martedì 1 febbraio 2011

Tombola

C'era un solo fiore, sul monumento. Un solo fiore per un elenco sterminato di nomi: non un milite, ma cento, mille militi ignoti. Si usa così: ricordarli tutti, come se fossero una storia collettiva, per dimenticarli insieme.
Era per questo, forse, che il fiore era accompagnato da un biglietto.
"A perenne memoria di Angelo Bolleri".

- Ventisette – fece quello più alto, e posò il numero sulla tombola.
- Ventisette? – domandò l’altro. – Allora ho rifatto terno! – e giù grasse risate.
Un militare mi passò accanto, prese per un braccio il detenuto numero 27 e gli fece cenno di seguirlo. Dalla camera bassa, in fondo al cortile, arrivavano lampi brevi, grida di dolore estremo e singhiozzi intervallati, supponevo, da pianti dirotti. Il soldato trascinò il prigioniero con sé canticchiando una canzone: la stessa melodia sguaiata, lo stesso testo di confuso eroismo e donnine cedevoli che avevo sentito per le prime 42 esecuzioni riempì l’aria bassa, caliginosa di quel pomeriggio di morte. Dovevo fuggire, era evidente. Dovevo fuggire e non avevo uno straccio di piano.
- Sessantadue.
- Quaterna!
Sempre lo stesso schema: la stessa battuta idiota che nelle tavolate di Natale avevo sentito provenire dalla bocca del parente che si ritiene simpatico veniva riproposta in quella situazione. Gli ufficiali si davano ampie pacche sulle spalle: il loro senso dell’umorismo, con tutta evidenza, era commisurato alla loro pochezza di esseri umani, alla scarsa considerazione della vita che ci aveva portati in un cortile a sperare che non estraessero il nostro numero per vivere un istante in più, forse un’ora. Per sentire ancora dieci volte, forse venti, l’ufficiale basso gridare “terno” o chissà che. Guardai il numero ventisei fissato alla mia camicia: avrei voluto strapparlo, confondermi fra gli altri, ma sapevo che quella sarebbe stata solo una via preferenziale per la morte.
- Settantasette.
- Gambe di donna.
Già: la smorfia. Anche quella non mancava mai alle tavolate con i parenti: c’era sempre qualcuno in grado di dire esattamente a cosa corrispondesse, che ne so, il numero 71 o il 53. Facevano di tutto per non farci rimpiangere la tombola: ci proponevano tutte le idiozie tipiche di quelle serate natalizie. Certo, meno la neve fuori.
Il ricordo di quelle serate distolse la mia attenzione dalle estrazioni. Delle sere prima della guerra, in generale: io e Isabella davanti al camino, i bambini a giocare o a guardare la tv. Qualche ospite, ogni tanto. Tutto sommato una vita gradevole, ma non mi pentivo di avere imbracciato il fucile. Avevo ragione, a non pentirmene: di fronte all’estrazione che di lì a qualche minuto avrebbe decretato la mia morte era evidente più che mai che sarebbe stato il destino, e non una mia scelta, a decidere della mia vita. Alla fine mi avevano catturato solo per caso: i soldati lealisti avevano deciso di passare per le armi gli abitanti di Bergotto per vendicare l’attentato del giorno prima, e solo per un accidente, per la decisione di far provviste proprio in quel momento, fra gli altri avevano arrestato anche me. Ero l’unico, lì, a meritare davvero la morte. L’unico combattente fra 89 civili inermi.
Il numero 83 mi passò davanti in lacrime: la paura gli si disegnava sul volto. Era un ragazzotto smilzo: long’ammatula, l’avrebbero chiamato dalle mie parti. Inutilmente alto, troppo perché i suoi muscoli potessero reggerlo. Lanciò un urlo ben prima di entrare nella camera bassa e puntò i piedi, ma la sua resistenza fu vinta in pochi istanti: l’unico risultato che ottenne fu una pausa in quella canzone sconcia, ma la sua sorte era comunque segnata. Ecco: cos’avrei fatto io, come avrei reagito all’estrazione del mio numero?
- Ventuno.
- Un’altra cinquina!
Il 21 era stato arrestato con me: era il droghiere del paese e ogni settimana mi vedeva fare incetta di cibo. Lo guardai passare e trattenni il fiato: ebbi come la paura che potesse denunciarmi ai soldati per salvarsi la vita, come se anticipare la fine di un guerrigliero potesse saziare la loro voglia di sangue. Mi guardò anche lui: nei suoi occhi v’era forse una condanna, forse l’idea che stava morendo per colpa mia, forse il rimprovero per non essermi ancora fatto avanti. O forse mi stava chiedendo di badare ai suoi figli, se mi fossi salvato, forse di chiamare rinforzi ed espugnare il forte.
- Nove.
Non eravamo rimasti in molti: nel cortile contai una ventina di persone al massimo. Uno stormo di strani uccelli neri, come grandi corvi, si levò in volo gracchiando e coprì i primi versi della canzone. Mi fu quasi di sollievo sentire la morte gracchiarmi intorno.
- Ventisei.
Eccolo, il mio turno. Il soldato mi guardò e si diresse verso di me.
- Scusa – intervenne l’ufficiale basso – il 77 è già uscito?
Ironico, pensai: mancava all’appello solo il parente rincoglionito, quello che non segue il gioco e si perde i numeri estratti, e mi toccava sentirlo proprio un istante prima di andare a morire.
- Sì – gli rispose l’ufficiale alto.
- Allora ho fatto tombola con l’82.
- Alt! – ordinò l’ufficiale estrattore. – Liberate tutti i prigionieri: lo spettacolo è finito.
Il militare al mio fianco si fermò.
- Sei fortunato – mi disse lo spilungone indicando il suo socio. – Ricorda questa faccia: quest’uomo ti ha salvato la vita. Si presenti, caporale.
- Caporale Angelo Bolleri – obbedì quello.

