mercoledì 17 novembre 2010

L'ultima favola - parte seconda

[2-segue da qui]

Si erano animati. I robot-sentinella, improvvisamente, si erano risvegliati dal torpore, forse collegati al riavvio del sistema, e si dirigevano verso la mia compagna. Elizabeth non poteva fare molto: era armata solo di un bastone molto grosso, niente che avrebbe potuto scalfire i due automi. Emilie, invece, era troppo lontana, e poi se avesse sparato avrebbe richiamato nella sala centrale tutti i soldati della sede del Governo. Bisognava giocare d’astuzia, e bisognava farlo in fretta. Se il computer si fosse riavviato le nostre speranze di successo sarebbero state molto scarse.
Trascorsero giorni e giorni senza che la ricerca desse esito. Fu Ettore, infine, ad avvistare il fiore: lo vide al centro d’una piana che terminava fra le rocce, come protetto dalle intemperie e dai cercatori di fortune. Il cavaliere settentrionale non indugiò: si lanciò verso il fiore e fece per raccoglierne un petalo, ma fu fermato dal ruggito di un leone, che uscendo dal nascondiglio dietro una roccia gli sbarrò il passo. Il sangue gli si gelò in corpo, e prima che potesse sguainare la spada fu sbranato dalla bestia.
L’unica cosa da fare era schierarmi accanto a Elizabeth e cercare di picchiare duro con l’ascia e con il bastone: le sentinelle, in fondo, erano solo tre, e nessuna di loro per fortuna era armata. Avevano occhi iniettati di sangue, il sangue artificiale che l’Esercito universale aveva progettato per loro, ma noi avremmo dovuto evitare di guardarli. Sarebbe bastato difenderci dai loro colpi e cercare di arrivare alle loro spalle per disinserire il chip di controllo: non erano uomini, in fondo, ma solo ammassi di circuiti elettrici, niente che non si potesse disattivare nel giro di pochi istanti. Feci un paio di passi verso la mia amica, pronto alla morte.
Arrivò dunque Aligi, che poté vedere lo scempio che il felino aveva fatto di chi l’aveva preceduto. Non ebbe esitazioni: sguainò la spada e s’avvicinò con prudenza all’animale-guardiano, l’affrontò a viso aperto con la certezza di sconfiggerlo. Certezza vana: appena il guerriero orientale fu a pochi metri dal leone, questi gli balzò addosso e prima che la lama potesse conficcarsi nelle sue membra raggiunse il collo di Aligi. Che pasto lauto gli si parava davanti, pensò di certo il leone: quanti guerrieri imprudenti avevano deciso di violare la profezia.
Non fu necessario. Dmitrij mi aveva anticipato: con un balzo era arrivato alle spalle dal primo robot-sentinella. Aveva prontezza di riflessi come pochi altri, quell’ucraino: il suo gas si fissò contro i circuiti di controllo della prima sentinella, poi della seconda, infine della terza. Erano passati forse quindici o venti secondi, da quando l’assalto era cominciato, e già il più prestante di noi aveva respinto l’aggressione al mittente.
Fu dunque il turno di Vilfredo. Vista la sorte ch’era toccata ai due che prima di lui avevano visto il fiore, il condottiero meridionale pensò di raggirare la bestia con l’ingegno: con una corda creò una trappola, poi lanciò un pezzo di carne secca al centro del cappio e aspettò che il leone fosse di nuovo affamato. Trascorse la notte e trascorse il giorno, ma infine la bestia fu attirata dal cibo: in un istante la corda si tese, il leone fu prigioniero e la strada per il giglio nero fu finalmente aperta. Vilfredo decise di muoversi con prudenza: raggiunse il fiore con fare guardingo, facendosi anticipare dalla spada, e quando lo raggiunse colse un solo petalo, perché anche altri potessero beneficiare del prodigio.
Tirammo un sospiro di sollievo, ma anche questa volta non durò molto: alle nostre spalle la mitragliatrice di Emilie aveva iniziato a crepitare. Non credevamo ai nostri occhi: dall’ingresso arrivavano almeno cento robot, e già quattro o cinque erano stati stesi al suolo dai colpi della guerriera francese. Sarebbe stato inutile lottare: nel giro di pochi istanti saremmo stati sopraffatti, e probabilmente la nostra impresa avrebbe addirittura inasprito le condizioni di vita del popolo universale: per rappresaglia sarebbero state sicuramente uccise molte persone, forse anche bambini, e se non altro il Governo avrebbe reso più difficile l’accesso al computer centrale. Mai più nessuno sarebbe arrivato così vicino alla vittoria.
