martedì 30 novembre 2010

La piccola fiammiferaia

Ci misi qualche istante a metterla a fuoco. Era lì, all’angolo fra via Marconi e via dell’Unità, ed era come se all’improvviso si fosse catapultata in città da un’antica reminiscenza. Un ricordo dell’infanzia, forse, o forse l’immagine di un film trasportata di peso nella realtà. Ma no, non stavo sognando. Vendeva fiammiferi, come nella fiaba.

La ragazza era malvestita. Era sporca, probabilmente; senz’altro era povera. E, diavolo, sembrava strappata a morsi da un’immagine dell’Ottocento: non mi sarei stupito se, d’un tratto, accanto a lei si fossero materializzati dei lustrascarpe o, che so, una carrozza con i cavalli bianchi. Chiusi gli occhi: quando le palpebre si rialzarono il tram passava davanti a me, il traffico era impazzito come sempre e una Mercedes Classe C sfrecciò veloce per dimostrarmi che no, non ero finito in un gorgo temporale. Ero lì, nel ventunesimo secolo, e mi trovavo davanti una fiammiferaia. Attraversai la strada, forse spinto dal dovere antico di aiutare le creature delle fiabe.
“Vuole cerini, signore?”, mi domandò lei. Era una ragazza molto bella: gli occhi, pieni di luce, rischiaravano un volto sporco, ma senz’altro desiderabile. Indossava una maglietta bisunta e un paio di jeans strappati, e sedeva nell’angolo, di fronte al lampione acceso da poco, con una cesta di scatolette fra le gambe. Una radio, unica concessione alla modernità di quel quadro, gracchiava una canzone degli Urge Overkill che raccontava di un amore sbagliato, e mi dissi che doveva essere una premonizione: intuii che se avessi ceduto, se mi fossi fermato a parlare con lei, in pochi istanti mi avrebbe commosso, travolto, in definitiva coinvolto. Non era il mio tipo, come diceva la canzone, e bastava guardarci in quell’istante per capirlo: io, in giacca e cravatta, perso fra conference call e colazioni di lavoro, e lei, lercia, stracciona, all’angolo di una strada a vendere una merce fuori tempo, forse a far presa proprio sulle fiabe per conquistare un po’ di attenzione.
Fu la voglia di fumare a prendere il sopravvento. Non avevo accendino, in fondo, e mi dissi che non ci sarebbe stato nulla di male in un normale scambio. Che sì, sarei riuscito a scacciare i miei demoni, avrei allontanato la voglia di cambiare tutto, di mettere una pietra sulle liti con Marianna, sui pianti notturni dei bambini, che non avrei ceduto alla perdizione, alla voglia di tornare un ragazzino, di inseguire una vita da vagabondo, libero e senza pressioni. Sarebbe passata, questa sindrome di Peter Pan, sarebbero passate le angosce della routine e tutto sarebbe tornato normale. Addirittura gradevole, desiderabile: la mia famiglia, i miei figli, il focolare. Il mito della stabilità, ecco tutto, la quotidianità rassicurante di un lavoro sereno, integrato nella società. Le lasciai una moneta da due euro, ma per un istante la mia curiosità mi possedette. Pretesi che oltre ai fiammiferi mi consegnasse il suo nome. “Lisa”, si presentò con un inchino la ragazza. Poi, come a proteggersi dal freddo, ma più probabilmente per farmi pietà, accese un fiammifero. Scoprii solo in quel modo quel che nella fiaba non veniva descritto: i fiammiferi appestano l’aria di zolfo, la rendono irrespirabile. Che la fiammiferaia di Andersen, probabilmente, sarebbe morta asfissiata, prima ancora che assiderata.

Il giorno dopo era ancora lì, e io tornai da lei. Passarono ventiquattr’ore e lo feci di nuovo, e poi ancora per tutto il mese: ogni giorno una scatola di fiammiferi, ogni giorno una moneta da due euro, ogni giorno un dettaglio della sua vita e un cerino acceso prima che andassi via. Scoprii che veniva da Venezia, che viveva in una baracca in periferia, che aveva venduto fiammiferi in tutta Europa. Che era cresciuta senza genitori, che si procurava la merce all’ingrosso, che aveva una passione per i gatti. Che credeva di avere un fratello ma non sapeva dove abitasse, che ogni giorno riusciva a vendere una trentina di scatole, che la prossima tappa del suo viaggio sarebbe stata Torino. Che festeggiava sempre le vendite accendendo un cerino. Che aveva bisogno di compagnia.

Quando entrò nella camera d’albergo pretesi che si lavasse. Che si togliesse quell’odore di dosso, che indossasse i vestiti che avevo comprato per lei, che si spruzzasse un po’ di profumo. Non fu granché utile: l’odore dello zolfo, se respirato con insistenza, penetra a fondo nella pelle, la possiede, la fa sua.
L’amplesso fu lungo e intenso. Lisa non parlò, sembrò non aver fiato, ma mi stupì per la confidenza col mio corpo che mostrava: sembrava sapesse come farmi vibrare, sembrava conoscere ogni dettaglio della mia sessualità. Raggiungemmo l’orgasmo nello stesso istante, ma poi fu veloce a rivestirsi. La guardavo ebbro, fra le lenzuola, e non capivo la sua fretta: avrebbe potuto dormire in un albergo, per un giorno, non avrebbe avuto problemi di freddo o di cibo. “Dove vai?”, le chiesi, pensando che sarei stato io a dover fuggire, a tornare da Marianna e dai bambini. Non mi rispose: Lisa entrò in bagno, come per sistemarsi, come per farsi bella. Come per fuggire.
Fu l’ultima volta che la vidi. Quando entrai nel bagno, vi trovai solo una nuvola di zolfo.

lunedì 29 novembre 2010

Denti piccoli

Apriamo una settimana con una nuova ospite. Date il benvenuto in questo spazio e nella blogosfera a 13 tacchetti.

Si dovevano incontrare. Non vi dico dove, non vi dico perché, il punto è solo che si dovevano incontrare e non si erano mai visti. Post di qua, commento di là, da un paio di mesetti si sentivano con frasi e faccine sui rispettivi blog ma non si erano mai visti. Il che rendeva tutto più interessante. Insomma, scoprirono che andavano tutti e due allo stesso congresso, e si diedero appuntamento. Non troppo preciso, solo un “ci vediamo lì”, e si scambiarono i numeri di cellulare per potersi sentire. O meglio, scrivere. Perché era chiaro a tutti e due che dopo tanto aspettare non valeva la pena rovinare la sorpresa di sentir la voce dell’altro uscir dalla sua bocca, senza più mezzi di alcun tipo. Senza esserselo detto sapevano che si sarebbero solo scritti degli sms per incontrarsi.
Quindi lui le scrisse “Ma sei già arrivata?” e lei rispose “Eh sì”.
“Bene, e adesso come ti trovo?”.
“Mah, sono allo stand verde, lo vedi?”.
“Sì, lo vedo, ma tu quale sei?”.
Silenzio. “Non so, dimmi come sei fatta, come ti riconosco? Ci sono mille ragazze, lì allo stand verde. Dimmi qualcosa di particolare...”.
Ah, bella domanda, pensò lei. Cosa indossava? Jeans e maglietta, nera. Non era tanto alta, ma non proprio la più nana. Castana. Non aveva neanche delle gran tette, ché quelle, lo sapeva, lui le avrebbe notate eccome. No, cazzo, cos’è che mi distingue dalle altre?
“Ho i denti di fianco agli incisivi molto piccoli”.
Ecco, l’aveva scritta. Oh, era la verità. Mica tutti hanno dei denti così piccoli. Per esser precisa scrisse pure un secondo messaggio: “Per capirci, tra gli incisivi e i denti piccoli ci son dei buchi, che tanto son piccoli, che se voglio posso bere il latte senza aprir del tutto la bocca”.
Eh, era stata sincera. C’è chi ha le tette grandi e chi ha i denti piccoli.
Francamente non pensò tanto che lui la potesse prendere per un’idiota, con ‘sta storia dei denti piccoli. Per lei aveva semplicemente senso.
E in effetti lui rispose solo “Ma scusa, come faccio a vedere se i tuoi denti sono piccoli? Non starai mica tutto il tempo a bocca aperta, no?”.
Anche questo aveva un senso.
“No. Però se mi fai ridere i miei denti li vedi”.
E fu così che lui si mise d’impegno a parlar con le varie ragazze che stavano allo stand verde e iniziò a sparar cazzate come solo lui sapeva fare, e lui sapeva che a lei le stronzate che diceva lui piacevano, perché il (rofl) non mancava mai, nei suoi commenti.
E ci prese anche gusto a dirne una più stupida dell’altra e a concentrarsi sulla bocca della ragazza di turno. C’erano quelle che manco ridevano. Avranno aspettato quello sfigato che cercava la ragazza dalla risata impossibile. Mah, se le poteva pure tenere. Lui voleva quella coi denti piccoli. E a furia di dir cazzate e veder denti grandi passò lo stand verde al setaccio: c’erano varie fessure tra i due incisivi alla Madonna, denti storti, macchie di caffè, ma così come li aveva descritti lei i denti oh, lui non ne trovava.
Poi all’improvviso, mentre si girava per cercare una ragazza con cui non avesse ancora parlato, s’inciampò, piede sinistro atterrò male, piede destro anche lui scoordinato, braccio sinistro provò disperatamente a ristabilire l’equilibrio ma: mano destra, nell’ultimo tentativo di mantenere il resto del corpo in piedi, andò a toccare la tetta, anche lei destra, della tettona di fianco a lui. Scandalizzata lei gli urlò contro “Pervertito! Lo sapevo che non eri a posto, a dir tutte quelle battute del cazzo! Lo sapevo che ci provavi e basta!”. Era una di quelle che non avevano riso. Rialzatosi da terra, lui provò a giustificarsi “No guarda, io volevo solo vedere se avevi i denti piccoli, davvero…”.
E sentì finalmente una risata. Si girò. Cazzo, che bocca grande con quella risata sonora! E che denti piccoli!
Le andò vicino.
(hug)