Detto questo, vi saluto per un paio di settimane. Vado a conquistare il potere in due o tre Paesi del Nord Africa e poi ci rivediamo. Prossimo racconto il 15 febbraio.

lunedì 31 gennaio 2011

Il pozzo

Il cancello si aprì con un cigolio intenso e lunghissimo. Alle spalle della possente struttura in ferro battuto nero un giardino meraviglioso si apriva davanti a me: alberi altissimi e frondosi, piante esotiche delle quali non sospettavo l’esistenza, uno scrosciare di fontane. In fondo, una scala. Altissima.
Entrai nella villa: sapevo di non potere tirarmi indietro, a quel punto. Le gambe si muovevano pesanti, come se avessi camminato per ore. Eppure non mi sembrava di avere camminato così tanto: anzi, a memoria, mi sembrava di essere nato lì, davanti a quel cancello. Due cani, due grossi cani neri, mi diedero il benvenuto. Un benvenuto a modo loro: correvano abbaiando e ringhiando, senza che nessuno potesse controllarli. Guardai la scala: era troppo lontana. Non avevo vie di fuga: era forse questa la morte che mi aspettava?
Fu uno sferragliare a salvarmi: il rumore delle catene che si tendevano e frenavano i cani a pochi metri da me mi raggiunse prima ancora che potessi rassegnarmi a essere sbranato dagli animali, prima ancora che potessi accorgermi che i due molossi erano inoffensivi. Una goccia di sudore mi bagnò il petto.
Mi inerpicai per la scala. Bussai al grande portone della villa, chiesi del proprietario e fui accolto in un enorme salone. Attesi per un tempo che mi sembrò eterno. Infine il Conte arrivò da me.
- L’hai portato? – mi chiese.
- Certo, signore – risposi. – È il cuore, come avevate chiesto.
Cavai dalla mia borsa un fagotto sanguinolento e lo consegnai al mio ospite.
- Devi essermi molto devoto per portare qui il cuore di tuo figlio – osservò.
Lo guardai: non sapevo che fosse il cuore di mio figlio. Anzi, a ben pensarci, non sapevo proprio di avere un fagotto nella bisaccia, né tantomeno che quel che fagotto contenesse un cuore. Il Conte ripose il fagotto e mi guardò.
- Adesso – soggiunse – la magia si compirà.
Il Conte batté le mani. Alle sue spalle due servitori enormi portarono un calderone fumante: il Conte immerse il cuore nel pentolone e osservò il fumo prendere la direzione del vento.
- Saranno mesi di carestia – decifrò. – Al termine di queste giornate terribili, però, saremo più forti. Saremo invincibili.
Calò un mestolo nel pentolone. Ne trasse un liquido denso e sanguinolento. Odorava di sudore. Con calma, lo versò in una borraccia e me la consegnò. Curiosa borraccia: di cuoio, ma con il disegno di un pozzo su una delle pance.
- Questo – spiegò – è l’elisir della vita eterna. Basterà berne un sorso perché ogni malattia sia vinta, perché ogni ferita patita in guerra possa essere sconfitta.
Il Conte fece una pausa. Mi fissò, come a leggere in me, anziché nel fumo, il futuro della nostra terra.
- Ma tu – proseguì – non potrai raccontarlo.
Batté le mani due volte. Due armigeri entrarono nel salone dalle mie spalle e mi afferrarono per le braccia.
- Uccidetelo – disse. – Nessuno che sia capace di tradire il sangue del proprio sangue potrà essere fedele a me.
Fui condotto in un’altra sala, ancora più grande. Un uomo buffamente abbigliato lesse una pergamena.
- Per il tradimento dei valori di lealtà, per il pericolo che rappresenta per le nostre terre e per la sopravvivenza del nostro popolo tutto – annunciò pomposo – quest’uomo oggi sarà ucciso per decapitazione.
Mi legarono a una gogna. Il boia era accanto a me: la sua spada era lucentissima. L’alzò, ma attese qualcosa. Infine arrivò: una tromba annunciò l’esecuzione. Si ripeteva, monotona, e sembrava non finire. Ne gioii: finché quella tromba non avesse smesso di suonare sarei rimasto in vita.

