giovedì 23 dicembre 2010

Sei minuti

“Sei minuti!”. Una voce richiamò Fausto dai suoi pensieri: Milly Carlucci ballava una rumba con quattro ballerini abbronzatissimi e inespressivi, carne da macello esposta in bella mostra sul teleschermo, ma intanto il conto alla rovescia correva in sovraimpressione. “E allora un altro brindisi - disse Alfredo - Che il 2029 vi porti la serenità”. Bicchieri che si levavano, tintinnii e sorsi rumorosi.
Già, la serenità. Fausto pensò a quel giorno di 22 anni prima: era solo un ragazzotto depresso, un normale adolescente insoddisfatto. Pensò a Gianni, al suo racconto: era un grande affabulatore, Gianni, sapeva perfettamente come far presa su chi l'ascoltava. E sopratutto ogni suo gesto era un'impresa, ogni sua idea veniva considerata la migliore, ogni ragazza minimamente carina prima o poi passava dal suo letto. “Ho un segreto – gli aveva spiegato – Ho fatto un patto col diavolo”. Gli aveva creduto, lì per lì.
“Cinque!”. L'orologio non si fermava, e tutto intorno la festa non faceva altrimenti. Eleonora diede un altro sguardo alla danza sgraziata della soubrette e si lanciò nell'ennesimo rimpianto: “Ah, la televisione di una volta – commentò – Guarda Milly Carlucci: guarda com'è ridotta. E dire che era una che faceva tv di qualità”. Per un istante Fausto fissò la cugina e passò in rassegna la carriera della conduttrice cercando di individuare quale fosse il capolavoro del quale era stata protagonista. Non lo trovò, ovviamente. Ma soprattutto non gli interessava granché: pensava a quella notte del 2006.
Lui a letto. Alle pareti un poster di Nedved, la locandina de “La compagnia dell'anello”, una specie di gigantografia di Angelina Jolie in versione Lara Croft e la bandiera del Pci. Un ragazzo tutto sommato confuso, ma con una certezza: una strada per la felicità esisteva. Nonostante fosse in dormiveglia, ricordava perfettamente quasi tutto: l'invocazione del diavolo, la sua immagine che gli era apparsa nella mente, un contratto.
“Meno quattro!”. Eleonora continuava a esporre il suo improvvisato saggio di storia della televisione: “La fine è stata 'Passerissima'. Dico io: una che ha sessant'anni, con una carriera di quel genere alle spalle, come fa a sputtanarsi così? E poi, voglio dire, aveva appena fatto 'Ballando con le stelle': come fai a condurre una trasmissione di strip-tease in prima serata?”. Sarah non riuscì a trattenersi: “Sì, ma ricordi com'è finita? Cioè: ce la ricordiamo tutti la storia di Luca Giurato”. Fausto non riusciva ad appassionarsi. Anche perché, ecco, i suoi ricordi a un certo punto si fermavano.
Certo non rimpiangeva di avere dimenticato cosa fosse successo a Giurato. Però gli sarebbe piaciuto conoscere più nel dettaglio i termini del contratto: sapeva che aveva chiesto al demonio una carriera di successo e un tappeto di donne ai suoi piedi, ricordava che in cambio gli aveva promesso l'anima. E poi? Poi Satana aveva preteso che il contratto avesse una scadenza, che un 31 dicembre sarebbe morto tragicamente per discendere agli inferi. Già, ma il 31 dicembre di quale anno?
“Dai, ragazze, ne mancano tre”. Per fortuna Milly Carlucci aveva smesso di ballare, in tv un coro di bambini intonava l'ultimo successo di Miley Cyrus e il dibattito si era spostato sulla pancia di Dafne. Già si intravedeva un rigonfiamento: segno che il bambino sarebbe nato comunque, nonostante quel porco di Maurizio fosse sparito di fronte al no della ragazza a un aborto clandestino. Che se ne andasse a quel paese, Maurizio: vuoi mettere il rischio di far morire Dafne perché lui non voleva assumersi le sue responsabilità?