venerdì 26 novembre 2010

Innocenti evasioni

L'avevano trovata chissà come, quella foto. Non era su Facebook, questo era certo, ma da qualche parte dovevano essersela procurata. Fatto sta che adesso campeggiava a pagina 7 del Giornale di Sicilia con tanto di didascalia: “L'imprenditore Egidio Di Paola, titolare della pizzeria 'Acquasanta', denunciato ieri a piede libero dalla Gyardia di finanza”. Neanche la cura di rileggere la didascalia: sbatti il mostro a pagina 7 e lascia una y al posto della u. Categoria sciatta, quella dei giornalisti.
Anche l'articolo non era così accurato come si sarebbe aspettato: si spiegava che Di Paola era stato sorvegliato per mesi “dalle Fiamme Gialle”, che ventuno volte i militari erano andati a cena da lui “e neanche una volta era stato rilasciato lo scontrino”. Peggio: “Nei sei mesi di controlli, la pizzeria 'Acquasanta' ha emesso ricevute per appena 1.300 euro, a fronte di un giro d'affari stimato in 16 mila euro al mese”. Totale calcolato, secondo le valutazioni della Finanza riportate acriticamente dal giornalista, “un'evasione fiscale accertata pari a circa 95 mila euro”. Seguivano le dichiarazioni entusiastiche del comandante, un accenno alla difesa curata dall'avvocato Sandro Massaro e l'annuncio di un “imminente giro di vite contro l'evasione fiscale, un fenomeno che sottrae risorse allo Stato e che a Palermo non accenna a diminuire”.
“Come hanno fatto a ricostruire il giro d'affari della pizzeria? – disse Di Paola – Se non ho emesso scontrini come fanno a dire che guadagnavo 16 mila euro al mese?”. L'avvocato Massaro non fiatò: “E poi, avvocato, si rende conto di cosa significa? Io resto aperto una ventina di giorni al mese, cinque giorni alla settimana. Praticamente, secondo loro, incasso 800 euro a sera, ogni sera. Pure il mercoledì, lo capisce?”. L'avvocato staccò gli occhi dal giornale per un istante e si sfilò quei pezzi di vetro grezzo che chiamava occhiali. Di Paola non ebbe il tempo di chiedersi come facesse Massaro a vedere senza indossarli che una zaffata di cipolla e peperoni lo raggiunse: “E noi lasciamoli fare”, fece l'avvocato.
Il ristoratore osservò Massaro in apnea. Quello, nel frattempo, sembrò essere entrato in trance: quasi disinteressandosi del suo interlocutore sfilò una carpetta da un cassetto, spostò indietro la sedia e si alzò per avvicinarsi alla finestra. Poi, d'improvviso, tornò a rivolgergli la parola, ma stavolta oltre la distanza di sicurezza, abbastanza lontano perché la caponata del giorno prima o di chissà quando non potesse raggiungere le narici di Di Paola: “Ce l'ha un amico giornalista?”, fece. “Beh, sì – rispose l'imprenditore –. C'è il figlio di mia cugina, cioè, credo che lavori ancora a Tvs. Perché, avvocato, vuole che gli facciamo arrivare una smentita?”.
Massaro si immobilizzò: guardò il suo cliente con gli occhi sbarrati, come se si stesse accorgendo solo in quell'istante di non essere solo nella stanza.
– Una smentita?
– Certo, avvocato. Non è vero che guadagno 16 mila euro al mese, sono tutte infamità. Avvocato, questi mi vogliono incastrare.
– Ma lei lo scontrino ai finanzieri gliel'ha mai dato?
– No, che c'entra? Ma lei lo sa come funziona: la crisi, le spese. Cioè: lo sa a quanto me la passano la mozzarella? E poi...
– Non m'interessa quanto costa la mozzarella. Lei con me non è che si deve difendere, ma se gli scontrini non glieli ha dati, mi capisce? Non è che la vogliono incastrare: è colpa sua.
Di Paola sembrò aver perso il filo: l'avvocato gesticolava e soffiava parole, in un momento sembrava un torquemada pronto a torchiarlo e nel successivo, anche nel corso della stessa frase, l'amico buono pronto a trovare una soluzione.
– E che dobbiamo fare? Conciliamo?
– Questo non è un divieto di sosta, Di Paola. Questa è evasione fiscale. Dobbiamo diventare eroi.
– Cioè?
– Cioè ora lei chiama suo cugino o quello che è e facciamo un bellissimo comunicato stampa. Scriviamo che sì, è vero, lei guadagna sedicimila euro al mese, ma le fatture non le rilascia perché lei resiste. Mi capisce?
“Mi capisce”, domandava l'avvocato. No, che non capiva: Di Paola guardò ancora una volta in silenzio Massaro.
– Mi segua: in questa città un locale su tre, forse anche uno su due, è gestito dalla mafia.
– No, avvocato, questo glielo giuro: io non c'entro con la mafia.
– Lo so che non c'entra, altrimenti non sarebbe così spaventato per un'evasione fiscale. Mi faccia finire: secondo lei perché la mafia apre pub, creperie, pizzerie e cose del genere? Perché ai mafiosi avanza tempo?
– No, cioè, non lo so: per investire?
– Sì, ma i locali, e lei lo sa perché compra la mozzarella a sangue di papa, non sono buoni investimenti. Però pub e pizzerie hanno un vantaggio: molta liquidità, cosa che con le costruzioni, con il movimento terra, che so? Con i rifiuti e con la sanità non c'è. E allora che fanno, i mafiosi? Aprono una pizzeria come la sua, staccano centomila scontrini, fingono di incassare un sacco di soldi e i guadagni, che so, del pizzo o della droga diventano puliti. Mi capisce adesso?
– Sì, cioè: no. Io che c'entro?
– Lei c'entra perché noi adesso facciamo una lettera aperta. Diciamo che lei è un eroe, mi capisce? Diciamo che non emettere fatture, in Sicilia, a Palermo, è l'unica garanzia di essere puliti. Che lei è un ristoratore che resiste all'invasione di Cosa nostra. Che la guardia di finanza deve andare a controllare chi li emette, gli scontrini, e non chi non li fa, perché quelli sono i veri criminali. Perché quegli scontrini, uno a uno, sono tutti sporchi di sangue. Mi capisce? Voglio farla diventare il nuovo Saviano, il Saviano dei ristoratori. Devono avere il coraggio di condannarla: condannare un eroe, mi capisce?
“Il Saviano dei ristoratori”: Di Paola sorrise senza avere il tempo di chiedersi se ci fosse da fidarsi. Se quello fosse solo il tentativo di un avvocato di farsi pubblicità a buon mercato. In fondo, comunque, non era male come prospettiva: “Egidio Di Paola, il ristoratore antimafia”, e via con le interviste sui giornali, le fotografie, i servizi. Tutta pubblicità gratuita: per Massaro, certo, ma principalmente per lui.
– Va bene, avvocato. Chiamo il figlio di mia cugina e gliela faccio scrivere.
– Prima di mandarla ai giornali me la faccia leggere, mi raccomando.
– Certo. Quanto le devo?
– Allora, vediamo: per il parere pro veritate fanno 120 euro. Poi, per il giudizio, facciamo tutto un conto unico.
– Mi fa la fattura?
– E che sono mafioso, io?

giovedì 25 novembre 2010

Memoriale della facoltà

Dopo il successo del primo racconto, è il momento del ritorno. Con una storia quanto mai "sulla notizia", riecco a voi web runner.