Aprii gli occhi. La sveglia mi richiamava alla realtà. Una realtà fredda: la finestra era rimasta aperta. Mi alzai e la richiusi. La sentii cigolare.
Mi avvicinai al bambino: la sua fronte scottava ancora. Era sudato, poverino.
- Papà – mi disse. – Ho sete.
Presi dal comodino una borraccia e la diedi al bambino.
Lo vidi bere, e solo allora notai che su una delle pance era disegnato un pozzo.
Ne fui sorpreso: sapevo di averlo sognato, ma non ricordavo come.
- Sogni – sorrisi. – Non ce n’è uno che sopravviva al mattino.

venerdì 28 gennaio 2011

Antimafia

Fine settimana con esordio su queste pagine: a voi Accursio Sabella.

Il suo sguardo era proprio come avevo immaginato. Sembrava guardare attraverso il fumo. Guardare oltre. Persino oltre la figura di Antonio Mangiarano, simbolo della legalità. Della lotta alla mafia. Della voglia di cambiamento in Sicilia. “Sto figlio di pulla”, lo apostrofò Gigi Bevilacqua. Panettiere di Casimi, paesino alle porte del capoluogo. A lui la mafia aveva bruciato il portone del negozio. Aveva fatto trovare sgrammaticati biglietti di minaccia sotto la porta di casa. Aveva persino avvicinato il ragazzo che per lui impastava il pane e preparava la pizza. E per qualche giorno il pane dal suo forno uscì senza sale. E lo sfincione era acido. La salsa non era buona.
Ma Gigi Bevilacqua andava avanti. E non capiva. O faceva finta. Faceva lo svedese. Così, di fronte a chi gli diceva: “Ma tu ti sei messo a posto?”. Lui rispondeva: “Io sono nato a posto”. E il suo posto era Casimi. Dove era nato. E dove voleva morire. Da vecchio, però. E poco lo attraevano le luci di Palermo. Che lui a volte intravedeva, la sera, dalla piazza del paesino. In alto. Dove il capomafia Totò Castrenze si sedeva a prendere il caffè. E lo guardava. Con uno sguardo bonario, per la verità. Quasi compassionevole. Totò Castrenze invece amava Palermo. E ci scendeva ogni giorno, a curare i suoi affari.
Anche Antonio Mangiarano amava la città. Il paesino gli stava stretto già da ragazzo. Era di Montegrano, a due passi da Casimi. Ma Palermo era un'altra cosa. Le sue “lotte” da ragazzo interessavano pochi e scalcinati picciotti di paese. Le sue denunce erano indirizzate ad amici di amici. Con i quali, alla fine, un modo per prendere un caffè insieme lo si trovava. Ma a Palermo era un'altra cosa. C'erano i giornali. C'era la tivvù. E c'erano tante occasioni per sedersi dietro i tavoli dei convegni. Delle conferenze. Degli incontri con gli studenti.
E anno dopo anno, il ragazzino di Montegrano divenne simbolo. Immagine. Con quel suo slogan: “Leviamo le ruote alla mafia”. Che diventò mantra per tanti. Simbolo del cambiamento.
“Sto figlio di pulla” lo apostrofava, nonostante tutto, Gigi Bevilacqua. E tirava un boccone di fumo sofferto. E sembrava guardare oltre. Oltre il palco dove Antonio Mangiarano stava per salire. Lo attendevano in tanti. Aveva, si disse, qualcosa di importante da dichiarare. Quando entrò nella sala del cinema Liberty una ressa di gente lo accolse. Gli strinsero mani. Pacche sulle spalle. Sorrisi e braccia aperte. Finché qualcuno non lo “catturò”, per scortarlo fin sul palco.
“Sto figlio di pulla”, stavolta Gigi Bevilacqua non lo disse. Ma non c'era bisogno. Lo conoscevo bene. Gli avevo parlato spesso, e in tante occasioni. Raccolsi i suoi sfoghi e la sua rabbia. La sua solitudine. Il giorno dopo l'incendio del portone gli dissi: “Devi guardare oltre. Oltre quel fumo”. Lo fece. Ma quel giorno al cinema Liberty il fumo sembrava arrivare da troppe direzioni per poter trovare un varco. Mi avvicinai e lo presi per un braccio. “Andiamo a prendere un caffè”, gli dissi. Mi seguì, come se attendesse quell'invito da tempo.
Fuori dal cinema la città sembrava silenziosa e placida. Come una cicciona sdraiata al sole. Persino al bar “I gerani” pareva essere stati catapultati altrove. Nel tempo e nello spazio. Dentro, invece, Antonio Mangiarano aveva iniziato a parlare. “Cari amici, è il momento in cui tutti dobbiamo stare vicini. Perché proprio in questi mesi, in cui tanti, troppi ingenui hanno pensato a una prossima sconfitta della mafia, bisogna alzare la guardia. Stare all'erta”.
