Bussò così, con disinvoltura, come se non fosse un problema suo. E già che non era così: una porta, solo una porta, la separava dalla normalità. Dal ritorno: niente le avrebbe fatto pensare che la guerra, quella cosa a cui giocano i maschi mentre le bambine pettinano le bambole e sognano per educazione un futuro da mamme, fosse una cosa così sporca, così faticosa, così rumorosa. Così dolorosa, in definitiva: mille ne aveva amati e mille, dalla sua sedia in infermeria, ne aveva visti viaggiare verso la morte, prima rossi in viso a combattere contro l'ultimo nemico, ora impercettibile, poi neri per i farmaci e l'immobilità e infine bianchi, infine sorridenti, infine quieti nell'abbraccio della morte.
L'aveva imparato a sue spese, che la guerra non è cosa da donne. Che sono tutte balle, quelle sulla Croce rossa che non si tocca, quelle sui buoni che in ogni caso non possono essere uccisi, perché non è vero che non ha importanza che divisa indossi il ferito e tutto quello che c'è scritto nei manuali, nei formulari e quant'altro: non è vero perché sul campo di battaglia le bombe esplodono e sono cieche, perché la differenza fra un'ambulanza e un carro armato sta tutta nel numero di caffé che ha bevuto il piantone, perché fra un cadavere e l'altro ci sono sempre in agguato delle cosine leggere e sensibilissime alle quali non frega niente di chi sei, di che lavoro fai, quanto guadagni o perché sei lì. Mine antiuomo, le chiamano, ma anche un bambino le fa saltare: basta un soffio, un albero che muore o un passo improvvisato e bum, voli nel vento, veloce come la tristezza quando ti cattura, una luce improvvisa ti ruba un braccio, una gamba, una mano.
Ne aveva visti tanti di quei bambini sfregiati: a Mitrovica, lungo il ponte che divideva due lingue, due alfabeti, due modi di essere, in definitiva lungo il ponte che separava due continenti, era un carosello di quelli lì. Li aveva visti in una scuola a chiedere la carità, a ridosso delle trincee della K-for a credersi soldati, li aveva visti lungo il lago costellato di minuscole bandierine rosse a giocare, finalmente bambini, stupidamente bambini: erano, quelle bandierine, proprio le mine già individuate, ma che ne può sapere un bimbo di un carro armato di plastica che all'improvviso spara sul serio, di un gioco innocuo che diventa verità, che ne può sapere alla fine un bambino della morte e dello sfregio?
Pensava a tutto questo, mentre bussava: pensava alle mine, pensava ai bimbi a tre arti, pensava agli stracci di Politika di fronte a quel palazzo piegato su se stesso, ai carri armati in mezzo al prato. Pensava a Gianni che quel giorno faceva le foto, alle licenze spensierate e per l'appunto licenziose, pensava all'idea assurda di fare l'amore sul prato, di cancellare la guerra con la più potente delle armi, o meglio le più potenti: la fantasia e l'orgasmo, la fantasia e l'amore, se anche amore si poteva chiamare. Non si curava di quello: non era la protagonista di un racconto idiota e melenso, un racconto d'amore in mezzo alla guerra, insomma non era un'eroina da descrivere e narrare, dunque non c'era nessun bisogno, per lei, di dare un nome alle cose, di inquadrarle in una categoria di pace. Non esisteva, la pace: non esisteva nient'altro che quel prato, quei carri armati, il rumore degli aerei e i loro vent'anni.
Fu la porta a interrompere i suoi pensieri. Le aprì sua madre, e la sua faccia non era più quella di qualche anno fa: nel viso le si leggeva l'orrore, la paura, quella telefonata della Farnesina e poi i giornali, le edizioni straordinarie e la vergogna. I funerali di Stato, il presidente commosso, il ministro a petto gonfio, lui che la guerra l'aveva vista soltanto dal suo elicottero verde. I dettagli, le insinuazioni, lo strazio sul cadavere di Gianni, il congedo e forse, un giorno, una medaglia. Luisa posò la stampella e abbracciò la vecchia. In fondo il problema non era suo. Non poteva esserlo più.