Dopo due settimane di occupazione, la stanchezza si fa sentire per forza.
Josè gettò uno sguardo circolare alla grande aula della Facoltà di Lettere e Filosofia piena di giovani compagni e compagne. Guardò i visi dei suoi amici più cari, Bernardo, Ricardo, Alvaro, le facce tirate, gli occhi gonfi, i sorrisi forzati. Da due lunghe settimane avevano lanciato la loro battaglia contro un governo che stava precipitando il paese verso il baratro dei suoi giorni più bui, quelli che nonno Fernando gli aveva raccontato tante volte negli anni passati.
I giorni della dittatura.
Non si era ancora a quel punto, diceva ora il vecchio. E non sarebbe stato come allora. Ma di motivi di preoccupazione ce ne stanno da vendere, sosteneva. E la colpa è della mia generazione, figliolo. La gramigna non la si falcia, la si estirpa con tutta la radice. Perché ripropone le sue varianti quando pensi che il tuo campo abbia ricominciato a prosperare, nutrendosi della sua stessa acqua e della sua stessa luce.
Cominciò con l’intolleranza verso gli stranieri. La costruzione di famigerati “Centri di Permanenza Temporanea”. Poi arrivarono le ronde di privati cittadini, che cessarono quando l’esercito cominciò a girare per le strade.
Dall’estero cominciarono a guardare il paese con sospetto, le grandi democrazie non lo ritenevano più un alleato affidabile. Solo le autocrazie prendevano il governo sul serio, e nonno Fernando fece notare sgomento a Josè che eravamo rimasti gli unici ad avere rapporti di amicizia addirittura con quel fantoccio che fingeva di governare l’Italia.
L’Università e la ricerca furono colpite con la violenza di un tornado. Nelle facoltà di Scienze e Medicina furono ritirati tutti i fondi pubblici e la ricerca fu appaltata alle grandi multinazionali farmaceutiche. La facoltà di Ingegneria divenne terreno di caccia delle industrie delle armi.
E alla Facoltà di Lettere venne riservato il destino peggiore: dall’anno accademico seguente, il progetto del ministero prevedeva la sua trasformazione nella Facoltà di Storia della Patria e Teologia. La Chiesa giocava nascostamente un ruolo fondamentale in questo piano. Non fidarti mai dei preti, figliolo. Nonno Fernando era categorico. Nei momenti di crisi, si insinuano come anguille. L’ho sperimentato di persona tanti anni fa. Vedrai se non cercheranno di legare il paese con una fune, e di riportarlo a tempi che credevamo sepolti…
Corsi e ricorsi, pensava Josè tristemente.
Così, i ragazzi e le ragazze del collettivo di Lettere e Filosofia, armati solo di sacchi a pelo, cucine da campo e amore per la cultura, avevano occupato la facoltà, imitati dai colleghi di tutto il paese. Idealmente con loro, i rappresentanti delle opposizioni e di tutte le istanze democratiche.
Inizialmente, solo la polizia presidiava la Facoltà. Dopo qualche giorno fecero la loro comparsa le lugubri camionette dell’esercito, schierate in massa nella grande piazza dove si affacciava l’elegante edificio cinquecentesco.
Ma il governo prendeva tempo, non se la sentiva ancora di passare a un’azione che avrebbe potuto segnare un punto di non ritorno. Dal canto suo la Chiesa sembrava volersi proporre come mediatore con i ragazzi, mettendo in campo la sua grande magnanimità.
Josè caracollò esausto fino al bagno. Quella giornata estenuante stava per finire, finalmente. Si guardò a lungo allo specchio, e riconobbe di aver scorto in quei visi il suo aspetto stesso. Cazzo! Ci condurranno al punto di sbranarci fra di noi, pensò.
Josè si sciacquò il viso e tornò in aula dagli altri. Si affacciò alla finestra, e come al solito la vista di quei cassonetti verdi pieni di automi armati gli strinse lo stomaco. Guardò di nuovo i suoi compagni, e ricordò con timore ciò che era avvenuto poche ore prima.
Quel giorno, il Cardinale in persona era andato a far visita agli studenti. Alto, sulla sessantina, disinvolto, venne accolto con curiosità dai ragazzi, che non riuscivano ancora a vedere la Chiesa come corresponsabile dell’involuzione del paese. Del resto, molti di loro erano cattolici; degli altri, una discreta parte pensava che il loro paese non era l’Italia, e che la Chiesa fosse in quel caso un mero strumento del governo. La storia non gli ha insegnato niente, diceva nonno Fernando nella testa di Josè quando questi discuteva dell’argomento coi colleghi.
Era affascinante, il Cardinale. Un oratore nato. E gli studenti erano stanchi, e soggetti a subirne il carisma. Parlò qualche minuto senza dire niente di concreto, ma in molti scambiarono le sue frasi di circostanza per sincero interessamento. Mentre parlava, una luce obliqua proveniente da una delle finestre incideva sull’enorme anello al dito medio della mano destra del Cardinale. Josè non poteva distogliere gli occhi da quel simulacro del potere. Alla fine, mentre il Cardinale si accomiatava, in diversi si accodarono per baciargli l’anello.
Josè attese il suo turno. È un uomo come gli altri, pensava. E come gli altri lo tratterò. Al suo momento, ruotò di 90 gradi la mano prona del Cardinale e gliela strinse guardandolo dritto negli occhi. Il Cardinale ricambiò lo sguardo, e solo in un secondo tempo ricambiò la stretta. Rimasero così per qualche secondo. Il Cardinale fu il primo ad allentare la stretta, e a distogliere lo sguardo, dirigendosi verso la porta senza proferir verbo.
Josè, immobile e con la mano destra a mezz’aria, lo guardò uscire. Non pensava a niente, perché si sentiva la mano bruciare. Bruciare! Lentamente gli occhi andarono al palmo aperto, tremante. Suggestione, pensò, ma quel calore gli sembrava terribilmente concreto… in qualche minuto si trasformò in un formicolio, fino a svanire del tutto.
Quella sera, Josè col suo solito gruppo si distese nel suo sacco a pelo in una delle aule al primo piano, quella col televisore. Si girò da una parte e dall’altra per un po’, la faccia e l’anello del Cardinale gli si erano insinuati in testa, e non riusciva a prendere sonno. Pensò se non fosse il caso di andare a fare due passi, l’ingresso posteriore di notte non era mai sorvegliato e si poteva uscire e rientrare tranquillamente. Ma la grande stanchezza lo tratteneva.
All’improvviso si trovò all’aria aperta. Evidentemente aveva trovato la forza di uscire. Un buio impenetrabile lo circondava, tutte le luci cittadine erano spente. Che strano. Si diresse istintivamente, scendendo i ripidi vicoli della città alta, verso la grande porta quattrocentesca, unico residuo delle vecchie mura rimasto da quella parte della città. Oltrepassò la porta mentre iniziava ad albeggiare. Possibile che fosse così tardi? Si tastò il polso sinistro. Non aveva orologio.
Percorse ancora qualche decina di metri, l’inquietudine che gli montava dentro. La tenue luce dell’alba non mostrava gli isolati della città bassa che Josè si aspettava di vedere. Si trovava in aperta campagna, nessun dubbio era possibile. Si voltò: le mura demolite nel diciannovesimo secolo affiancavano la porta.
Gli occhi di Josè si sgranarono mentre fissava quello spettacolo inconcepibile. Guardò in basso, ma non fece in tempo a rendersi conto di cosa erano diventati i suoi indumenti da ventunesimo secolo, che il grido “Eccolo! Prendetelo!” e il rumore di una carrozza in rapido avvicinamento risuonarono a pochi metri da lui. Fu tutto estremamente rapido; in pochi secondi Josè si ritrovò prono sul fondo della carrozza, legato, imbavagliato e bendato. Sembrò durare un’ora a Josè quel viaggio di pochi minuti. Ogni scossone della carrozza era un colpo del naso sul fondo, ogni colpo era un fiotto di sangue che gli negava il respiro, il respiro mancato gli stordiva i pensieri, gli innalzava il terrore, che gli rilasciava gli sfinteri. Lo trascinarono fuori dalla carrozza, gli tolsero il bavaglio. La stazione eretta e un paio di respiri profondi lo rinfrancarono un po’.
Entrarono in un edificio e scesero diverse rampe di alti gradini di pietra, l’umidità e il freddo penetrarono rapidamente nelle ossa di Josè. Lo slegarono e gli tolsero la benda. Josè ci mise qualche secondo ad abituarsi all’oscurità di quell’angusto corridoio illuminato solo da poche candele. Due uomini incappucciati lo conducevano. Passarono davanti a una cella chiusa da pesanti sbarre. “Lasciali perdere, domani bruceranno a beneficio del popolo”, disse uno degli incappucciati.
Josè guardò, sette uomini stavano addossati in uno spazio angusto anche per quattro, le barbe lunghe, gli sguardi vuoti. Quello più a destra sembrò familiare a Josè. Gli mancava la mano sinistra. Josè si lasciò spingere via sgomento, il terrore gli impediva di rendersi conto che il moncone era cicatrizzato da anni.
Lo condussero in fondo a quel lugubre corridoio e attraversarono una soglia che introduceva un inferno dimenticato sulla terra.
La sala di tortura era un enorme stanzone quadrato, col soffitto a volta. Josè fu condotto al centro, dove stava una tavola inclinata a 45 gradi affiancata da un armadio privo di ante e stipato di strumenti di ferro. Addossati a una parete, due grandi bracieri, l’uno ripieno di brace, l’altro che emanava una viva fiamma.
I sensi di Josè erano sconvolti, travolti da un’inconcepibile miscuglio di urla laceranti, odori di decomposizione della carne e dell’anima, viste intollerabili ad occhi umani. La lingua gli si rattrappì in bocca, prima di rivoltarsi scossa dai conati.
In uno degli angoli della sala, di fronte all’entrata, quattro uomini sorvegliavano gli effetti della culla di giuda su un disgraziato giunto ormai alla fine delle sue sofferenze. Nell’altro angolo si stava consumando l’epilogo di qualcosa coinvolgente un velo e un’immensa quantità d’acqua, quando la porta si aprì.
L’anello fu la prima cosa che Josè vide.
Il Cardinale avanzò con calma studiata verso il centro della sala, gettando un breve sguardo verso gli angoli. Sulle sue labbra si poteva indovinare un debole sorriso compiaciuto. “Bene, amico mio. Mi auguro che lo spettacolo sia stato di tuo gusto”.
I suoi occhi magnetici erano due fari puntati in quelli stanchi, svuotati di Josè.
“Siete strani voi eretici, sai? Sembrate sempre pensare che la Santa Madre Chiesa sia giunta alle soglie del diciassettesimo secolo senza avere la capacità di schiacciare l’eresia come una mosca fastidiosa”. Gli occhi di Josè ebbero un guizzo. “Oh, so cosa vorresti dire. Che non possiamo distruggervi tutti. Lo so bene, non temere. Se io potessi, farei l’unica cosa seria possibile: estirperei la gramigna con tutta la radice. Ma non è ancora tempo. Intanto, usiamo da par nostro la falce”.
Le labbra di Josè fecero un debole tentativo di aprirsi. “Risparmia il fiato, ti servirà. Sai quando si avvicinerà quel tempo? Quando voi eretici inizierete a darci fiducia. A conferirci un’aura di rispettabilità. Quando direte che è giusto collaborare con noi. Sarà il suicidio delle vostre idee, perché noi non cambieremo mai…”. Il Cardinale lanciò un ultimo sguardo, limpido e diretto, negli occhi di Josè. Si voltò, con lui aveva evidentemente finito. Si rivolse ai due uomini incappucciati, col tono sicuro di chi sa che verrà prontamente ubbidito. “Iniziate dalla mano destra”.
Non se lo fecero dire due volte. Afferrarono Josè e lo legarono sulla tavola inclinata, con la testa in basso perché non perdesse i sensi. Le tenaglie furono rapidamente arroventate, le unghie dall’indice al mignolo saltarono a una a una, altrettanti spilloni furono infissi nella carne viva. La testa di Josè esplose in un uragano di dolore, di angoscia, di terrore. Fu la volta delle due asticelle metalliche. Il pollice si adattava perfettamente in mezzo. Mentre uno degli incappucciati iniziava a stringere le viti, la sala iniziò a ruotare. E ruotare. E ruotare...
Fradicio di sudore, Josè si rizzò a sedere. Il sole era già alto e intorno a lui i compagni già fremevano di attività. Li guardò a lungo inebetito, cercando di far passare quel tremore inarrestabile che lo scuoteva.
Quando si fu calmato, il televisore reclamò l’attenzione dei suoi sensi.
Lui era lì. Un’innocua intervista.
Josè si lanciò sul telecomando. Ma dovette arrestarsi inorridito. “Non riesco a prenderlo! Non riesco a usare la mano destra!”.
Le sue urla attirarono l’attenzione di tutti. Il suo viso cereo era spaventoso. Ricardo, l’amico fraterno, lo scrutò con curiosità. “Per forza, ci hai dormito con tutto il peso del corpo sopra”, gli disse in tono bonario, nel suo sorriso c’erano tutti i dieci anni d’amicizia.
Le pupille di Josè viaggiarono rapidamente fra quelle dell’amico, la sua mano solcata dalle guizzanti formiche di un circolo che si andava normalizzando e l’immagine sullo schermo.
Alla sua vista un ghigno di disgusto gli comparve sul volto. “Ah, ho capito! Eccolo, il ghigno del mangiapreti!”. Il sorriso di Ricardo si allargò ancora. “Ma guarda, Josè, secondo me stavolta esageri. Sai che la penso come te ma… beh, stavolta forse sarebbe giusto dare un po’ di fiducia alla Chiesa, e iniziare a collaborare con loro…”.
Josè guardò l’amico con occhi distanti, da un altro mondo.
Un lungo, straziante brivido gli corse lungo la schiena...

mercoledì 24 novembre 2010

Il processo

Un altro ospite, un altro racconto. Ecco a voi l'incubo processuale di Br1.