Noi, intanto, ordinammo il caffè. Mi accorsi solo in quel momento che Gigi Bevilacqua non aveva ancora aperto bocca. Lo invitai: “Che hai? Che è successo?”.
Mi guardò finalmente negli occhi. Arrivò il cameriere al tavolo con i due caffè. “Ti hanno tirato mai per le due braccia?” mi disse finalmente. Ma non colsi. “Per le due braccia. Uno ti tira da una parte e una dall'altra”. Gli chiesi di spiegarmi. E lui: “Tu lo sai cosa mi è successo. Mi hanno dato fuoco al negozio, mi hanno minacciato, mi sfottono se giro per le strade di Casimi. Hanno persino aperto una panetteria di fronte alla mia, per togliermi i clienti. Dicono che sono un amico degli sbirri. Persino i miei parenti evitano di salutarmi”.
Già, la mafia, pensai. Che si rivela lì, Nelle pieghe lasciate intatte dalle bombe al tritolo. Dai funerali di Stato. Dalle leggi e dalla repressione. Dalle grandi manifestazioni zeppe di retorica. Eccola lì, la mafia. Sulle labbra di Gigi Bevilacqua, che quasi tremano. Negli occhi di chi lo guarda in giro per Casimi e in quelli di chi si volta dall'altra parte.
“Io, lo sai, chiesi aiuto ad Antonio Mangiarano. Alla sua associazione. E mi aiutarono, in effetti. Fecero conoscere la mia storia a tutti. Ebbi una certa visibilità. E le cose per me un po' migliorarono”.
“Leviamo le ruote alla mafia”. Così Antonio Mangiarano, intanto, tuonava dal palco del Liberty, mentre io e Gigi Bevilacqua stavamo seduti al nostro tavolino del bar. E proprio in quegli attimi, il “simbolo” dell'antimafia sferrò il suo attacco: “Mi riferisco a quell'associazione di presunti antimafiosi, che si sono permessi – scandì quella parola alzando il tono della voce – di scegliere, come slogan, quello di 'Togliamo il motore alla mafia'. Si tratta di un chiaro tentativo di avvicinare, nell'immaginario collettivo, la loro non ancora chiara attività, alla nostra meritoria associazione. Per questo – aggiunse – abbiamo dato mandato ai nostri legali di verificare, in tutte le sedi, i presupposti per un'azione legale nei loro confronti”. Applausi. Ma non era finita lì.
“E non lasceremo passare – aggiunse – nemmeno il tentativo di un giovane, forse non ancora esperto romanziere, di riscrivere la storia della nostra Terra. E soprattutto la storia dell'assassinio del sindacalista di Libiria, Pino Catalano. Questo scrittore imberbe, infatti, si è permesso di affermare, nelle pagine di un libro inaspettatamente e ingiustificatamente di successo, che il processo sulla morte di Catalano sia stato riaperto grazie alle dichiarazioni del pentito Carlo Tagliameni. Bene, chiederemo i danni a lui e alla sua casa editrice, visto che il processo fu riaperto in seguito all'esposto alla magistratura presentato, già un anno prima, dalla nostra associazione”.
Il pubblico era in visibilio. E la notizia rimbalzò su tutti i tg. Persino quelli nazionali. Dove Antonio Mangiarano esibì un'espressione dolente, dispiaciuta, per gli abusi di certi, ripetè, “presunti antimafiosi”.
“Sto figlio di pulla”, avrebbe detto Gigi Bevilacqua davanti a quel tiggì, qualche ora dopo, prendendosi il cazziatone di sua moglie. Ma lì, davanti al bar, mi svelò i motivi della sua rabbia.
“L'altro giorno, quando mi hai intervistato”, mi disse, “io ringraziai i poliziotti e i carabinieri che mi erano stati vicini...ricordi?”.
“Certo”, risposi. “E io l'ho scritto”.
“Sì, giusto. Solo che mi sono dimenticato di ringraziare Antonio Mangiarano”.
“E allora?”
“Guarda qui”.
Prese una busta dal taschino. La aprì. Era una lettera di Mandarano indirizzata a lui. Poche righe, che recitavano: “Leggo sul giornale che devi ringraziare solo polizia e carabinieri. Ne prendo atto. Non so se considerarlo un esempio di maleducazione o di masochismo. Io e la mia associazione ce lo ricorderemo quando avrai di nuovo bisogno”.
Lo guardai attonito. Aveva le lacrime agli occhi. Accese una sigaretta. Guardò oltre il fumo. Per qualche secondo regnò il silenzio. Al bar “I gerani” sembrava d'essere altrove. Mentre al cinema Liberty risuonava ancora l'intervento di Antonio Mangiarano. E gli applausi scroscianti della gente accorsa. E il ticchettio dei computer che avrebbero raccontato l'evento.
“Ormai”, mi disse Gigi Bevilacqua salutandomi, “pure quando fumo una sigaretta, ho l'impressione che qualcun altro me l'abbia messa in bocca”.