L'aveva imparato a sue spese, che la guerra non è cosa da donne. Che sono tutte balle, quelle sulla Croce rossa che non si tocca, quelle sui buoni che in ogni caso non possono essere uccisi, perché non è vero che non ha importanza che divisa indossi il ferito e tutto quello che c'è scritto nei manuali, nei formulari e quant'altro: non è vero perché sul campo di battaglia le bombe esplodono e sono cieche, perché la differenza fra un'ambulanza e un carro armato sta tutta nel numero di caffé che ha bevuto il piantone, perché fra un cadavere e l'altro ci sono sempre in agguato delle cosine leggere e sensibilissime alle quali non frega niente di chi sei, di che lavoro fai, quanto guadagni o perché sei lì. Mine antiuomo, le chiamano, ma anche un bambino le fa saltare: basta un soffio, un albero che muore o un passo improvvisato e bum, voli nel vento, veloce come la tristezza quando ti cattura, una luce improvvisa ti ruba un braccio, una gamba, una mano.
Ne aveva visti tanti di quei bambini sfregiati: a Mitrovica, lungo il ponte che divideva due lingue, due alfabeti, due modi di essere, in definitiva lungo il ponte che separava due continenti, era un carosello di quelli lì. Li aveva visti in una scuola a chiedere la carità, a ridosso delle trincee della K-for a credersi soldati, li aveva visti lungo il lago costellato di minuscole bandierine rosse a giocare, finalmente bambini, stupidamente bambini: erano, quelle bandierine, proprio le mine già individuate, ma che ne può sapere un bimbo di un carro armato di plastica che all'improvviso spara sul serio, di un gioco innocuo che diventa verità, che ne può sapere alla fine un bambino della morte e dello sfregio?
Pensava a tutto questo, mentre bussava: pensava alle mine, pensava ai bimbi a tre arti, pensava agli stracci di Politika di fronte a quel palazzo piegato su se stesso, ai carri armati in mezzo al prato. Pensava a Gianni che quel giorno faceva le foto, alle licenze spensierate e per l'appunto licenziose, pensava all'idea assurda di fare l'amore sul prato, di cancellare la guerra con la più potente delle armi, o meglio le più potenti: la fantasia e l'orgasmo, la fantasia e l'amore, se anche amore si poteva chiamare. Non si curava di quello: non era la protagonista di un racconto idiota e melenso, un racconto d'amore in mezzo alla guerra, insomma non era un'eroina da descrivere e narrare, dunque non c'era nessun bisogno, per lei, di dare un nome alle cose, di inquadrarle in una categoria di pace. Non esisteva, la pace: non esisteva nient'altro che quel prato, quei carri armati, il rumore degli aerei e i loro vent'anni.
Fu la porta a interrompere i suoi pensieri. Le aprì sua madre, e la sua faccia non era più quella di qualche anno fa: nel viso le si leggeva l'orrore, la paura, quella telefonata della Farnesina e poi i giornali, le edizioni straordinarie e la vergogna. I funerali di Stato, il presidente commosso, il ministro a petto gonfio, lui che la guerra l'aveva vista soltanto dal suo elicottero verde. I dettagli, le insinuazioni, lo strazio sul cadavere di Gianni, il congedo e forse, un giorno, una medaglia. Luisa posò la stampella e abbracciò la vecchia. In fondo il problema non era suo. Non poteva esserlo più.
Limitatamente al web, l'immagine pubblicata in questa pagina è rilasciata secondo i termini della licenza cc-by-sa 3.0. Può essere utilizzata a patto di indicare la seguente dicitura: "Foto di Silas Flannery per Il padre dei racconti. Licenza cc-by-sa 3.0 limitata al web, fonte: silasflannery.blogspot.com".
Ancora una volta, i miei complimenti. Lo scenario della guerra qui descritto mi ha davvero colpito.
RispondiEliminaGrazie, Hydra. Come puoi intuire dal fatto che la foto l'ho scattata io non tutto è inventato.
RispondiElimina(E no, se la domanda successiva è se ho fatto il servizio militare la risposta è che no, non l'ho fatto. Però sono stato in guerra. Dalla parte del bene, se ne esiste una: quella che non sta né da una parte né dall'altra e non ha armi se non si considerano tali un taccuino e una macchina fotografica).
Ho avuto i brividi nel leggerlo...sei veramente bravissimo a trasmettere emozioni e sensazioni indescrivibili...complimenti...
RispondiEliminadopo essere tornata dalle ferie, è un piacere tornare a leggere i tuoi racconti.