"Tutti in piedi, inizia il processo".
Toga rossa, naso decisamente troppo grande, sguardo poco attento: mi ricorda parecchio uno dei due preti del "Funerale a Ornans", con l'unica differenza che non vi è nessuna messa da celebrare, ma semplicemente la mia condanna.
Poca luce nella sala, proveniente da un'unica finestra situata alle mie spalle: non ne sono illuminato, fa però risaltare i volti dei curiosi che numerosi erano accorsi ad assistere all'atto finale di questo mio martirio. Quasi tutti, proprio come nel quadro di Courbet, sono più seccati che altro, presenti unicamente per poter dire di aver partecipato a quello che ormai è diventato un evento mondano: sì, il mio processo pare sia di interesse pubblico. Li fisso. Uno a uno. Tutti uguali! Tutti schifosamente uguali! Donne, uomini, ricchi e poveri, tutti con quel medesimo sguardo assente che avevo già notato nel giudice.
"La parola all'accusa".
Accusa? Chi mi aveva accusato? Da dove era iniziato il processo? Lo ignoro. I suoi familiari... No, impossibile, la amavano quanto me, hanno capito. I suoi amici? Stesso discorso. Pare che tutto sia nato da sé. Da dove è spuntato quel maledetto avvocato? Non l'ho mai visto prima, in ogni fase del processo è cambiato il volto di colui che di volta in volta mi ha attaccato, ma non l'abito, non il tono della voce, non il cuore.
"Alla luce di quanto emerso dalle indagini e dalla perizia effettuata dal medico legale si evince chiaramente che la signora C. è morta di arresto cardiaco, la cui causa va ricercata nella persona del signor Edoardo. Esaminando il referto medico si evince che, cito testualmente: 'Il cuore pare come esploso, per una causa esterna all'organismo; si tratta di tutto fuorchè di una morte naturale', e questa causa va individuata per l'appunto nel qui presente Edoardo. Chiedo quindi, come ho d'altronde espresso in ciascuna tappa di questo processo, il massimo della pena per l'omicidio della signorina C.".
Cenni di approvazione da parte del pubblico. Non li ho visti, ma li ho percepiti, come avessi avvertito lo spostamento d'aria provocato da migliaia, milioni, di teste mosse all'unisono.
Un'ennesima occhiata per il tribunale: ricordo i racconti di mio padre, magistrato, che soleva ripetermi come ovunque in questi luoghi apparisse trionfante la scritta "la legge è uguale per tutti". Ho dovuto aguzzare la vista per trovarla, così piccola e insignificante, messa in ombra da un'altra incisione, su una lastra di travertino, che recita "Non c'è civiltà senza stabilità sociale. Non c'è stabilità sociale senza stabilità individuale". Di fronte alla lastra, non meno imponente, non meno granitico, l'avvocato.
Vai all'inferno, tu, tutti quelli prima di te, tutti quelli come te e tutti quelli che verranno dopo di te. Io, che null'altro ho amato nella mia vita all'infuori di C., accusato di averla addirittura uccisa! Se solo riuscissero a capire, se solo potessero anche solo lontanamente immaginare... Ma eccolo, non mi lascia nemmeno il tempo di rispondere, e d'altronde il giudice (di cui riesco a vedere solo l'immenso naso: chissà che faccia farebbe nello svegliarsi una mattina e non trovarlo più al suo posto! Penso riuscirebbe a stento a riconoscersi allo specchio) non mi avrebbe lasciato la parola; come rincuorato dal consenso del pubblico vuole già ripartire per continuare l'attacco.
"Il signor Edoardo, nonostante lo Stato nell'istituzione del ministero ai matrimoni avesse espresso la sua perplessità circa la sua relazione con la signorina C, e gli avesse consigliato una compagna più adatta in funzione dell'assicurare una prole migliore ed un matrimonio più stabile, ha scelto deliberatamente di non ascoltare la voce della nazione, di non seguire il consiglio di quello stesso Stato che l'ha fatto crescere, l'ha istruito, l'ha sostenuto nelle difficoltà (mormorii di disapprovazione a me rivolti, e anche qualche fischio da parte di coloro che erano rispetto all'avvocato più lontani), per imbarcarsi in questa folle storia affinchè potesse uccidere la signora C. per motivi a noi ignoti e che pretendiamo Edoardo esplichi."
Nel suo lungo periodo non aveva mai ripreso il respiro ed era diventato rosso in volto come la toga del giudice: ciò non è comunque bastato a cancellare dal suo volto quel perenne sorriso, ormai diventato un ghigno.
"La parola al signor Edoardo".
Tutti gli sguardi su di me, persino il naso del giudice mi guarda interessato.
"Amore".
Un lungo, interminabile respiro prima di continuare (o per meglio dire iniziare) a parlare, eppure già dall'accentuarsi del ghigno dell'accusa capisco quanto poco senso abbia dilungarmi nell'esposizione.
"Amore, null'altro. C. è morta, sì, ma di troppo amore (risa dal pubblico). Il suo cuore non è riuscito a contenerlo entro sé, non è stato capace di reggere gli stessi sguardi che voi ora state puntando su di me; è stato vinto da un sentimento più forte da qualsiasi cosa avesse mai provato, qualcosa oltre la comprensione umana e il vostro tanto decantato matrimonio civile (risa e mormorii più accentuati), ed è morta unicamente di ciò: la pressione che agiva su di esso causata dal cattivo giudizio della gente attorno a lei era eccessiva a sopportarsi. Forse si tratta della morte più bella, forse della più brutta, ma io stesso continuo a non capacitarmene. Per quanto bello, il suo cuore era anche troppo, troppo fragile: è collassato".
"E seguendo il vostro ragionamento, per quale motivo non siete morti anche voi di questo irrefrenabile amore?". Risate leggermente più consistenti da parte del pubblico. Non so come abbia fatto a non ridere egli stesso nel porre questa sua domanda, lo sforzo che ha fatto per contenersi è evidente.
"Non saprei (di nuovo risate), forse il mio cuore è più grande, forse perché avvertiva in misura minore o del tutto assente il disappunto dello Stato e della società, forse è stato lo stesso amore ad impedirmi di morire, e che mi impedisce di morire tuttora. Oppure il mio cuore non è più grande, è semplicemente più duro".
La sedia... devo mettermi assolutamente a sedere. Ora che ci penso, non capisco in quale punto della mia difesa mi sia alzato: forse incalzato dall'accusa... O forse non mi sono mai seduto da quando è iniziato il processo, non saprei dirlo con esattezza.
"Ma certo, come abbiamo fatto a non pensarci... Amore, amore! In fondo dovremmo esserci abituati, è ben noto come esso sia la principale causa di morte al mondo, seguito da quella naturale, dagli incidenti stradali e da quelli sul lavoro. Omnia vincit amor, no?". Le risate avevano raggiunto un livello talmente alto che il giudice si era sentito costretto a richiamare il silenzio per un minuto buono prima che l'avvocato potesse continuare la sua sceneggiata. Si muove come su di un palco, sicuro, scandisce ogni parola con calma e si è permesso persino di imitare la mia voce con questa sua ultima frase: comportamento esecrabile, ma il giudice ha riso anche lui, l'ho visto.
"Non si addentri in una difesa senza alcun senso logico, signor Edoardo, se lo lasci dire da uno che fa questo mestiere da prima che lei nascesse: cerca di patteggiare la pena, le prove contro di lei sono evidenti".
"Prove? Che prove? Un ridicolo referto medico?". Stavolta sono io quello rosso in viso, furioso... possibile che un processo si basi su un simile pezzo di carta?
"Non faccia finta di non sapere, abbiamo una sua lettera scritta ad un amico, rinvenuta nella sua abitazione, in cui ammette il suo omicidio: se il giudice me lo consente la leggerò di fronte a tutti". Cenno favorevole del capo. Di che diamine sta parlando?
"'Mio, solo mio, unicamente e meravigliosamente mio: il cuore di C. mi appartiene. Posso giocarci, distruggerlo, farne ciò che voglio: eccolo tra le mie mani...Com'è bello, oh, com'è bello! Così fragile, così tenero, eppure così vivo... ed è mio, solo mio. Dovresti vederlo, dovresti averne anche tu uno simile, mio buon amico... Non sarà mai di nessun altro all'infuori di me. Mio, solo ed unicamente mio. Obbedisce solo al mio volere'. Capisce la mente criminale del signor Edoardo? Ha abbindolato la signora C, l'ha sedotta, lei che anch'essa aveva un compagno consigliato dal ministero dei matrimoni che ha puntualmente rifiutato in quanto raggirata, e lui le ha distrutto il cuore, l'ha brutalmente uccisa. Riconosce la sua calligrafia, signor Edoardo?".
Sconcerto, nient'altro che sconcerto.
"Sì, ma...".
"Nessun ma! Si limiti a rispondere alle domande che le rivolge l'accusa!". Stavolta era il giudice ad essere diventato paonazzo.
"Lei conferma quindi che questa lettera l'ha scritta di suo pugno?", continuò l'avvocato.
"Sì, ma come le dicevo...".
"Lei non mi stava dicendo nulla, le ho detto di limitarsi a rispondere alle domande dell'accusa, parli solo se interpellato!".
La mia lettera è stata tagliata. Manca tutta la seconda parte; la ricordo a memoria:
“E il mio cuore è parimenti suo, la mia volontà annullata nella sua, i miei desideri mutati nei suoi desideri, e i suoi nei miei: non esiste più alcuna distinzione tra i nostri cuori, vi è un unico centro nevralgico cui le nostre emozioni ruotano attorno incessantemente. E sarà così per sempre, per sempre... Esistiamo in funzione l'uno dell'altro, ed è quanto di più bello abbia mai provato, mio caro amico. Io le appartengo, vi è un cartello sul mio cuore su cui è scritto 'proprietà privata di C.'. Non ho bisogno di null'altro all'infuori del suo cuore, lei non ha bisogno di null'altro all'infuori del mio. Amore, amore! Cos'altro devo chiedere? Cosa deve volere un uomo che non sia l'affidare la propria vita ad un altra persona, che non sia il poter dire: 'Ecco, ti dono spontaneamente quanto ho di più prezioso, e ricevo da te quanto di più prezioso tu abbia?', in una comunione più sacra di qualsiasi altro ordinamento, più forte di qualsiasi altra legge, più duratura della vita?”.
Bastardi... Tutti quelli come l'avvocato, tutti quelli che dietro di me non hanno trovato di meglio che vedere un uomo che forse morirà per la seconda volta. A che pro insistere, a che pro dialogare contro un giudice e una società di riflesso che hanno già sentenziato la mia condanna? A che pro vivere ancora se il mio cuore C. l'ha portato via con sé con la sua terribile morte? Scrivere, disperatamente scrivere... se sopravvivrò a tutto questo racconterò della mia vita con C., affinchè più gente possibile capisca che esiste ancora un amore come quello di cui hanno parlato due millenni e mezzo di letteratura.
“Qualcosa da obiettare da parte dell'avvocato d'ufficio?”.
Ah, adesso ho anche un azzeccagarbugli che curi la mia parte? Certo, il fatto che sia sbucato dalla massa informe alle mie spalle non è che mi faccia ben sperare... Identico a ciascuna persona della medesima calca da cui è uscito, perfettamente identico.
“Richiedo che venga effettuata la perizia psichiatrica in quanto ritengo che il mio assistito non sia capace di intendere e volere”: voce acida, capo chino e tono da cane bastonato, e come se non bastasse quest'assurda linea di difesa! Così stando alle sue parole dovrei salvarmi dicendo d'esser matto? Dal suo punto di vista il ragionamento è ineccepibile, davanti alla società devo apparire assolutamente fuori di senno: ho rifiutato il matrimonio, mancando di rispetto al più sacro dei ministeri, ho ucciso una persona... come potrei sembrare completamente sano di mente? No... no, non voglio salvarmi così.
“Non ho chiesto alcun avvocato, rifiuto che quest'uomo sia la voce della mia difesa e non ho la minima intenzione di sottopormi alla perizia”. Di nuovo il giudice costretto a richiamare il silenzio tante sono le risate... Sì, devo essere necessariamente diventato matto.
"Nient'altro da aggiungere?".
"Nulla".
"Benissimo: procediamo quindi con la sentenza. In quanto nemico dello stato, adultero, omicida, oltre che per essere mosso da uno spiccato senso di anticonformismo e da una non trascurabile componente di follia la pena stabilità, come richiesto dall'accusa, è l'ergastolo". In fondo me lo aspettavo.
"A morte! A morte!". Urla alle mie spalle
"A morte! A morte!". Crescono, aumentano, si diffondono...
"A morte! A morte!". I volti che prima mi parevano così estranei alla vita sono diventati di colpo attivi, infervorati... Chi se lo sarebbe mai aspettato. A che pro se il giudice ha appena letto la sentenza? Perché tanto odio nei miei confronti?
"A morte! A morte!". Continuano... Perché il giudice non richiama il silenzio un'altra volta?
"Che si permuti la pena! Così ha stabilito il popolo".
Confusione, urla, risse, sono circondato. E ancora urla, gente attorno a me, guardie che mi trascinano, spintoni. Dove sono? Dove mi stanno portando? Deve finire tutto così?
Prodigio della democrazia... potere al popolo!
Contro un muro, gente che si accalca per non perdersi la scena. Legato. Imbavagliato. Una benda sugli occhi non me l'hanno messa, vogliono che veda la mia esecuzione. Madri che coprono gli occhi ai bambini con le mani e i pargoli che puntualmente le tolgono. Di nuovo, dove sono?
Cinque gendarmi di fronte a me, tutti uguali, tutti col fucile puntato. C'è troppa luce, mi fanno male gli occhi. Dove mi seppelliranno? Almeno l'Edoardo di Goethe nella morte potè essere vicino la sua amata, non sarò altrettanto fortunato.
Fuoco tutti e cinque simultaneamente, mirano al mio già morto cuore.

martedì 23 novembre 2010

Day Hospital

Anche oggi vi affido alla penna di un ospite. Ecco a voi la meravigliosa prosa di Ale Cava.