Neanche la sorte di sua figlia riuscì a distrarre Fausto dai suoi pensieri. Dai ricordi, quelli che gli erano rimasti: effettivamente subito dopo il patto tutto era andato per il verso giusto, anche se non poteva dire con certezza che fosse merito del diavolo. Si era diplomato con il massimo dei voti, e intanto aveva scoperto una vita sessuale incandescente. Poi si era laureato in Giurisprudenza nel giro di quattro anni ed era entrato, giovanissimo, in consiglio regionale. La scalata era stata inarrestabile: in pochi anni era stato parlamentare, poi due volte ministro e a 35 anni aveva dato l'addio alla politica per iniziare a fare lo scrittore. Ma la paura, quella no, quella non l'aveva lasciato.
“Due minuti!”. Quella voce di fondo, che interrompeva ogni minuto la trasmissione, era persino più fastidiosa di tutto il resto: se l'intenzione di Ottavio era segnare il ritmo della festa, beh, il risultato era davvero irritante. Era lì, in un angolo, parlava solo per dare il tempo. Forse aveva fatto un patto pure lui.
Fausto lo guardò e pensò che in fondo sì, poteva somigliare a lui. Beh, tranne il successo: Fausto aveva vinto due premi Strega, sfornava libri da un milione di copie vendute in tutto il mondo, quell'anno qualcuno aveva persino improvvidamente fatto il suo nome per il Nobel. Ma una cosa poteva accomunarli: quell'angoscia, quel silenzio, il rito di ogni San Silvestro. Si vide come dall'esterno: mentre gli altri festeggiavano, lui era lì, pensoso, per i fatti suoi. Aspettava la sua sorte, incerto sulla possibilità che l'anno fosse quello. Aveva persino smesso di andare a feste piene di gente, visti i risultati: lui, la più loquace delle persone che conosceva, a Capodanno si trasformava sempre in un orso. Odiava quelli che pretendevano di fargli una domanda, li odiava con tutto il cuore.
“E siamo a meno uno!”. Quell'indegno coro si era fermato: adesso la conduttrice presentava il numero che sarebbe partito prima della mezzanotte, il medley di Samuele Bersani che ci avrebbe traghettati verso il nuovo anno. Mentre il cantante enumerava i suoi propositi per il 2029 Alfredo si affrettò a tirare fuori dal frigo lo champagne.
Era questa, in fondo, la vittoria del diavolo. Dimostrargli che il successo non dà la felicità, che una grande carriera non l'avrebbe sollevato. Fausto sorrise: 22 anni prima, quella notte, si era persino illuso di potere scoprire se il diavolo esistesse o meno. Se non fosse morto, o se il successo non fosse arrivato, ne avrebbe avuto la certezza. Aveva perso la sua scommessa.
“Cinque”.
E forse il diavolo non esisteva davvero. Forse il successo era arrivato per caso, forse quella era soltanto la condanna che subisce la ragione quando non si affida a se stessa.
“Quattro”.
Del resto che bisogno aveva, il diavolo, di rispettare il patto? Un'anima che si rivolge a Satana non è forse per ciò stesso dannata?
“Tre”.
Avrebbe cambiato stile di vita, ecco cos'avrebbe fatto: non aveva più senso aver paura della morte, non aveva più senso credere in quelle idiozie adolescenziali.
“Due”.
Se un giorno fosse morto, beh, almeno sarebbe morto felice. Sarebbe morto con la soddisfazione di avere toccato il cielo.
“Uno”.
Cosa importava, in fondo, quale fosse la via che l'aveva portato al successo? Lo sapeva già prima, mentre invocava il demonio, di avere un'intelligenza superiore alla media.
“Auguri!”.
Un colpo sordo risuonò nella stanza. Il tempo sembrò fermarsi.