RispondiEliminasono stata ad hiroshima al museo della pace... nonostante siano passati 65 anni... si percepisce ancora l'orrore.
non vorrei mai essere in guerra, ne dalla parte del bene, ne dalla parte del male.
perchè non esiste ne il bene, ne il male in guerra... ma soltanto l'idiozia dell'uomo.
Tutto d'un fiato letto. Davvero struggente. Anche se "...e bum, voli nel vento, veloce come la tristezza quando ti cattura,..." mi ha commosso proprio.
RispondiEliminasai davvero raccontare e far immedesimanre qualsiasi lettore nella storia..complimenti davvero.
RispondiEliminaGrazie a tutti.
RispondiElimina@Usagi: sì e no. Lo dice la protagonista, che in guerra non c'è nessuno nella parte del buono, ma - se mi permettete un ragionamento impegnativo - sono convinto che questo ragionamento non possa essere esteso a tutti, comprimari e comparse.
Don Lorenzo Milani, il pensatore al quale io credo di dovere la parte della mia formazione personale che si può ascrivere alla sinistra cattolica (per quanto quasi tutto il resto delle mie convinzioni sia molto lontano dalla cultura cattolica), sosteneva e difendeva ne "L'obbedienza non è più una virtù" una tesi di Gandhi: "Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine della guerra". Questa tesi, condivisibile e sostanzialmente alla base del ragionamento che faccio fare a Luisa, non può essere estesa però, a mio avviso, a chi della guerra si fa osservatore, non operatore in alcun modo ma mero narratore. La funzione di ogni persona dotata di intelletto, di senso critico, è chiamata a vedere il mondo, capirlo, decodificarlo. Chi sul teatro di una guerra si presenta così, armato dei propri occhi, non può che essere dalla parte del bene, perché non prende parte a quel che racconta, ma si limita ad assolvere la propria funzione di individuo. In altri termini non può che essere l'antidoto all'idiozia di cui parli.
Ok, fine del pippone pesantissimo, si torna a cazzeggiare.
mi soffermo su quella che a mio avviso è la frase più bella del racconto:Mine antiuomo, le chiamano, ma anche un bambino le fa saltare: basta un soffio, un albero che muore o un passo improvvisato e bum..." stupenda, quel bum, suono rubato ai cartoni animati, così infantile e così spaventoso allo stesso tempo, davvero bravo. baci
RispondiEliminaPensa che invece a me è piaciuta un sacco la seconda parte di quella frase: "voli nel vento, veloce come la tristezza quando ti cattura..."
RispondiEliminaUh, insomma, basta con quella frase. Non fatemi diventare timido ^^
RispondiElimina(E' solo un modo sufficientemente antipatico per dire grazie).
@ SILAS
RispondiEliminadalla parte del bene, secondo me, ci sta chi impara la lezione della guerra e fa di tutto per evitare che possa esplodere di nuovo e di nuovo.
Sì, sono d'accordo.
RispondiEliminaquella frase fa cagare.
RispondiElimina(scherzo, naturalmente. complimenti.)
Sapevo di poter contare sul tuo aiuto, g9 :)
RispondiEliminaDavvero un idea originale quella di un Blog in cui si possano pubblicare i proprio racconti. Idea interessante e in questi mesi così neri in cui si taglia oltre che nella scuola e nella sanità anche in tutto ciò che è cultura è veramente una bella iniziativa.
RispondiEliminaGrazie per essere passata da queste parti e per il commento, Chiara.
RispondiEliminaA presto, allora (e magari con un tuo racconto, se ti va: in alto a destra trovi le istruzioni per mandarmene uno, se ne hai voglia).
Quante barriere quel ponte...
RispondiEliminasembrano così stupide le nostre vite, i nostri conflitti quotidiani al confronto...
già...non è un racconto interamente ispirato dalla fantasia...
è un racconto di vita, trasformata in morte dall'odio e dall'incomunicabilità che talvolta sussiste tra culture, etnie, religioni...
scritto splendidamente...
un saluto dal Giramundo's trio
Enzo Linda Veronica
Grazie mille per essere passati di qui, Enzo Linda e Veronica.
RispondiEliminaBeati coloro che hanno sentito (del)la guerra attraverso i racconti...
RispondiEliminaBeati loro, Selene.
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