I capelli bianchi del primario avanzavano lungo il corridoio. Lui stava a testa china, gli occhi puntati sulla cartella clinica di qualche suo amico, mentre tutti al suo passaggio si appiattivano lungo le pareti, si fiondavano verso la prima porta aperta per non ingombrare il tappeto rosso del grande capo. Avanzava come un automa, dritto come un fuso. Mi sono sempre chiesto come facesse a non sbattere contro i carrelli, a non schiantarsi contro l'infermiere o lo specializzando che corrono come dannati da una parte all'altra del reparto dalle otto del mattino alle otto di sera, a essere ottimisti. Forse ha due occhietti ben camuffati tra le ciocche candide, organi di senso di cui possono essere dotati solamente gli esseri superiori.
Non sapevo che faccia avesse. Nelle rare volte in cui mi ero trovato assieme a lui in una stanza, la mia unica preoccupazione era di sparire nel modo più efficace possibile. Non che fosse un compito difficile: per il primario gli esseri inferiori come me non meritavano considerazione, alla pari dei batuffoli di polvere che si annidavano negli angoli del suo reparto. Quei batuffoli sembravano vivere per conto proprio: capitava di correre lungo un corridoio e di trovarteli tra piedi, quasi a reclamare attenzione. “Siamo qui! Ci vedi? Perché non ci rivolgi mai la parola?”, e tu li scacciavi con una pedata, pensando: ma come cazzo puliscono qui? Ecco, io ero un batuffolo di polvere.
Di solito i capelli bianchi suggeriscono saggezza. Nei reparti d'ospedale, accompagnati in una malefica triade dal camice e dal “Prof.” che precede il nome nel cartellino, suggeriscono timore reverenziale, portano tutti gli organismi ad essi sottoposti a contrarsi in posizione di difesa: immobilità, silenzio tombale, efficienza e velocità nel rispondere quando interpellati (e solamente quando interpellati). Annullare totalmente l'impulso di reagire ad un rimprovero, ad un insulto, fosse anche con la mimica facciale. Io non credo di esserci mai riuscito.
Il prof era una presenza rara in reparto, ma il clima di terrore da lui instaurato aleggiava nei corridoi come una nube tossica. Anche i pazienti avevano paura di lui, ma era un timore speciale, il timore che ha un fedele nei confronti della sua divinità. Il timore dei suoi sottoposti era invece la corazza superficiale sotto a cui si celavano varie gradazioni di odio, miscelate in maniera proporzionale all'accondiscendenza. Se riuscivi a seppellire l'odio sotto ad uno spesso ed appiccicoso strato di accondiscendenza, la tua carriera era quasi garantita. In questo modo l'odio diventava un piccolo nucleo sclerotico di cinismo, una cosa che duole ogni tanto, ma a cui a lungo andare non si presta più attenzione, un male con cui si impara a convivere.
Io non sono mai riuscito a nascondere il mio odio, e di conseguenza la mia accondiscendenza stava a zero. Il mio odio era un tumore che si gonfiava sempre più, una bestia piantata tra gli emisferi cerebrali che ogni giorno si alimentava di dettagli, sfumature, piccole e grandi ingiustizie che gli altri, a quanto pare, digerivano benissimo. C'erano giorni in cui lo sentivo pulsare tra le tempie, ed allora mi irrigidivo ancora di più, mi rattrappivo contro la parete per evitare di essere sfiorato. C'erano giorni in cui avrei potuto esplodere.
Quel giorno era uno di quei giorni. Mentre mi recavo in ospedale, poche ore prima, avevo sfiorato l'incidente, per colpa di quella cazzo di Audi. Stava di traverso all'imboccatura di un senso unico, come tutti i giorni. Il proprietario di quell'auto grigia metallizzata, sempre lustra come un gioiello, riteneva di avere l'esclusiva su quello spazio privato. Uno dei tanti stronzi che crede che le regole si annullino se le infrangi costantemente. Sempre lì stava, sempre con quel culo enorme che mi sbatteva in faccia, tanto da imprimermela nella memoria, la sua targa. Era una familiare, una di quelle macchine che quando passa per strada sembra urlare: “Fate largo, che devo passare io”, ed era troppo grande per quello spazio in divieto di sosta. Ingombrava la visuale, impediva di scorgere le auto che arrivavano dal senso unico.
Andavo di fretta, ero in ritardo. Ho rallentato, ho pensato che non arrivasse nessuno, ma mi sbagliavo. Il tizio sull'utilitaria per fortuna non andava molto forte, è riuscito a fermarsi in tempo. Ho alzato la mano in segno di scusa, ma quello continuava a sbraitare e a suonare il clacson. Sono ripartito e dallo specchietto lo vedevo agitarsi nell'abitacolo, senza dare segno di voler ripartire. Ho pensato di tornare indietro, ma non potevo, ero in ritardo, c'era traffico. E mi pulsavano le tempie.

All'arrivo in ospedale uno specializzando mi ha rimproverato per il ritardo. Ho provato a giustificarmi, ma quello ero già sparito. Un essere piccolo ed occhialuto, con una calvizie incipiente. Aveva una bocca inadatta a sorridere. Pensavo di continuo che se fossi diventato come lui, un giorno, mi sarei buttato da un ponte.
Gli infermieri avevano già misurato le pressioni e le frequenze cardiache, per cui non avevo nulla da fare. Le facce erano scure, tutti urlavano per la minima stupidaggine. Era uno di quei giorni da buttare direttamente nel cesso. Ho provato a chiedere allo specializzando cosa stesse succedendo. Mi ha guardato come se gli avessi chiesto di spiegarmi la fisica quantistica applicata alla teoria del multiverso. La caposala mi urtò mentre correva verso non si sa quale destinazione e mi fece finire a terra. Mi stavo rialzando quando il primario fece la sua comparsa.
Calò il silenzio. Il corridoio si svuotò. Attorno a lui un nugolo di specializzandi simile ad uno sciame di mosche lo seguiva senza proferire verbo, a mani conserte come in chiesa. Soltanto io ero rimasto nel corridoio, appiattito al muro come una sogliola.
Il primario alzò gli occhi verso di me.
Era un bell'uomo, niente da dire, nonostante i suoi settanta anni e passa. Ma la sua faccia aveva qualcosa di strano, e non riuscivo a focalizzare cosa. Quegli occhi, quelle sopracciglia arcuate... La testa pulsava più che mai.
Riabbassò lo sguardo. Non mi aveva visto? Poteva essere. Io ero un batuffolo di polvere. Mi avviai verso lo specializzando che stava controllando la cartella clinica di un paziente, ma anche in lui ora c'era qualcosa che non andava. Mi guardò – e non c'era forse qualcosa di familiare nei suoi occhi? - ma non mi vedeva, fissava un punto dietro le mie spalle. Non capivo. Entrò un'infermiera e mi scaraventò a terra. Lei parve non accorgersene.
Il dolore alla testa era sempre più forte, mentre tentavo di rialzarmi. Non sapevo cosa fare. Ero diventato un fantasma. Mi avvicinai allo specializzando ed iniziai ad agitare le mani davanti ai suoi occhi. Niente da fare. Ero ormai disperato, quando vidi l'oggetto che stava afferrando: sembrava una siringa, di quelle che si usano per l'insulina, ma era più piccola e sottile. Al posto dell'ago brillava una capocchia di spillo azzurra. Lo specializzando avvicinò quell'aggeggio al braccio del paziente e premette un pulsante. Il paziente non sembrò accorgersi di nulla. “E anche oggi il prelievo è fatto”, disse. “Grazie”, rispose il paziente, ed anche lui era strano. Alle braccia non aveva cateteri, solamente un affarino che sembrava incollato al bicipite, con una luce blu che lampeggiava ad intermittenza. Il letto su cui si trovava era sottilissimo, poggiava la testa su quello che sembrava essere un rigonfiamento del materasso.
La testa esplodeva, ed in quel momento pensai: ho un tumore al cervello, e queste sono allucinazioni. Non c'era altra spiegazione. Ma non potevo crederci. Era una spiegazione orribile. Serrai gli occhi e li riaprii, mi schiaffeggiai con violenza, ma non servì a nulla.
La follia si impadronì di me quando, sul cartellino dello specializzando, lessi il mio cognome. Feci un balzo all'indietro ed iniziai ad urlare. Corsi via dalla stanza e nel corridoio mi imbattei nel primario. Mi fermai e lo fissai. Lui non mi vedeva, nemmeno con i suoi occhietti nascosti tra i capelli. Mi avvicinai e lo spinsi a terra. Cadde come un pupazzo, senza alcuna reazione.
Iniziai a prenderlo a pugni, gli ruppi gli occhiali, e mentre lo facevo sentivo l'odio sgonfiarsi come un palloncino, il suo battito da cuore malato rallentare ed infine morire. Ma io continuavo, lo prendevo a calci, mentre i suoi servi specializzandi, che forse ora, inspiegabilmente, mi scorgevano, arretravano, ma a me non importava. Picchiavo quel figlio di puttana, quel barone di merda, quel signorotto del cazzo che trattava tutti come schiavi per poi prendersi i meriti del loro lavoro, quello schifoso nepotista...
...che ero io.
La dentiera insanguinata giaceva lontana sul pavimento. L'uomo a terra sputava sangue e saliva, mentre tentava di rialzarsi. Raccolse la targhetta su cui, accanto alla dicitura “Prof.”, era stampato il mio nome. Alzai gli occhi e scorsi un orologio attaccato alla parete: erano le 9 e 15 del 15 novembre 2065. Stavo per svenire, quando vidi lo specializzando avvicinarsi di corsa. Aveva gli occhi fuori dalle orbite, mentre aiutava il primario a rialzarsi e gli chiedeva: “Che è successo, papà?”.
Certo che mi assomiglia, pensai prima di perdere i sensi.

Mi dissero poi che ero rimasto in coma farmacologico tre giorni. Quando mi svegliai ero pieno di cateteri e drenaggi. Avevo subito tre interventi e altrettante trasfusioni, ma finalmente ero fuori pericolo.
Lo schianto era stato violentissimo, l'utilitaria andava molto veloce. Per un miracolo il conducente non si era fatto nulla. La sua macchina era da buttare, ma aveva deciso di non rivolgersi all'assicurazione. “Tanto dovevo rottamarla”, mi disse quando venne a trovarmi. Una di quelle persone che ti fanno recuperare fiducia nel genere umano. Negli anni successivi ripensai molte volte a quell'omino dall'aria triste e gentile, che mi aveva quasi ucciso ma che, senza saperlo, mi aveva salvato da quello che sarei potuto diventare, un passo alla volta, senza rendermene conto. È un pensiero che mi solleva, mentre guardo mio figlio sguazzare nella piscina gonfiabile.
Non assomiglia per niente a quello specializzando.

lunedì 22 novembre 2010

Intrusioni

Apriamo la settimana con il racconto di un'amica che definire "ospite" è ormai fuori luogo, vista la quantità di piacevolissimi racconti che mi propone. Buona lettura con Usagi.