giovedì 27 gennaio 2011

La macchina del tempo

Silenzio. Arturo si guardò intorno: niente, nessun ticchettìo, se non quello taciturno delle tastiere. Niente, in confronto al rumore che conosceva, a quel meraviglioso frastuono delle macchine per scrivere. Ne aveva sentite venti, trenta, quaranta in contemporanea, e su quell'orchestra dall'arrangiamento intangibile aveva imparato ad appassionarsi, a indignarsi, a riflettere. Aveva imparato a cogliere le sfumature delle parole scritte, a riconoscere il suono metallico perfetto di una Lettera 32 dallo sferragliare incerto di una vecchissima M1, a distinguere l'ansia del “biondino” dalla stanchezza del cronista scafato. Gli mancava, quel mondo, gli mancava senz'altro.
Gli mancava tutto, adesso che era a un passo dalla pensione. Adesso che dall'adrenalina di uno scrivente era passato al desk, a un ruolo di responsabilità: gli avevano affidato la prima pagina, un'autostrada verso la pensione, il riposante gioco della fiducia. E fiducia dovevano averne: a mezzanotte, all'una, quando i colleghi erano tutti a dormire o a bere una birra, lui rimaneva lì, da solo, senza l'assistenza di un caporedattore e men che meno del direttore, con l'incombenza di un titolo efficace, estremo difensore del quotidiano dal folleggiare della cronaca.
La cronaca. Quella se n'era andata, col tempo. Aveva seguito l'odore della colla ed era scomparsa da quelle scrivanie: la nobile abitudine di appiccicare striscioline di carta con i titoli da comporre a video in tipografia era stata sostituita da quella, meno cavalleresca, di raccogliere un'agenzia dal Telpress e metterla in pagina, senza verifiche né sforzo alcuno. Era pur sempre un modo d'incollare, in fondo, e col tempo l'editore aveva capito che dei redattori, degli informatori, dei collaboratori poteva benissimo fare a meno: bastava soltanto qualcuno che fosse capace di leggere un'Ansa e capirla, soppesarla, bilanciarla con un'AdnKronos e il gioco era fatto. Un giornale, purché fosse. Qualcosa di identico a tutti gli altri. Senza vita. Senza odori. Senza storia.
Le storie. Con la colla erano andate via pure quelle: l'intrecciarsi di concretezza, di sofferenze e di virtù, di angosce e pregiudizi, di delitti e castighi, polemiche e conseguenze, negli anni, era sparito. Sparito da tutti i giornali, non solo dal suo: forse era per questo, credeva, che il berlusconismo aveva potuto prendere piede in Italia. Perché nessuno più faceva il mestiere di incollare striscioline di carta, perché nessuno sapeva più quanto sono duri i tasti di una macchina per scrivere e quante imprecazioni costa, quanta fatica c'è in una lettera fuori posto.
Accarezzò il telefono. Compose il 271: rispose Ennio, l'ultimo dimafonista, l'unico forse che come lui aveva visto sparire il mondo di cui era innamorato. Nessuno più dettava i pezzi al telefono: una mail, un click col mouse, e la corrispondenza era gioco fatto. Sorrise: pensò a quante volte, prima che la parola Word entrasse nel suo vocabolario, aveva contato le battute “a orecchio”, a come aveva imparato a misurare gli articoli senza che nessun altro lo facesse per lui. Ennio, dall'altra parte del telefono, ripeté il suo “pronto”, ma Arturo non aveva niente da chiedergli: voleva solo sincerarsi di non essere l'ultimo giapponese, l'ultimo uomo d'un'altra epoca rimasto sulla terra. Avrebbe potuto confidargli le sue angosce, la consapevolezza che, come lui, anche Ennio era destinato a un pensionamento che non prevedeva sostituzione, ma finse di avere sbagliato numero. Ennio, in fondo, era a fine turno, ed era giusto che tornasse tranquillo a casa. Era a fine turno come tutti. Meno lui.
Le luci si spegnevano progressivamente. Arturo vide sfilare Colomba, il cronista giudiziario, poi De Luca e Bono. Andarono via anche gli altri, e una sola luce restò accesa: quella di Tedesco, il giovane cronista parlamentare. Non era più un “biondino”, un giovane giornalista alle prime armi: ormai lavorava lì da quattro o cinque anni, ma aveva conservato l'entusiasmo dei primi giorni, tanto da rimanere fino all'ultimo in redazione per cogliere quella dichiarazione in più, quella sfumatura non colta, quell'intuizione imprevedibile. Arturo avrebbe voluto alzarsi, metterlo in guardia: “Stai attento, Marcello, stai attento. Il tempo sconfiggerà anche te, ti renderà obsoleto, annoiato, abitudinario. Fuggi, finché sei in tempo: metti in salvo il tuo entusiasmo”.
Troppo tardi. Mentre Arturo sceglieva le parole anche Marcello Tedesco andò via: il miagolio di Windows segnalò l'arresto del sistema, poi il giornalista spense la luce, chiuse la porta dell'ufficio e infilò il corridoio. Ancora una volta, quella sera, Arturo era stato sconfitto dal tempo: l'aveva guardato scorrere via, impotente, e non aveva fatto nulla per riportarlo indietro. Già: riportarlo indietro. Gli sarebbe piaciuto, avere una macchina del tempo.
Un'intuizione gli balenò in testa. Raccolse il mouse, lo spostò rapidamente. Completò il lavoro e guardò l'orologio: la prima pagina fu pronta in pochi minuti. Stampò, diede un'occhiata al foglio e si avvicinò verso il muro. La posta pneumatica: già, anche quella era rimasta indenne al tempo. Infilò il foglio in un bussolotto, lo appoggiò sulla bocca del tubo e pigiò il pulsante. Una voragine aspirò la prima pagina verso la tipografia.

