mercoledì 13 ottobre 2010

Il treno

“Permette?”. Certo che permettevo: era una delle più belle creature che avessi mai visto. Mi limitai ad accoglierla con un sorriso: la ragazza si adeguò, e senza parlare prese posto con la levità di una piuma sul sedile più vicino al corridoio, sistemò le pieghe della gonna rossa perché non potessi intravedere niente più del necessario, poggiò la borsa sul sedile al suo fianco e guardò oltre il finestrino. Fuori, lentamente, la campagna prendeva forma di città, e intanto il sole illuminava la mia compagna di viaggio: puntellato di lentiggini, il suo viso era dominato da un paio di occhi chiari profondissimi, minacciati ora qui ora lì da un ciuffo di capelli indomabile, liscio come fili di seta eppure ribelle. Lo sguardo tradiva l’ingenuità di una ragazzotta di campagna, eppure vi era, in quello sguardo, un qualche cosa d’impercettibile, di placidamente inquieto: mi domandai se fosse fuggita di casa, ma scartai immediatamente il pensiero notando l’assenza quasi totale di ansia nel suo garbato modo di fare. Passai in rassegna un paio di altre opzioni, ma non trovai quella giusta: di certo non stava raggiungendo la città per cercare un lavoro perché mancavano pochi minuti al tramonto e la ragazza non portava con sé un bagaglio, e per lo stesso motivo non stava andando all’università. Eliminai dalla lista dei potenziali motivi del viaggio anche l’appuntamento galante: non s’era premurata di truccarsi con la preoccupazione che accompagna le prime volte, né indossava vestiti particolarmente adatti per una serata in città.
Le sue parole interruppero la fila dei miei pensieri. “Sa quanto ci mette per arrivare a Collevecchio?”. Non lo sapevo: non ero mai stato da quelle parti. “No, mi spiace: scendo a Ravitolo, fra due fermate”. Sorrisi, galante: “Per quanto mi dispiaccia lasciare una compagnia così piacevole”. La ragazza ricambiò il mio sorriso con un filo di complicità, ma fu solo un lampo: pochi istanti dopo aveva già abbassato lo sguardo, non so se per farsi inseguire o per improvvisa vergogna. La incalzai: “Studi?”. La ragazza rispose incerta che sì, studiava filosofia all’Università di Bologna. “Ma mi sono iscritta quest’anno”, aggiunse come per sottolineare che la sua età era decisamente fuori dalla mia portata. Provai a fare il simpatico: “Un paio di settimane e sei già in vacanza?”, domandai con quello che a me sembrò uno sguardo sufficientemente ammiccante.
La ragazza non ebbe il tempo di rispondermi. “Biglietti, prego”, intimò come d’ordinanza il controllore. Mostrai il mio tagliando al nuovo venuto, mentre la mia compagna di viaggio frugava nella borsa alla ricerca del medesimo oggetto. Quando l’ebbe trovato e consegnato, la ragazza poté rispondere alla mia domanda: “No, non sono in vacanza – riprese – Sono stata richiamata in paese”. Non aggiunse altro: voleva forse lasciare un velo di mistero su quel che la riguardava, oppure semplicemente m’ero addentrato in una sfera troppo privata perché potessi ottenere risposta. Glissai: “Sei di Collevecchio?”. La ragazza sembrò infastidita dalle mie domande, ma decise ugualmente di rispondermi mentre il treno fischiava per entrare nella stazione di Boghinelle. “No, abito a San Gandolfo”. La sua stazione di partenza: Collevecchio era dunque un punto d’arrivo, pensai ascoltando il sibilo che accompagnava la frenata.
Forse per interrompere la conversazione, la ragazza si portò al finestrino che si trovava al mio fianco. Quando la gonna sfiorò le mie ginocchia provai un brivido: il suo corpo emanava un odore di freschezza che risvegliava i miei più bassi istinti, ed era davvero una creatura incantevole oltre ogni immaginazione. Del resto c’era un altro finestrino più vicino al suo posto: perché aveva scelto di affacciarsi a così pochi centimetri da me, se non per favorire un mio approccio? Non feci in tempo ad elaborare un piano: un agente, salito chissà quando a bordo e soprattutto entrato chissà da quanto nello scompartimento, ci interruppe per chiederci i documenti. La ragazza estrasse il suo con più prontezza di quanto avesse fatto col biglietto e poi osservò la faccia del poliziotto corrucciarsi: “Mi controlli Garbin Veronica?”, chiese l’agente a un immaginabile interlocutore dall’altro lato della radio.
Fu un istante. Qualcosa di metallico mi raggiunse la gola. “È carica - disse la ragazza con voce calma – e se fossi in te lascerei scendere me e il signore”. Un oggetto di vaga forma cilindrica mi impediva di respirare. “Quando saremo usciti dalla stazione potrai fare quel che vuoi”. L’agente mi guardò negli occhi. Poi non ricordo altro, signor procuratore.

11 commenti:

  1. «Poi non ricordo altro...»
    Sì sì, dicono tutti così... :)

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  2. Attento che a chi non ricorda finisce che danno le pizze in faccia per stimolare il cervello!

    Ma quanto ti piacciono sti finali a sorpresa? :P

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  3. Troppo bello! Ecco, questo è uno di quei finali che proprio mi piacciono un sacco... (Mi sto pentendo del raccontino melenso, mi sa che te ne posto un'altro)

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  4. @G9: ecco, questo è il bello di lasciare il finale aperto. Ognuno può immaginare quel che vuole, e quella che proponi tu è un'opzione che avevo scartato.
    @Rospo: più che altro mi fanno antipatia i finali prevedibili ;)
    @Vaniglia: Nu, il racconto va bene.

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  5. Ma è melenso! (Che poi tu dici, "Ecchisenefrega, tanto compare con il nome tuo, mica col nome mio :-) )

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  6. Allora, confesso: è un po' melenso. Però mica li pubblicherei, se non fossero buoni.

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  7. Ma tu mattu! sempre i finali ansiogeni eh? Anche se, beh, essendo dal signor procuratore, vuol dire che è finito tuttobbbene!

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  8. E che ne sai? Magari sono morti sia il poliziotto che la ragazza... :)

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  9. Infatti non l'hai pubblicato :-)))) Dai...Te ne posto un'altro stanotte...Tanto vedo che hai trovato un'egregia sostitution!

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  10. Porta pazienza... sarà pubblicato oggi alle 17. Del resto te l'avevo detto che sarebbe stato il post di oggi.

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  11. (G9 aveva scritto prima... e d'altro canto mi sembrava sensato proseguire sul filone del treno. Comunque se vuoi mandarmene un altro è ben accetto, eh ^_*)

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