“Me lo hai preso tu, restituiscimelo!!!”.
Nadia continuava ad urlarmi contro. Gli occhi fuori dalle orbite, il viso rosso color rubino e le mani strette a pugno avevano le nocche ormai bianche.
“Non capisco...” balbettavo ed era la verità. La mia collega Nadia si infuriava ancora di più a queste mie parole.
“Non capisco...” Mi faceva il verso, poi continuava: “Hai preso mio figlio e lo hai nascosto. So che sei stata tu!!! Sei sempre stata invidiosa di me e adesso me la vuoi fare pagare!”.
Io la fissavo come se davanti a me avessi una completa sconosciuta che mi aveva scambiato per qualcun’altra. “Non so di cosa parli...”.
Ero talmente stupefatta che non riuscivo neppure a difendermi. La mia collega mi accusava di avergli rubato il figlio. Perché avrei dovuto fare una cosa del genere? E perché lei accusava me di aver commesso un fatto così terribile?
Avevo una morsa allo stomaco, come se qualcuno tenesse le mani all’interno della mia pancia e stringesse con tutta la forza che possedeva.
Cercavo di capire, ma non capivo. Lei urlava: “Restituiscimi mio figlio!” ed io stavo ferma come un’allocca continuando a balbettare: “Non capisco...”. Ed era la verità.
Qualcosa non quadrava. Prima di tutto, da quando Nadia aveva un figlio? Non riuscivo a ricordare chi fosse il padre o quando mai avesse partorito.
Una musichetta da carillon cominciò a vibrare nell’aria. Non sentivo più Nadia, ma solo la musica dolce ed allo stesso tempo inquietante che l’oggetto emetteva. Nadia si dissolse lentamente nella nebbia finché davanti ai miei occhi non apparve il semibuio della mia camera da letto.
Aprii lentamente gli occhi. Mi guardai intorno. La sveglia segnava le cinque del mattino. La televisione era accesa e trasmetteva le immagini di una madre disperata alla quale era sparita la figlia, mentre la piccola stava nascosta da qualche parte con un carillon aperto sulle ginocchia mentre canticchiava seguendo la musica.
Che strano, ero convinta di avere spento la televisione. Cercai il telecomando tra le pieghe della coperta, spensi e tornai a dormire.
Il sole era alto nel cielo. La giornata era fresca e gradevole. Camminavo allegramente sotto i portici di Corso Colombo in cerca di una camicetta da indossare alla festa di compleanno di Nadia. Fortunatamente era ancora una single incallita, senza figli e sempre in cerca di carne fresca da addentare. Dovevo cercare qualcosa di sexy ed elegante, niente di volgare, non volevo essere da meno della mia amica.
Mi sentii chiamare. Qualcuno alle mie spalle stava cercando di attirare la mia attenzione. Una voce conosciuta. Mi voltai. “Nonno, ma che ci fai qui?!”.
“Patatina è così che accogli tuo nonno? È da tanto tempo che non ci vediamo, non sei contenta di vedermi?”
Ero felice di vederlo, ma allo stesso tempo ero stupita ed anche un po’ smarrita. Era così strano vedere mio nonno da quelle parti. La sua presenza stonava con quel luogo.
“Cosa mi racconti Patatina? La scuola? Mattia come sta?”
Guardavo mio nonno. Era solare, come lo ricordavo.
“Nonno, è anni ormai che ho finito la scuola e Mattia mi ha lasciato quando siamo andati all’università...”
“Patatina, è da molto che non mi aggiorni...”. Fece una risatina, non c’era nessuna accusa nella voce di mio nonno, solo un po’ di nostalgia.
Il senso di smarrimento non mi abbandonava. Perché quella sensazione?
Mio nonno si fece serio all’improvviso. “Devi stare attenta!”. “A cosa?”. “Sono venuto fin qui per dirtelo...”
Guardai mio nonno con aria perplessa. Sarà l’alzheimer che gioca brutti scherzi?
“Nonno, non ti devi preoccupare per me. Oramai sono adulta e responsabile, ho un buon lavoro...”. Mio nonno non mi fece finire la frase: “Ce l’ha con te...”.
La sensazione di smarrimento fece largo ad una sorta di angosciante illuminazione. Di nuovo quella inquietante musica da carillon. “Nonno, ma tu non eri morto dieci anni fa?”.
Aprii gli occhi di scatto. La stanza era semibuia. Le cinque del mattino. La televisione nuovamente accesa. Stavolta ricordavo bene di averla spenta la sera prima. Le immagini che trasmetteva erano quelle di una bambina che correva in bicicletta, la stessa della sera prima. “Sarà un telefilm”, pensai.
Quella sera mi preparai un buon the, mi misi comoda sotto le coperte ed aprii il libro che avevo lasciato sul comodino. Controllai il televisore. Spento. Guardai il telecomando per controllare se per caso non ci fosse qualche tasto che potesse indicare una specie di timer per l’auto accensione. C’erano un mucchio di tasti. Evidentemente avevo schiacciato qualcuno di essi ed avevo innescato il meccanismo dell’accensione alla stessa ora di ogni giorno.
La sveglia suonò regolarmente alle sette del mattino. Il televisore era spento.
“Sapete cosa mi è successo per due notti di fila?”. Raccontai ad i miei colleghi delle bizze della tv. Nadia esclamò: “Che strano... magari quell’aggeggio ha avuto qualche contatto...”
“Sì, con gli extraterrestri!” disse sarcastico Marco, un altro collega di lavoro. Aveva ascoltato il mio racconto seduto dall’altra parte della scrivania, mentre cercava di finire qualcosa al computer.
“Dicono che quando gli elettrodomestici si accendono da soli è perché c’è uno spirito maligno in casa!” disse con dell’ironia Marco.
Nadia tirò su le spalle e strinse le braccia al corpo: “Brividi... che paura!”.
Io guardai Marco e gli dissi: “Certo, come nel film The ring. Guardi troppi film dell’orrore e poi ti ricordo che vivo da sola, non c’è bisogno che tu mi spaventi...”
Marco mi lanciò uno sguardo malizioso: “Se hai paura a stare da sola di notte, posso venire io a farti compagnia!”
Con quello scambio di battute avevamo esaurito l’argomento. Nonostante il mio collega stesse scherzando, le sue parole sullo spirito maligno all’interno della televisione mi avevano lasciato un po’ il sapore dell’inquietudine in bocca, tanto da guardare quella scatola con aria di sfida prima di spegnere le luci. “Avrai il coraggio di accenderti questa notte?”.
Erano passate ormai un paio di settimane e la televisione non si era più accesa, fino a questa notte. Stavo sognando un asilo pieno di bambini, quando il solito carillon mi aveva svegliata. La tv accesa e le immagini della solita bambina che giocava e rideva. Avevo il cuore che mi batteva a mille. “Devo fare controllare ‘sto televisore!”. Staccai la spina e lo schermò si oscurò sul primo piano della ragazzina che in quel momento aveva un’espressione imbronciata.
Il suono dolce del carillon era molto forte, sembrava risuonarmi all’interno delle orecchie. Quel suono mi cullava ed io venivo trasportata da quelle note. Una risata, prima lontana e adesso vicina mi riscosse dal mio torpore.
La bambina rideva dietro lo schermo e mi fissava. “Ho di nuovo lasciato il televisore acceso …” Un balzo al cuore, volsi il mio sguardo verso la presa elettrica. La spina della tv era staccata. La bambina rideva ancora più forte. Le parole di mio nonno, nel sogno, mi ritornarono alla mente: “Ce l’ha con te!”.
Ero sveglia.
Riguardai la presa staccata.
La televisione ugualmente accesa.
La bambina non smetteva di ridere.
“Oh cazzo!!!”.

venerdì 19 novembre 2010

Figli di mamma

Chiudiamo la settimana con un'ospite che aspettavo da tempo. Date il benvenuto a Calliope.

Sono scivolato nella neve.
È quasi un’ora che sono con il sedere poggiato su questa roccia. Ho gli arti congelati, non sento più i piedi e le dita non si muovono più.
Stringo tra le mani il fucile, terrore e conforto in questo silenzio.
Sono tutti via, tutti al campo, tutti persi nella lotta tra la vita e la morte.
Non so cosa può essere migliore: vivere ancora, o morire tra le calde lacrime dei tuoi cari.
Sono scivolato e sono ancora qui, stretto al fucile, seduto su una roccia.
Non riesco a salire la scarpata: le mani non si muovono più.
Sono al sicuro, prima o poi qualcuno passerà di qui... prima o poi...
Da lontano si odono le urla, gli spari; si sente fin qui l’odore del sangue... il peso della morte.
Sono caduto qui sopra questa roccia e gli altri stanno combattendo anche per me.
Mi chiedo quale figlio di mamma si sarà preso la mia pallottola, in quale petto sarà conficcato il proiettile a me destinato. Chi sarà morto per la mia assenza?

Prendo un po’ di neve tra le mie mani congelate.
La roccia ha una mano, un braccio, un altro braccio, un’altra mano, un torace, una testa. Ha anche delle gambe. È una roccia congelata come me: è un figlio di mamma, corpo abbandonato dal respiro, dal sangue e dalle lacrime.

Al collo la medaglietta dice: Lorenzo Di Pasquale N027 17-11-1920.
La prendo, me la metto al collo, la porterò all’accampamento. Prima o poi qualcuno passerà di qui... prima o poi...
Lo guardo, anche questa roccia ha bisogno di una degna sepoltura, le mani sono congelate, ma scavo... scavo più che posso nella neve.
Il suo corpo ora è sulla terra fredda. Lo ricopro. Piango, non ho più saliva, le mie labbra bruciano, brucia il cuore di amarezza.
Figlio di mamma, non lascerò il tuo nome disperso tra i fiocchi bianchi, ma solo il tuo corpo, carcere di un’ anima ormai libera dalla corruzione del mondo.
Dormi bene che tanto, prima o poi, qualcuno passerà di qui... prima o poi...

giovedì 18 novembre 2010

Dentro e fuori la cornice

Un altro grande ritorno, oggi. Ecco a voi il secondo racconto di ghiaccio-nove.

Mentre sorseggiava il secondo caffè macchiato della mattina – subito dopo la rituale rasatura – ascoltò alla radio la notizia della sua morte: ”All’età di quarantanove anni si è spento all’improvviso il noto pittore Salvo Verifica”.
Istintivamente guardò il calendario. No, non era il Primo Aprile. E allora?
Salvatore Verri (questo il nome che compariva sui suoi documenti, e che lo aveva sempre accompagnato almeno fino a quando non aveva cominciato a firmare le sue tele con quel curioso pseudonimo) immaginò di avere semplicemente frainteso. Forse nei suoi ancora assonnati neuroni le sillabe emesse dal transistor si erano intrecciate con qualche brandello di sogno che aveva tardato a dissolversi. Allora si sciacquò di nuovo la faccia con acqua gelida e uscì.
Fischiettando raggiunse il chiosco dei giornali per comperare il suo quotidiano preferito. La edicolante lo trattò con insolita freddezza, come se lui non passasse lì tutte le mattine e i due, ogni volta, non si scambiassero amichevoli commenti sui più disparati argomenti. Pazienza.
Poi, come al solito, andò a sedersi al bar per sfogliare il giornale e bere ancora un caffè, l’ultimo della giornata. Al cameriere, che ormai avrebbe dovuto conoscere perfettamente le sue abitudini, dovette non solo ordinare la sua consumazione, ma anche ripetere l’ordinazione perché non aveva capito. Finalmente aprì il giornale e di colpo le sue retine furono investite dalle seguenti parole, che formavano un grosso titolo a metà altezza della prima pagina: “E’ morto l’artista Salvo Verifica”. Dopo un momento di sconcerto sfogliò nervosamente le pagine fino a quella dei necrologi, e constatò che quasi la metà dello spazio era occupata dalle espressioni di cordoglio per la “sua” morte.
Trascorsero varie settimane. Verri dovette rassegnarsi ad essere considerato, sempre e comunque, un estraneo. Nessuno dava l’impressione di averlo mai conosciuto, come se la fantomatica morte del suo alter ego avesse provocato la cancellazione della sua identità pubblica. In compenso la sua vena creativa era felicemente esplosa in un periodo di fervente ed entusiasmante produttività. Oltretutto – a seguito della luttuosa notizia – il valore commerciale dei suoi quadri si era impennato al di là di ogni aspettativa, e di conseguenza la sua situazione finanziaria era diventata florida come non mai.
Il pittore non incontrò particolari difficoltà ad abituarsi a questa condizione personale quasi fantasmatica. La sua esistenza aveva subito una svolta rilevante, ma la sua mentalità aperta, flessibile e improntata all’ottimismo lo aveva aiutato a rimanere sereno e, come suol dirsi, ad andare avanti per la sua strada.
Purtroppo per lui, però, le sorprese non erano terminate. La Guardia di Finanza, insospettita dalla spropositata compravendita di opere che continuavano a proliferare nonostante il loro autore risultasse defunto, cominciò ad indagare segretamente, sguinzagliando anche dei sedicenti collezionisti fintamente interessati all’acquisto. Emerse così che un certo Verri Salvatore si prendeva il lusso (oltre che il relativo consistente profitto) di commerciare tele, attribuite al pittore Salvo Verifica, ma dipinte da lui medesimo.
Con la certezza di aver incastrato un abile falsario senza scrupoli, la Giustizia chiese conto ad un Verri incredulo e frastornato. Al processo questi cercò di dimostrare che Salvo Verifica non era – come tutti credevano – il nome della salma, ormai in decomposizione, di quello che fu un illustre imbrattatele, ma soltanto il suo stramaledetto nome d’arte. Tuttavia ebbe l’impressione che nemmeno l’Avvocatessa Vera Mente, suo difensore di fiducia, nonché ex-compagna di scuola, fosse del tutto persuasa della sua versione.