Il giorno dopo Arturo non andò al lavoro. Comprò il giornale, lo tenne stretto e andò all'aeroporto. Salì sul primo aereo e solo allora lesse il titolo.
“Leone rassegna le dimissioni
Verso un governo di centro-sinistra”
Mancava un dettaglio: quel giorno il pezzo lo aveva scritto lui. Ma il tempo, ora, era comunque alle sue spalle.
Arturo sorrise.

mercoledì 26 gennaio 2011

Il disgusto

Il disgusto, ecco cosa mi dà: Palermo mi dà il disgusto. Chiudo bene il portone, ché poi entrano i ladri. Esco in strada: traffico, rifiuti, odore di lercio. Città sporca, gente sporca: meridionali. Folla vociante, bucato al balcone, clacson senza sosta. Immondizia: accanto al cassonetto, accatastata, ma anche per strada. Sul bordo del marciapiede, a intasare i tombini, in mezzo alla carreggiata. E loro? Loro non se ne accorgono. Lo ignorano, lo danno per assodato.
Arrivo all'auto. C'è un volantino: prestiti facili, mi suggerisce. Pezzenti: non hanno i soldi per campare, ma s'indebitano. Compreranno un'auto di cui non hanno bisogno, un gioiello pacchiano, un vestito per festeggiare chissà che. Per fare tardi e ubriacarsi, cantare, urlare in mezzo alle strade. Salgo a bordo: scendo verso piazzale Ungheria, svolto a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra. Tiro dritto, arrivo in piazza Politeama: fermo al semaforo, fermo ad aspettare che passi l'ennesimo corteo. Il tizio accanto a me è troppo grasso, troppo irritato, troppo sanguigno. Suona il clacson: lo suonano tutti.
Davanti a me sfilano in venti. La polizia li scorta, li tutela, li tollera. Basterebbero trenta secondi, e invece eccoli lì: si fermano, gridano qualcosa, poi fanno un paio di metri e si fermano ancora. Invocano briciole di precariato, un'altra stabilizzazione che non arriverà mai, sperperi eterni a spese di mamma Regione. Il capopopolo è un uomo enorme: alto, ma soprattutto grassissimo. Come avrà fatto a ingrassare con lo stipendio da lsu? Lavora in nero, è sicuro. Forse è un ex-detenuto, perché anche a quelli danno il lavoro. Mentre me lo chiedo, il corteo scivola via. La polizia municipale riapre la strada, si mette da parte, fa cenno di andare. Ho un'esitazione, ma dura un attimo: un clacson, un altro clacson, mi invita a proseguire. Perentorio, indifferente ai tre vigili alla mia destra. Ha ragione: se ne fregano, non lo multano. Scorro via.
Supero via Emerico Amari, arrivo al porto. Puzza. Puzza di inquinamento, di scarichi a mare ignorati per decenni, di chissà quali rifiuti “speciali”, non so se mi capite. Sul giornale parlavano di tonnellate di tritolo, ma certo anche qualche cadavere sarà finito fin laggiù. Scivolo su via Crispi, arrivo in via Montepellegrino. L'ortofrutticolo, un altro spettacolo: resti di ortaggi in mezzo alla strada, bancarelle, aria da suk. È la parte più difficile: contenere il disgusto, contenere il disgusto, contenere il disgusto. Proseguo per via Rabin, giro a sinistra, arrivo in piazza Leoni. Al semaforo un negro si fa avanti: gli dico di no, ma lui appoggia lo stesso la spugna sul parabrezza. Metto in azione i tergicristalli, impreco, lo mando via. Sorride ebete, alza le spalle, importuna qualcun altro.
Prendo viale Diana, la Favorita. Un parco meraviglioso, guardate com'è ridotto: sporcizia ovunque, chissà quanti delinquenti, chissà quante siringhe. Là dietro, sicuro, c'è qualcuno che si droga. Qualcuno che fa chissà cosa, mentre nessuno controlla. Assedio: cani randagi, auto a 150, clacson impazziti. Accosto. Abbasso il finestrino. Parlo.
- Quanto bocca-culo?