Quando Vilfredo ebbe staccato il petalo, però, vide Guiscardo in fondo alla piana: egli era rimasto lì, ad attendere, forse da prima che Ettore arrivasse, e adesso, lieto, gli si faceva incontro. “Complimenti, Vilfredo, voi siete il più valoroso dei nostri guerrieri”, disse lo stratega occidentale, ma appena il suo compagno d’avventura fu a portata di spada lo trafisse da parte a parte. Poi Guiscardo corse verso il fiore, e con la spada ne recise il gambo: nessuno, nessun altro, avrebbe potuto approfittarne.
Già li sentivo, quei menscevichi della colonna americana: “Lottare per la libertà è inutile, è molto meglio cercare di contrattare lealmente condizioni più favorevoli”, dicevano in tempo di pace, figurarsi adesso. Condizioni più favorevoli: che follia. Come fai a contrattare una briciola di dignità con chi la dignità te la nega ogni giorno, con chi ruba la fantasia ai bambini a colpi di scariche elettriche? Una sola era la strada, una sola la soluzione: la lotta armata, combattere il potere. Non sarebbe stato il diritto di indossare il colore rosso o la ridicola concessione di salari più ragionevoli a rendere piacevole la vita. E poi con il nemico non si tratta: il nemico va solo abbattuto. A costo della morte, è chiaro, ma almeno sarà valsa la pena di vivere. Chi contratta con il dittatore è suo complice, chi si siede al suo tavolo sarà giudicato colpevole di fronte al tribunale della Storia.
Lo stratega era al colmo della gioia: avrebbe dunque ottenuto la mano di Anna. Guiscardo viaggiò notte e dì per arrivare alla casa della fanciulla, e quando vi giunse fu colto da una trepidazione innaturale. Bussò alla porta della dimora, attese che i servi gli aprissero e si fece infine condurre dal commerciante. “Messere – disse – vi porto un petalo del giglio nero. È questo l’ultimo esemplare: il fiore, ahimè, è andato perduto. Fatene tesoro, ma consegnatemi la mia ricompensa”. Il padre lo squadrò da capo a piedi: i suoi vestiti non recavano segni di lotta, non uno strappo li rovinava. Solo il sangue testimoniava l’impresa: macchie rosse dimostravano la lotta, una vittoria e una sconfitta. “Attendetemi – esclamò il commerciante – Avrete subito quel che meritate”.
Già, il tribunale della Storia. E noi, noi che pena avremmo avuto? Eroi sfortunati o idioti provocatori? Un giorno, lo sapevo, il popolo del pianeta si sarebbe sollevato, avrebbe ricacciato i militari nelle loro tane e distrutto quel computer, e allora noi cosa saremmo stati? Precursori della libertà? Paradigmi dell’insuccesso? Guardai Emilie: la sua mitragliatrice abbatteva robot su robot, e intanto la francesina indietreggiava cercando di guadagnare tempo. La nostra sorte era segnata: altri due minuti, forse, e poi saremmo stati catturati. Dall’ingresso continuavano ad arrivare robot: mille, diecimila, forse centomila ne sarebbero giunti, e di certo le nostre munizioni non erano così abbondanti. In breve saremmo caduti, in breve saremmo finiti nelle mani degli oppressori.
Quando tornò, il padre di Anna era circondato dai soldati armati. “Arrestatelo – ordinò l’uomo – Questo traditore ha ucciso il più abile dei nostri guerrieri”. Le sciabole furono sguainate, e non una lotta vi fu: subito Guiscardo si consegnò agli ufficiali, certo d’essere preda del proprio destino. Il commerciante fece dunque condurre a sé la figlia. “Anna – le disse – questo è il petalo che può spezzare la tua maledizione”. Aggiunse però che l’uomo che l’aveva salvata, strappando il petalo al fiore, era stato senz’altro ucciso dal vile Guiscardo, che s’era sottratto alla lotta eppure ne portava i segni: testimonianza, questa, di fellonia certa, di tradimento, insomma della malvagità che Sigrún le aveva lasciato in sorte.
Un beep richiamò la mia attenzione. Era meno imperativo del primo suono che avevo sentito emettere al computer centrale, ma fu sufficiente a riportarmi sulla terra: alcune righe bianche su uno sfondo nero, stavolta solo in inglese, avvisavano dal monitor che il computer stava per riavviarsi, che il centro di controllo presto sarebbe stato di nuovo inespugnabile, che al solo contatto con un oggetto contundente avrebbe fatto esplodere mille cariche. In quel momento capii che avevo l’occasione per non morire invano.