mercoledì 17 novembre 2010

L'ultima favola - parte seconda

[2-segue da qui]

Si erano animati. I robot-sentinella, improvvisamente, si erano risvegliati dal torpore, forse collegati al riavvio del sistema, e si dirigevano verso la mia compagna. Elizabeth non poteva fare molto: era armata solo di un bastone molto grosso, niente che avrebbe potuto scalfire i due automi. Emilie, invece, era troppo lontana, e poi se avesse sparato avrebbe richiamato nella sala centrale tutti i soldati della sede del Governo. Bisognava giocare d’astuzia, e bisognava farlo in fretta. Se il computer si fosse riavviato le nostre speranze di successo sarebbero state molto scarse.
Trascorsero giorni e giorni senza che la ricerca desse esito. Fu Ettore, infine, ad avvistare il fiore: lo vide al centro d’una piana che terminava fra le rocce, come protetto dalle intemperie e dai cercatori di fortune. Il cavaliere settentrionale non indugiò: si lanciò verso il fiore e fece per raccoglierne un petalo, ma fu fermato dal ruggito di un leone, che uscendo dal nascondiglio dietro una roccia gli sbarrò il passo. Il sangue gli si gelò in corpo, e prima che potesse sguainare la spada fu sbranato dalla bestia.
L’unica cosa da fare era schierarmi accanto a Elizabeth e cercare di picchiare duro con l’ascia e con il bastone: le sentinelle, in fondo, erano solo tre, e nessuna di loro per fortuna era armata. Avevano occhi iniettati di sangue, il sangue artificiale che l’Esercito universale aveva progettato per loro, ma noi avremmo dovuto evitare di guardarli. Sarebbe bastato difenderci dai loro colpi e cercare di arrivare alle loro spalle per disinserire il chip di controllo: non erano uomini, in fondo, ma solo ammassi di circuiti elettrici, niente che non si potesse disattivare nel giro di pochi istanti. Feci un paio di passi verso la mia amica, pronto alla morte.
Arrivò dunque Aligi, che poté vedere lo scempio che il felino aveva fatto di chi l’aveva preceduto. Non ebbe esitazioni: sguainò la spada e s’avvicinò con prudenza all’animale-guardiano, l’affrontò a viso aperto con la certezza di sconfiggerlo. Certezza vana: appena il guerriero orientale fu a pochi metri dal leone, questi gli balzò addosso e prima che la lama potesse conficcarsi nelle sue membra raggiunse il collo di Aligi. Che pasto lauto gli si parava davanti, pensò di certo il leone: quanti guerrieri imprudenti avevano deciso di violare la profezia.
Non fu necessario. Dmitrij mi aveva anticipato: con un balzo era arrivato alle spalle dal primo robot-sentinella. Aveva prontezza di riflessi come pochi altri, quell’ucraino: il suo gas si fissò contro i circuiti di controllo della prima sentinella, poi della seconda, infine della terza. Erano passati forse quindici o venti secondi, da quando l’assalto era cominciato, e già il più prestante di noi aveva respinto l’aggressione al mittente.
Fu dunque il turno di Vilfredo. Vista la sorte ch’era toccata ai due che prima di lui avevano visto il fiore, il condottiero meridionale pensò di raggirare la bestia con l’ingegno: con una corda creò una trappola, poi lanciò un pezzo di carne secca al centro del cappio e aspettò che il leone fosse di nuovo affamato. Trascorse la notte e trascorse il giorno, ma infine la bestia fu attirata dal cibo: in un istante la corda si tese, il leone fu prigioniero e la strada per il giglio nero fu finalmente aperta. Vilfredo decise di muoversi con prudenza: raggiunse il fiore con fare guardingo, facendosi anticipare dalla spada, e quando lo raggiunse colse un solo petalo, perché anche altri potessero beneficiare del prodigio.
Tirammo un sospiro di sollievo, ma anche questa volta non durò molto: alle nostre spalle la mitragliatrice di Emilie aveva iniziato a crepitare. Non credevamo ai nostri occhi: dall’ingresso arrivavano almeno cento robot, e già quattro o cinque erano stati stesi al suolo dai colpi della guerriera francese. Sarebbe stato inutile lottare: nel giro di pochi istanti saremmo stati sopraffatti, e probabilmente la nostra impresa avrebbe addirittura inasprito le condizioni di vita del popolo universale: per rappresaglia sarebbero state sicuramente uccise molte persone, forse anche bambini, e se non altro il Governo avrebbe reso più difficile l’accesso al computer centrale. Mai più nessuno sarebbe arrivato così vicino alla vittoria.
Quando Vilfredo ebbe staccato il petalo, però, vide Guiscardo in fondo alla piana: egli era rimasto lì, ad attendere, forse da prima che Ettore arrivasse, e adesso, lieto, gli si faceva incontro. “Complimenti, Vilfredo, voi siete il più valoroso dei nostri guerrieri”, disse lo stratega occidentale, ma appena il suo compagno d’avventura fu a portata di spada lo trafisse da parte a parte. Poi Guiscardo corse verso il fiore, e con la spada ne recise il gambo: nessuno, nessun altro, avrebbe potuto approfittarne.
Già li sentivo, quei menscevichi della colonna americana: “Lottare per la libertà è inutile, è molto meglio cercare di contrattare lealmente condizioni più favorevoli”, dicevano in tempo di pace, figurarsi adesso. Condizioni più favorevoli: che follia. Come fai a contrattare una briciola di dignità con chi la dignità te la nega ogni giorno, con chi ruba la fantasia ai bambini a colpi di scariche elettriche? Una sola era la strada, una sola la soluzione: la lotta armata, combattere il potere. Non sarebbe stato il diritto di indossare il colore rosso o la ridicola concessione di salari più ragionevoli a rendere piacevole la vita. E poi con il nemico non si tratta: il nemico va solo abbattuto. A costo della morte, è chiaro, ma almeno sarà valsa la pena di vivere. Chi contratta con il dittatore è suo complice, chi si siede al suo tavolo sarà giudicato colpevole di fronte al tribunale della Storia.
Lo stratega era al colmo della gioia: avrebbe dunque ottenuto la mano di Anna. Guiscardo viaggiò notte e dì per arrivare alla casa della fanciulla, e quando vi giunse fu colto da una trepidazione innaturale. Bussò alla porta della dimora, attese che i servi gli aprissero e si fece infine condurre dal commerciante. “Messere – disse – vi porto un petalo del giglio nero. È questo l’ultimo esemplare: il fiore, ahimè, è andato perduto. Fatene tesoro, ma consegnatemi la mia ricompensa”. Il padre lo squadrò da capo a piedi: i suoi vestiti non recavano segni di lotta, non uno strappo li rovinava. Solo il sangue testimoniava l’impresa: macchie rosse dimostravano la lotta, una vittoria e una sconfitta. “Attendetemi – esclamò il commerciante – Avrete subito quel che meritate”.
Già, il tribunale della Storia. E noi, noi che pena avremmo avuto? Eroi sfortunati o idioti provocatori? Un giorno, lo sapevo, il popolo del pianeta si sarebbe sollevato, avrebbe ricacciato i militari nelle loro tane e distrutto quel computer, e allora noi cosa saremmo stati? Precursori della libertà? Paradigmi dell’insuccesso? Guardai Emilie: la sua mitragliatrice abbatteva robot su robot, e intanto la francesina indietreggiava cercando di guadagnare tempo. La nostra sorte era segnata: altri due minuti, forse, e poi saremmo stati catturati. Dall’ingresso continuavano ad arrivare robot: mille, diecimila, forse centomila ne sarebbero giunti, e di certo le nostre munizioni non erano così abbondanti. In breve saremmo caduti, in breve saremmo finiti nelle mani degli oppressori.
Quando tornò, il padre di Anna era circondato dai soldati armati. “Arrestatelo – ordinò l’uomo – Questo traditore ha ucciso il più abile dei nostri guerrieri”. Le sciabole furono sguainate, e non una lotta vi fu: subito Guiscardo si consegnò agli ufficiali, certo d’essere preda del proprio destino. Il commerciante fece dunque condurre a sé la figlia. “Anna – le disse – questo è il petalo che può spezzare la tua maledizione”. Aggiunse però che l’uomo che l’aveva salvata, strappando il petalo al fiore, era stato senz’altro ucciso dal vile Guiscardo, che s’era sottratto alla lotta eppure ne portava i segni: testimonianza, questa, di fellonia certa, di tradimento, insomma della malvagità che Sigrún le aveva lasciato in sorte.
Un beep richiamò la mia attenzione. Era meno imperativo del primo suono che avevo sentito emettere al computer centrale, ma fu sufficiente a riportarmi sulla terra: alcune righe bianche su uno sfondo nero, stavolta solo in inglese, avvisavano dal monitor che il computer stava per riavviarsi, che il centro di controllo presto sarebbe stato di nuovo inespugnabile, che al solo contatto con un oggetto contundente avrebbe fatto esplodere mille cariche. In quel momento capii che avevo l’occasione per non morire invano.
Anna era inconsolabile: aveva dunque la chiave per accedere alla felicità, ma la felicità stessa le era stata portata via. Pianse per tre notti e tre giorni, infine si risolse: avrebbe usato il petalo per riportare in vita il suo valoroso eroe. Furono inviati emissari in tutto l’altopiano, perché cercassero il corpo del più coraggioso degli uomini: quando vi giunsero, gli inviati del commerciante trovarono due corpi straziati da una belva e uno solo trafitto da una spada. Non ebbero dubbi: raccolsero le spoglie di Vilfredo e lo portarono al palazzo di Anna.
Alzai la mia ascia, e con tutta la forza che avevo in corpo la feci calare verso il computer: sapevo che in questo modo avrei firmato la condanna di tutti noi, chiamando a raccolta tutte le difese del palazzo senza che il nostro piano per la fuga potesse essere messo in atto, ma a quel punto saremmo morti comunque. Guardai per un’ultima volta i miei compagni: Dmitrij sembrava voler andare in soccorso di Emilie, ma capiva anche lui che niente avrebbe potuto fare con la sua bomboletta contro quell’esercito di automi, e allora ciondolava impotente accanto a Elizabeth. La guerriera col bastone era come non l’avrei mai voluta vedere: pietrificata, in lacrime, sembrava essere tornata una bambina sognatrice. L’adoravo, quella ragazza: era dotata di una forza infinita, eppure era la più poetica delle sognatrici. Le sue fiabe, che avevo ascoltato a lungo, contenevano sfumature che nessun altro sapeva ideare: nessuno come lei si spingeva così vicino al pensiero critico, nessuno sfidava così apertamente il microchip degli oppressori. Addio, bella Elizabeth, addio forte Dmitrij, addio coraggiosa Emilie: forse, con quel che faccio, non saremo morti invano. L’ascia picchiò forte. Un rumore meccanico squassò la stanza.
Quando Anna vide Vilfredo, il suo strazio non poté che crescere. Preparò ella stessa l’infuso, e accostate le mani alla bocca dell’eroe lo fece bere. In pochi istanti il petalo fece effetto: Vilfredo prese lentamente vigore, le sue ferite si rimarginarono e prima che l’odore abbandonasse la stanza il condottiero tornò di già in forze. Capì subito quel che era successo, e senza dire una parola strinse a sé Anna. “Mio eroe – disse la fanciulla – sono maledetta da un incantesimo. Vorrei baciarvi per quel che avete fatto per me, ma se lo facessi diventereste malvagio”. I due si abbracciarono, e il pianto dell’una divenne il pianto dell’altro. Le lacrime si incontravano e si fondevano, diventavano un solo fiume inarrestabile: un fiume che sgorgava dagli occhi di entrambi e si dirigeva verso le labbra di Anna. Appena la sua bocca fu umida, però, la fanciulla non provò più alcun malessere: sembrava guarita d’ogni male, senza più turbamento, improvvisamente felice. Felice come chi aveva bevuto la sostanza miracolosa dalle lacrime dell’amato, come chi aveva finalmente vinto le catene di un incantesimo.
Quel che successe fu l’unica cosa che non avevo previsto: appena il monitor centrale si spense, testimoniando la morte del computer centrale, tutti i robot che si dirigevano verso Emilie si immobilizzarono. La francese, ovviamente, non smise di sparare, quasi per un riflesso condizionato, ma in pochi secondi capimmo che il computer controllava anche gli automi. Era la libertà, finalmente: la sensazione di poter pensare pervase immediatamente il nostro cervello.
Vilfredo intuì la gioia della fanciulla, fermò le proprie lacrime e si unì a lei nel primo bacio. Un bacio che mai più li avrebbe abbandonati.
Addio favole, addio divieti. La nuova èra era appena cominciata. Fu allora che corsi nella sala della Radio Unica Mondiale e pronunciai le parole che voi tutti conoscete:
“Cittadini del mondo, oggi il vostro pianeta è libero. Spezzate le catene, insorgete contro gli oppressori. Pensare non è più vietato, mai più lo sarà.
Scendete nelle strade, riempitele. Indossate i colori che volete. Un giorno racconterete ai vostri figli come avete liberato il mondo. Sarà una favola, ma nessuno ve l’avrà imposta. Sarà l’ultima che saremo stati costretti a inventare”.