martedì 25 gennaio 2011

Notturno

Lo ammetto: ho un debito con quelli di Umore Maligno, quindi mi tocca pubblicare i loro racconti. Oggi è la volta di Orio.

- Ti piace?

Mi muovo in fretta, ho il respiro pesante. Ansimo. Sono troppo eccitato, devo pensare ad altro. Non sono abituato alla presenza di una donna. Non so cosa dire, non controllo bene le emozioni. Devo pensare ad altro, devo pensare ad altro. Il mio pessimo rapporto con il sesso. Roba da analisi, mi terrà tranquillo per un po'.

Tutta colpa dei traumi infantili, così dicono. Forse è vero. Ricordo lo shock quando sorpresi i miei che lo facevano. Quel giorno ero tanto sconvolto, mio padre dovette accarezzarmi a lungo. Quella volta non mi piaceva, non di fronte a mia madre, non dopo quanto avevo appena visto. Il pensiero di mia madre ha un pessimo effetto sulla mia erezione. Torno a pensare alla mia ragazza, alla prima volta che l’ho vista. La giro con decisione e ricomincio a prenderla.

È stato nel parco, di sera. Portava il suo cane in giro. Taglia piccola, per fortuna. Non sono simpatico ai cani grandi. Era al telefono, non mi aveva notato. La guardavo senza essere visto. A vederla bene ricorda molto mia madre, il suo modo di gesticolare è identico. Ampi gesti dietro la macchina fotografica. Ero terrorizzato ma lei sapeva come tranquillizzarmi, mi accarezzava la schiena solcata e dolente. Non mi controllo più. Il ricordo è intenso, le sensazioni amplificate dal ricordo.

Bene così. La sentivo distante negli ultimi minuti, anche un po' fredda. Rimango fermo su di lei a lungo, con gli occhi chiusi. Finalmente mi decido e mi sposto. L’auto in fin dei conti non è il posto più comodo. Lei è immobile, tranquilla. Mentre mi rivesto la guardo, non ricambiato. Apro lo sportello, dopo averla coperta bene. In piedi fuori dall’auto rimango fermo e guardo la notte. Ascolto la notte. Respiro la notte. Il buio fitto mi fa sentire in pace con me stesso. Cosa darei per una sigaretta. No, maledizione. Meglio così. È un pessimo vizio.

- È tardi, sarà meglio andare.

