venerdì 28 gennaio 2011

Antimafia

Fine settimana con esordio su queste pagine: a voi Accursio Sabella.

Il suo sguardo era proprio come avevo immaginato. Sembrava guardare attraverso il fumo. Guardare oltre. Persino oltre la figura di Antonio Mangiarano, simbolo della legalità. Della lotta alla mafia. Della voglia di cambiamento in Sicilia. “Sto figlio di pulla”, lo apostrofò Gigi Bevilacqua. Panettiere di Casimi, paesino alle porte del capoluogo. A lui la mafia aveva bruciato il portone del negozio. Aveva fatto trovare sgrammaticati biglietti di minaccia sotto la porta di casa. Aveva persino avvicinato il ragazzo che per lui impastava il pane e preparava la pizza. E per qualche giorno il pane dal suo forno uscì senza sale. E lo sfincione era acido. La salsa non era buona.
Ma Gigi Bevilacqua andava avanti. E non capiva. O faceva finta. Faceva lo svedese. Così, di fronte a chi gli diceva: “Ma tu ti sei messo a posto?”. Lui rispondeva: “Io sono nato a posto”. E il suo posto era Casimi. Dove era nato. E dove voleva morire. Da vecchio, però. E poco lo attraevano le luci di Palermo. Che lui a volte intravedeva, la sera, dalla piazza del paesino. In alto. Dove il capomafia Totò Castrenze si sedeva a prendere il caffè. E lo guardava. Con uno sguardo bonario, per la verità. Quasi compassionevole. Totò Castrenze invece amava Palermo. E ci scendeva ogni giorno, a curare i suoi affari.
Anche Antonio Mangiarano amava la città. Il paesino gli stava stretto già da ragazzo. Era di Montegrano, a due passi da Casimi. Ma Palermo era un'altra cosa. Le sue “lotte” da ragazzo interessavano pochi e scalcinati picciotti di paese. Le sue denunce erano indirizzate ad amici di amici. Con i quali, alla fine, un modo per prendere un caffè insieme lo si trovava. Ma a Palermo era un'altra cosa. C'erano i giornali. C'era la tivvù. E c'erano tante occasioni per sedersi dietro i tavoli dei convegni. Delle conferenze. Degli incontri con gli studenti.
E anno dopo anno, il ragazzino di Montegrano divenne simbolo. Immagine. Con quel suo slogan: “Leviamo le ruote alla mafia”. Che diventò mantra per tanti. Simbolo del cambiamento.
“Sto figlio di pulla” lo apostrofava, nonostante tutto, Gigi Bevilacqua. E tirava un boccone di fumo sofferto. E sembrava guardare oltre. Oltre il palco dove Antonio Mangiarano stava per salire. Lo attendevano in tanti. Aveva, si disse, qualcosa di importante da dichiarare. Quando entrò nella sala del cinema Liberty una ressa di gente lo accolse. Gli strinsero mani. Pacche sulle spalle. Sorrisi e braccia aperte. Finché qualcuno non lo “catturò”, per scortarlo fin sul palco.
“Sto figlio di pulla”, stavolta Gigi Bevilacqua non lo disse. Ma non c'era bisogno. Lo conoscevo bene. Gli avevo parlato spesso, e in tante occasioni. Raccolsi i suoi sfoghi e la sua rabbia. La sua solitudine. Il giorno dopo l'incendio del portone gli dissi: “Devi guardare oltre. Oltre quel fumo”. Lo fece. Ma quel giorno al cinema Liberty il fumo sembrava arrivare da troppe direzioni per poter trovare un varco. Mi avvicinai e lo presi per un braccio. “Andiamo a prendere un caffè”, gli dissi. Mi seguì, come se attendesse quell'invito da tempo.
Fuori dal cinema la città sembrava silenziosa e placida. Come una cicciona sdraiata al sole. Persino al bar “I gerani” pareva essere stati catapultati altrove. Nel tempo e nello spazio. Dentro, invece, Antonio Mangiarano aveva iniziato a parlare. “Cari amici, è il momento in cui tutti dobbiamo stare vicini. Perché proprio in questi mesi, in cui tanti, troppi ingenui hanno pensato a una prossima sconfitta della mafia, bisogna alzare la guardia. Stare all'erta”.
Noi, intanto, ordinammo il caffè. Mi accorsi solo in quel momento che Gigi Bevilacqua non aveva ancora aperto bocca. Lo invitai: “Che hai? Che è successo?”.
Mi guardò finalmente negli occhi. Arrivò il cameriere al tavolo con i due caffè. “Ti hanno tirato mai per le due braccia?” mi disse finalmente. Ma non colsi. “Per le due braccia. Uno ti tira da una parte e una dall'altra”. Gli chiesi di spiegarmi. E lui: “Tu lo sai cosa mi è successo. Mi hanno dato fuoco al negozio, mi hanno minacciato, mi sfottono se giro per le strade di Casimi. Hanno persino aperto una panetteria di fronte alla mia, per togliermi i clienti. Dicono che sono un amico degli sbirri. Persino i miei parenti evitano di salutarmi”.