martedì 16 novembre 2010

L'ultima favola - parte prima

Il racconto di oggi è molto lungo. Ve lo propongo in due puntate (la seconda domattina).

“Beeeeeeeeeeeeep!”. Il Centro di controllo si animò: “Pensiero critico nel settore D09”, spiegava in tutte e sedici le lingue del mondo il monitor centrale. Settore D09: più o meno l’area compresa fra il 23° e il 24° meridiano est lungo il 38° parallelo nord. Dannati greci, sempre loro.
C’era una volta una bambina di nome Anna. Era una fanciulla dotata di ogni virtù: bella come il sole, abile ricamatrice ed educata come ogni madre avrebbe voluto vedere crescere la propria figlia, aveva una voce melodiosa con la quale sapeva cantare e far di conto. Era l’unica erede del più grande commerciante di stoffe del paese, e questo di certo l’aiutava nell’essere bella: una volta sfoggiava un abito di seta rossa che ne esaltava il colorito, un’altra ne indossava uno d’organza azzurra che faceva da cornice ai begli occhi, un’altra ancora era un vestito di lino bianco a farne risaltare il candore di giglio.
Una fila di automi si mosse ordinata verso l’uscita della grande sala centrale, lasciando solo i robot-sentinella a guardia del computer. Il primo dei soldati meccanici mi sfilò davanti, quasi a sfiorarmi, e io avrei voluto maledire Platone, Socrate e tutti quegli altri, se solo avessi potuto: anni di progetti, di silenzioso studio rischiavano di essere compromessi per l’imprudenza della colonna di Atene, per la loro incapacità di raggirare il microchip di controllo. Un istante, e la grande Cpu che controllava il pianeta poteva individuarti ovunque tu fossi, specialmente se ti trovavi nel cuore del sistema. Senza neanche bisogno di guardarci negli occhi ci immobilizzammo, ma col passare dei primi istanti ci rendemmo conto che non tutto il male veniva per nuocere: i robot-cacciatori sembravano essere scollegati dal mondo, sembravano incapaci di percepire quel che accadeva intorno a loro. Sembravano dover rispondere solo all’input che avevano appena ricevuto: uscire dalla sala, imbarcarsi sulle vedette e catturare i pensatori, oppure forse proteggere la sala centrale da un’aggressione esterna. Il risultato era addirittura un beneficio: grazie al diversivo greco i robot rimasti a guardia del computer erano molti di meno. Dio era con noi.
Anna crebbe, e venne infine per lei il giorno in cui avrebbe dovuto trovar marito. I genitori decisero di dare una festa per l’evento: nella casa, molto sfarzosa eppure non appariscente, si presentarono i cavalieri più prestanti di tutto il circondario, pronti a ogni sfida per conquistare il cuore della fanciulla più bella della regione. Era, la sfida che li attendeva, l’unico modo per sfuggire alla profezia della strega Sigrún: quando Anna era ancora in fasce, la fattucchiera era stata rifiutata dal padre, e si era vendicata negandogli la gioia d’un erede maschio e condannando la bambina alla tristezza perenne e a un futuro al fianco di un marito malvagio. “Sarà il più empio essere che mai abbia popolato la terra – disse la strega – e non passerà giorno senza che egli mostri la cinghia alla fanciulla e ai bambini da lei partoriti”.
La Resistenza aveva trascorso gli ultimi anni a studiare un piano infallibile per liberare il pianeta. Studiato si fa per dire: da quando il ventiduesimo Governo universale era stato spodestato dal golpe Alexander, circa 130 anni prima, la possibilità di pensare era stata inibita e le letture erano state messe al bando. Un microchip inserito nel cervello di tutti coloro che avevano superato il sesto anno di età segnalava l’attività problematica alla grande Cpu, che provvedeva a seconda della gravità della violazione: i più piccoli e i pensieri meno pericolosi venivano sanzionati con scariche elettriche “educative”, ma per gli adulti sorpresi a fare pensieri sconvenienti la pena senza appello era una morte atroce. Non dovevo pensarci: l’idea, se messa a fuoco, avrebbe potuto mandare a monte tutto.
Solo una cosa avrebbe potuto spezzare l’incantesimo: un petalo d’un fiore rarissimo, il giglio nero, del quale esisteva un unico esemplare lungo lo sterminato altopiano del Grovio. Un fiore che si diceva miracoloso: secondo la leggenda era capace di ridare la vita ai morti, di curare ogni male e di spezzare il più tenace degli incantesimi. Perché il petalo facesse effetto, aveva detto la strega, Anna avrebbe dovuto ricavarne un infuso, e berlo subito prima di baciare il suo cavaliere. Solo così sarebbe stato possibile sottrarsi alla maledizione di Sigrún.
Il risultato, però, era stato addirittura controproducente per il Governo militare universale. Col tempo, la Resistenza aveva scoperto che l’unica lettura consentita, le favole, sterilizzava l’azione del microchip: generazioni su generazioni di compagni militanti si erano abituati a intendersi con un solo sguardo, senza neanche pensare a quel che bisognava fare. Allo stesso tempo noi soli ci eravamo evoluti, e così avevamo imparato a improvvisare favole, a inventarle mentre cercavamo una strada che ci portasse al centro del sistema. Vuoto pneumatico, vuoto nel cervello: immagini di fiabe scorrevano nelle nostre menti.
Quando la serata volgeva al termine, il padre di Anna chiamò a sé l’attenzione: “Signori, voi sapete che oggi mia figlia sceglierà il suo sposo. Ebbene, non sarà il Caso, ma la vostra abilità a darvi questa gioia: esiste, sull’altopiano del Grovio, un solo esemplare d’un fiore chiamato giglio nero. Chi riuscirà a portarne qui un petalo avrà la mano di Anna”.
Appena l’ultimo automa fu uscito dalla stanza ci avvicinammo al computer centrale: mentre alle mie spalle Emilie, l’unica di noi che avesse un’arma da fuoco, copriva l’ingresso, Dmitrij, alla mia sinistra, si sarebbe occupato di disattivare il sistema di allarme, Elizabeth, alla mia destra, avrebbe tenuto sotto controllo i robot-sentinella e io avrei dovuto riavviare il sistema per il tempo strettamente necessario a farlo a pezzi con la mia ascia. Non sarebbe stato possibile distruggerlo senza prima riavviarlo: il sistema aveva un meccanismo di controllo che al contatto faceva esplodere un potentissimo ordigno capace di eliminare tutte le forme di vita nel raggio di quattrocento metri, ma sorprendentemente la protezione era controllata da un software, e quindi era attiva solo con il computer acceso. Il primo passaggio andò per il verso giusto: Dmitrij spruzzò il gas criogeno della sua bomboletta contro il sistema di allarme. Attendemmo senza neanche respirare, ma la tensione durò soltanto pochi secondi: alla fine l’allarme reagì con “bzzz” di sconfitta.
I cavalieri partirono per l’altopiano, ciascuno certo di potere sconfiggere gli altri. Attraversarono la foresta, e qui morirono in dieci: le fiere si cibarono di loro, facendo strage dei loro corpi valorosi prima che gli altri potessero ucciderle e farne banchetto. Poi fu la volta della montagna, dove altri sedici lasciarono la vita: sette caddero cercando di scalarla più in fretta degli altri, tre morirono di freddo e gli ultimi sei furono vinti dalla fame. All’altopiano arrivarono solo quattro superstiti: Ettore, il muscoloso cavaliere venuto da nord, Aligi, il valente guerriero arrivato da est, Vilfredo, il saggio condottiero partito da sud, e Guiscardo, l’astuto stratega giunto da ovest.
Toccava a me. Con il cuore a battere forte dentro la bocca mi avvicinai alla tastiera di controllo, elusi la verifica di sicurezza e creai un percorso abbreviato alla centrale di comando. “Sei sicuro di voler riavviare il sistema?”, domandò sedici volte il monitor centrale. Sì, che lo volevo: ero lì, ad un passo dalla Liberazione, e non potevo chiedere altro. In un istante una schermata nera si sostituì al software del Governo: stavamo per entrare nella storia. Guardai Dmitrij con soddisfazione, ma fu quel che vidi quando mi girai verso Elizabeth a farmi piombare nel terrore.