia Elena, i soliti futili convenevoli e poi: “Sai Elena tua sorella Clara sta molto male”. Dall’altro capo del filo silenzio. “Ieri era qui con me ed è scoppiata in pianto”, che falsa Elena pensava. “Vorrebbe tanto poter andare a trovare Francesco in istituto prima che torni a casa”, l’offesa qui a casa però non viene pensava Elena ascoltando la mamma dall’altra parte del telefono. “Sì, allora, andrei anch’io con lei ma, gli manca il coraggio di chiedertelo, che ne pensi, farebbe certamente molto piacere a Francesco”. “Mamma, non ci sono problemi fate quello che pensate più giusto. Tanto cosa vuoi peggio di così!”. “Oh Elena cosa dici dai. Non sei contenta che tua sorella abbia piacere di andare da suo nipote?”. “Sì mamma molto contenta”. “Beh va bene dai ci sentiamo così la prossima volta mi darai tutte le indicazioni necessarie per arrivarci. Ciao Elena”. “Ciao mamma”. Ma guarda un po’ dove siamo arrivati, pensava Elena. “Sai Claudio, Clara e la mamma vanno a trovare Federico in istituto”. Dall’altra parte dapprima silenzio poi: “È l’ingenuità, Elena, l’essere a volte troppo buoni a fregarci, ad ammazzare il nostro dentro a sentirci scoppiare, come sto scoppiando adesso, a soffocare nell’autocontrollo e nell’educazione il non permettergli di andare. Comunque, ormai, che vadano anche se io non sono proprio d’accordo”. Dopo più di un anno si potrebbe pensare forse, chissà, Clara ci sta provando, vuol far capire ma non è certo così, è dovere, è apparenza, è perché le feste, è perché come direbbe proprio lei: “È essere amati da chi ci sta a cuore e da chi amiamo di più...”.