Anna era inconsolabile: aveva dunque la chiave per accedere alla felicità, ma la felicità stessa le era stata portata via. Pianse per tre notti e tre giorni, infine si risolse: avrebbe usato il petalo per riportare in vita il suo valoroso eroe. Furono inviati emissari in tutto l’altopiano, perché cercassero il corpo del più coraggioso degli uomini: quando vi giunsero, gli inviati del commerciante trovarono due corpi straziati da una belva e uno solo trafitto da una spada. Non ebbero dubbi: raccolsero le spoglie di Vilfredo e lo portarono al palazzo di Anna.
Alzai la mia ascia, e con tutta la forza che avevo in corpo la feci calare verso il computer: sapevo che in questo modo avrei firmato la condanna di tutti noi, chiamando a raccolta tutte le difese del palazzo senza che il nostro piano per la fuga potesse essere messo in atto, ma a quel punto saremmo morti comunque. Guardai per un’ultima volta i miei compagni: Dmitrij sembrava voler andare in soccorso di Emilie, ma capiva anche lui che niente avrebbe potuto fare con la sua bomboletta contro quell’esercito di automi, e allora ciondolava impotente accanto a Elizabeth. La guerriera col bastone era come non l’avrei mai voluta vedere: pietrificata, in lacrime, sembrava essere tornata una bambina sognatrice. L’adoravo, quella ragazza: era dotata di una forza infinita, eppure era la più poetica delle sognatrici. Le sue fiabe, che avevo ascoltato a lungo, contenevano sfumature che nessun altro sapeva ideare: nessuno come lei si spingeva così vicino al pensiero critico, nessuno sfidava così apertamente il microchip degli oppressori. Addio, bella Elizabeth, addio forte Dmitrij, addio coraggiosa Emilie: forse, con quel che faccio, non saremo morti invano. L’ascia picchiò forte. Un rumore meccanico squassò la stanza.
Quando Anna vide Vilfredo, il suo strazio non poté che crescere. Preparò ella stessa l’infuso, e accostate le mani alla bocca dell’eroe lo fece bere. In pochi istanti il petalo fece effetto: Vilfredo prese lentamente vigore, le sue ferite si rimarginarono e prima che l’odore abbandonasse la stanza il condottiero tornò di già in forze. Capì subito quel che era successo, e senza dire una parola strinse a sé Anna. “Mio eroe – disse la fanciulla – sono maledetta da un incantesimo. Vorrei baciarvi per quel che avete fatto per me, ma se lo facessi diventereste malvagio”. I due si abbracciarono, e il pianto dell’una divenne il pianto dell’altro. Le lacrime si incontravano e si fondevano, diventavano un solo fiume inarrestabile: un fiume che sgorgava dagli occhi di entrambi e si dirigeva verso le labbra di Anna. Appena la sua bocca fu umida, però, la fanciulla non provò più alcun malessere: sembrava guarita d’ogni male, senza più turbamento, improvvisamente felice. Felice come chi aveva bevuto la sostanza miracolosa dalle lacrime dell’amato, come chi aveva finalmente vinto le catene di un incantesimo.
Quel che successe fu l’unica cosa che non avevo previsto: appena il monitor centrale si spense, testimoniando la morte del computer centrale, tutti i robot che si dirigevano verso Emilie si immobilizzarono. La francese, ovviamente, non smise di sparare, quasi per un riflesso condizionato, ma in pochi secondi capimmo che il computer controllava anche gli automi. Era la libertà, finalmente: la sensazione di poter pensare pervase immediatamente il nostro cervello.
Vilfredo intuì la gioia della fanciulla, fermò le proprie lacrime e si unì a lei nel primo bacio. Un bacio che mai più li avrebbe abbandonati.
Addio favole, addio divieti. La nuova èra era appena cominciata. Fu allora che corsi nella sala della Radio Unica Mondiale e pronunciai le parole che voi tutti conoscete:
“Cittadini del mondo, oggi il vostro pianeta è libero. Spezzate le catene, insorgete contro gli oppressori. Pensare non è più vietato, mai più lo sarà.
Scendete nelle strade, riempitele. Indossate i colori che volete. Un giorno racconterete ai vostri figli come avete liberato il mondo. Sarà una favola, ma nessuno ve l’avrà imposta. Sarà l’ultima che saremo stati costretti a inventare”.