Già, la mafia, pensai. Che si rivela lì, Nelle pieghe lasciate intatte dalle bombe al tritolo. Dai funerali di Stato. Dalle leggi e dalla repressione. Dalle grandi manifestazioni zeppe di retorica. Eccola lì, la mafia. Sulle labbra di Gigi Bevilacqua, che quasi tremano. Negli occhi di chi lo guarda in giro per Casimi e in quelli di chi si volta dall'altra parte.
“Io, lo sai, chiesi aiuto ad Antonio Mangiarano. Alla sua associazione. E mi aiutarono, in effetti. Fecero conoscere la mia storia a tutti. Ebbi una certa visibilità. E le cose per me un po' migliorarono”.
“Leviamo le ruote alla mafia”. Così Antonio Mangiarano, intanto, tuonava dal palco del Liberty, mentre io e Gigi Bevilacqua stavamo seduti al nostro tavolino del bar. E proprio in quegli attimi, il “simbolo” dell'antimafia sferrò il suo attacco: “Mi riferisco a quell'associazione di presunti antimafiosi, che si sono permessi – scandì quella parola alzando il tono della voce – di scegliere, come slogan, quello di 'Togliamo il motore alla mafia'. Si tratta di un chiaro tentativo di avvicinare, nell'immaginario collettivo, la loro non ancora chiara attività, alla nostra meritoria associazione. Per questo – aggiunse – abbiamo dato mandato ai nostri legali di verificare, in tutte le sedi, i presupposti per un'azione legale nei loro confronti”. Applausi. Ma non era finita lì.
“E non lasceremo passare – aggiunse – nemmeno il tentativo di un giovane, forse non ancora esperto romanziere, di riscrivere la storia della nostra Terra. E soprattutto la storia dell'assassinio del sindacalista di Libiria, Pino Catalano. Questo scrittore imberbe, infatti, si è permesso di affermare, nelle pagine di un libro inaspettatamente e ingiustificatamente di successo, che il processo sulla morte di Catalano sia stato riaperto grazie alle dichiarazioni del pentito Carlo Tagliameni. Bene, chiederemo i danni a lui e alla sua casa editrice, visto che il processo fu riaperto in seguito all'esposto alla magistratura presentato, già un anno prima, dalla nostra associazione”.
Il pubblico era in visibilio. E la notizia rimbalzò su tutti i tg. Persino quelli nazionali. Dove Antonio Mangiarano esibì un'espressione dolente, dispiaciuta, per gli abusi di certi, ripetè, “presunti antimafiosi”.
“Sto figlio di pulla”, avrebbe detto Gigi Bevilacqua davanti a quel tiggì, qualche ora dopo, prendendosi il cazziatone di sua moglie. Ma lì, davanti al bar, mi svelò i motivi della sua rabbia.
“L'altro giorno, quando mi hai intervistato”, mi disse, “io ringraziai i poliziotti e i carabinieri che mi erano stati vicini...ricordi?”.
“Certo”, risposi. “E io l'ho scritto”.
“Sì, giusto. Solo che mi sono dimenticato di ringraziare Antonio Mangiarano”.
“E allora?”
“Guarda qui”.
Prese una busta dal taschino. La aprì. Era una lettera di Mandarano indirizzata a lui. Poche righe, che recitavano: “Leggo sul giornale che devi ringraziare solo polizia e carabinieri. Ne prendo atto. Non so se considerarlo un esempio di maleducazione o di masochismo. Io e la mia associazione ce lo ricorderemo quando avrai di nuovo bisogno”.
Lo guardai attonito. Aveva le lacrime agli occhi. Accese una sigaretta. Guardò oltre il fumo. Per qualche secondo regnò il silenzio. Al bar “I gerani” sembrava d'essere altrove. Mentre al cinema Liberty risuonava ancora l'intervento di Antonio Mangiarano. E gli applausi scroscianti della gente accorsa. E il ticchettio dei computer che avrebbero raccontato l'evento.
“Ormai”, mi disse Gigi Bevilacqua salutandomi, “pure quando fumo una sigaretta, ho l'impressione che qualcun altro me l'abbia messa in bocca”.

5 commenti:

  1. Che bell'esordio.. complimenti.. hai descritto una scena davvero molto verosimile... Purtroppo..

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  2. già si sente anche l'odore del caffè

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  3. La triste realtà.
    Complimenti all'esordiente.
    :)

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  4. Grazie per i complimenti. Troppo buoni.

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