Torno verso l’auto, le giro intorno. Apro delicatamente il bagagliaio. Di spazio ce n’è tanto, nonostante ci sia già il cane. È davvero comoda la mia auto.

lunedì 24 gennaio 2011

Cena per quattro

- Ho portato del vino. Un buon Nero d'Avola, che ne dite?
Luca piazzò la sua bottiglia da 5 euro nella mano che attendeva un cappotto. Un filo di imbarazzo lo percorse: non sapeva farle, quelle cose. Non sapeva mai quando consegnare la bottiglia: sfilarsi il cappotto e poi mostrare il proprio modesto contributo alla cena oppure cavarsi subito il dente? Sorrise pensando a quel che avrebbe detto Alice: erano problemi infinitesimali che affannavano solo lui e nessun altro, ridicole etichette a cui si appigliava. Non le dava retta, naturalmente: era convinto che fossero i dettagli a fare la differenza, sebbene fossero proprio i dettagli a metterlo in difficoltà. Il risultato, comunque, era negativo: adesso, mentre si sfilava il cappotto, le mani di Giulia non lo attendevano più, impegnate com'erano a rimuovere dalla tavola l'Amarone che era stato scelto per la cena. Si limitò ad appenderlo all'attaccapanni. La casa era silenziosa.
- E Filippo?
Ennio guardò Giulia. Un lampo corse nei loro sguardi.
- È tornato al suo paese - rispose il padrone di casa.
- In Ucraina? - insisté Luca.
- Sì - intervenne Giulia. - Sai com'è? L'agenzia pretende che ogni tre mesi il bambino torni a casa, sai? Per non perdere la confidenza con la lingua, i… come dicono, Ennio? I… contatti col territorio.
Alice rise sguaiata.
- Sarà il bambino più invidiato del villaggio, grasso com'è.
Il gelo piombò nella stanza. Persino Alice lo capì: smise di ridere e fece un'osservazione sul tempo, riportando la conversazione a un livello da ascensore. Ennio riprese il pallino in mano.
- Vogliamo adottarne un altro, capite?
- Ma sì, certo - abbozzò Luca. - Un fratellino. Era questo l'annuncio che volevate farci?
- No, per quello c'è tempo. Prego - fece Ennio indicando una sedia.
Giulia corse in cucina, risalendo la corrente del profumo che invadeva la stanza. Tornò con un paio di piatti di pasta.
- Pappardelle al ragù bianco di maialino nero dei Nebrodi insaporito al Syrah - annunciò entusiasta.
L'odore era niente male, ma il sapore era decisamente migliore. Giulia era una grande cuoca: sin dai tempi di scuola, quando Luca in fondo le faceva il filo, la ragazza aveva sempre avuto una grande dimestichezza coi fornelli. Col tempo era ingrassata e aveva perso il proprio fascino, ma non la capacità di deliziare il palato.
- L'annuncio - spiegò Ennio mentre gli ospiti mangiavano il primo - è legato proprio a questa cena. Vogliamo farlo diventare la nostra attività, capite?
- Aprire un ristorante? - chiese Alice.
- No, non esattamente - replicò Giulia. - È la moda del momento, sapete com'è? Cene in casa, cioè: noi mettiamo l'annuncio su internet, raccogliamo le prenotazioni e… spiegalo tu, Ennio. Insomma: cuciniamo per una decina di persone a menu fisso.
- Non ci farete mica pagare? - domandò Alice con un'altra risata.
Ennio la guardò, pensando che Luca, alla fine, aveva scelto una moglie senza tatto. Non sapeva se rispondere, ma alla fine optò per una battuta.
- Al limite dovremmo pagarvi noi - sorrise. - Siete le nostre cavie.
- Ci è andata bene - proseguì Alice, stavolta senza ottenere risposta.
Giulia tornò in cucina: ne uscì con due piatti fumanti.
- Guanciale al forno in crosta di mandarino - disse stavolta.
Anche il secondo era molto buono: aveva un retrogusto vagamente dolciastro che Luca attribuì al mandarino, ma niente che fosse fuori posto.

La cena proseguì relativamente tranquilla: Luca e Giulia parlarono degli anni di scuola, Alice si esibì in un'altra decina di battute sgradevoli ed Ennio cercò di mantenere saldi i nervi.
- E allora? - chiese Ennio sulla porta.
- Allora approvato - rispose Luca. - E poi, insomma, lo sappiamo: Giulia è una grande cuoca.
- Già: nessuno cucina meglio di chi adora mangiare - aggiunse Alice.
Ancora una volta nessuno le rispose. Luca arrossì per la moglie, salutò l'ex compagna di scuola e il marito e si accomiatò. Visto il comportamento di Alice, forse non sarebbero stati più invitati.
- Al limite - disse entrando in auto - una volta o l'altra potremmo prenotare una di queste cene.
- Purché non si facciano pagare - rise Alice.
Luca si chiese perché l'avesse sposata.

- Mi spiace - disse Giulia a Ennio. - Luca è un amico, ma Alice è proprio impresentabile.
- Beh, comunque è stata una bella cena. Complimenti, amore, non c'era un solo dettaglio fuori posto, capisci?
- Non lo so, ma se non se ne sono accorti loro non se ne accorgerà nessuno. Non conosco nessuno più pignolo di Luca.
- Certo, amore: la storia del ritorno al paese regge sempre, capisci?