22 commenti:

  1. Complimenti, proprio bello! ben scritto, ben congegnato, poetico.. insomma..

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  2. ... insomma sei proprio bravo!

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  3. Wow, grazie :)
    A quanto pare sei l'unica che abbia avuto la forza di arrivare in fondo, finora. ^^

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  4. naaaa, secondo me sono ancora immersi in questa atmosfera fantascientifica :)

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  5. Troppo buona. Così si capisce che ti pago :)

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  6. Ho letto tutto fino in fondo.
    Non è esattamente un genere che prediligo, quindi devi essere davvero molto bravo se sei riuscito a non farmi mollare il colpo dopo il terzo rigo.
    Come si fa a scrivere una FIABA così ricca di personaggi ed eventi concentrando tutto in poche pagine?
    Be'..tu sai farlo..mica per niente sei il padre dei racconti :)

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  7. ^^ grazie cara
    Quale dei due generi non prediligi?

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  8. (o entrambi? O il fatto stesso che si intreccino due generi?)

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  9. L'action non mi piace e la fiaba è troppo romantica per una cinicona come me...
    Ecco, forse è proprio l'intrecciarsi dei due generi che mi ha fatto proseguire nella lettura.
    O forse solo il fatto che mi è simpatico l'autore ;)

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  10. Questa affermazione sarà usata contro di te.

    E' inutile che cancelli il commento: ho una mail di notifica che sono pronto a pubblicare, se necessario.

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  11. Acida non vado bene, doRciotta non vado bene...
    Uff..ho capito..SPARISCO...

    ZoT...................

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  12. Dopo questo, ti considero anche nonno, figlio e nipote. Di Greis.
    No, dei racconti.

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  13. @grace: tanto lo so che torni. E' più forte di te
    @wr: Tutto, purché non figlio di Grace. Sarebbe terribile

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  14. l'ultima favola, ma non l'ultimo lieto fine...

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  15. La sacrosanta aspirazione degli uomini giusti!

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  16. Oh là! Ce l'ho fatta! Guiscardo non poteva che essere il Gran Bastardo! :D
    Bando alle ciance, bello, avvincente, il ping pong fantasy-fiaba molto ben congegnato!

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  17. "Come fai a contrattare una briciola di dignità con chi la dignità te la nega ogni giorno?"
    Bello, Silas.
    Complimenti. E la favola mi è piaciuta moltissimo. ;)

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  18. Grazie a tutti ^^

    D'ora in poi vi prometto brevità. O almeno ci provo.

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  19. ho letto le due parti del racconto, in una volta sola. La favola mi ha preso più che il fantasy.
    Anche se nella favola c'erano troppi morti. Alla fine Anna, per la sua felicità, ha fatto morire un sacco di persone e per il suo egoismo ne ha resuscitata solo una. Non gliel'hanno detto che tutte le persone che sono morte avevano una famiglia, qualcuno che li aspettava a casa???..... ;-)
    Comunque io tifavo per Vilfredo.

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  20. (Beh, però capirai che per un lieto fine, anzi due, almeno qualche morto per strada devo lasciarmelo.
    E poi Anna aveva un solo petalo, mica poteva fare miracoli).

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  21. Bellissima, davvero. È molto difficile inventare qualcosa di nuovo nell'ambito fantascientifico. Complimenti!

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