Questo blog chiude i battenti per una decina di giorni. Buon anno e, per chi ci crede, buon Natale. Prossimo racconto il 3 gennaio.

mercoledì 22 dicembre 2010

La quiete prima della tempesta

Classico appuntamento del mercoledì con la saga di errebi, che oggi arriva al giro di boa. Puntate precedenti: prima, seconda, terza, quarta.

Da un po’ di tempo a casa del signor Giulio le cose sembravano andare per il verso giusto. Paola la figlia di Clara stava continuando alla “grande” gli studi alla università. Marta la figlia di Virginia dopo lungo cercare era entrata nel mondo della scuola ed ora insegnava in una scuola media nelle vicinanze del paese d’origine. Matteo fratello di Marta impegnato anche lui all’università con il dovere categorico di emulare le gesta della sorella con un corso di laurea completamente diverso, più impegnativo, rognoso, anche se a dir la verità non ci voleva molto a fare un corso più impegnativo di quello di Marta ma il modello al momento, aspettando Paola che arriverà a quali magnifici traguardi, era Marta. Quanto orgoglio per il signor Giulio e la signora Silvia. Marta laureata a pieni voti, il fratello Matteo prossimo al traguardo, Paola che prometteva chissà quali mirabilie. E Francesco? Figlio di Elena e Claudio è la pecora nera della famiglia. Anticonformista, uno spirito libero, soffre l’ambiente rococò e conformista della famiglia. Lui no, nello studio non aveva raggiunto gli eccelsi traguardi dei cugini. Si era fermato al terzo anno della scuola superiore lasciando un po’ di amaro in bocca ai genitori. Si era buttato cuore e cervello nel lavoro dove sperava di ottenere i risultati che i cugini avevano ottenuto negli studi. Elena soffriva un po’ questa decisione del figlio soprattutto perché sapeva come avrebbero reagito i genitori e le sorelle mentre Claudio anche se un po' amareggiato, non aveva dato troppa importanza alla decisione di Francesco. “Insomma Elena se Francesco non ha più voglia di continuare a studiare che vada pure a lavorare chissà che il mondo del lavoro non gli dia le soddisfazioni che lo studio non gli ha dato. Non ne farei proprio una tragedia”. “Sì lo so Claudio ma cosa mai diranno i miei. Già mi sembra di sentire le mie sorelle. Ti ricordi quando Francesco si era iscritto al Liceo Artistico cosa aveva detto mia sorella Virginia?” rispose Elena. “Guarda non è che abbia un grosso interesse su quello che sentenzia tua sorella Virginia e, tanto meno, quello che pensa tua sorella Clara ma al momento proprio non mi viene alla mente, non ricordo”. “Ma dai Claudio” rispose Elena “gli aveva già trovato il futuro lavoro. Il madonnaro”. “Benissimo, campi aperti, cielo azzurro, creatività e soprattutto senza nessun padrone” rispose Claudio. “Va bene, va bene Claudio. Con te parlare di queste cose è impossibile. Lo so come la pensi ma mi intestardisco a parlatene ancora. Ma ti sembra, con tutto il rispetto per i madonnari, ma non possiamo pensare un futuro migliore per nostro figlio?”. E Francesco il suo futuro se lo scelse così in un mattino di estate cominciando a lavorare in un negozio di parrucchiere per donna. Al momento sembrava una pazzia giovanile ma piano piano, la cosa prese la direzione giusta e Francesco si innamorò del suo lavoro. Claudio ed Elena cominciarono anche ad esserne felici. Finalmente chissà che il ragazzo avesse preso la strada giusta. Quante difficoltà però. Che carattere ribelle e difficile aveva Francesco. Era in lui innato il suo spirito di libertà e le regole troppo rigide non facevano al caso suo. I litigi con i titolari del negozio non mancavano mai e Francesco così migrava da una parte ad un'altra. Fino a che il tempo segnava bello tutto andava a gonfie vele poi il cielo si annuvolava con tante nubi nere, fulmini e tuoni e, Francesco, vacillava, sbuffava come una locomotiva ingolfata. “Non possono trattarmi così. Faccio le pieghe, le tinte, sto incominciando ad imparare a tagliare i capelli e mi danno una pipa di tabacco. I soldi non mi bastano mai”. Così Francesco ogni qualvolta abbandonava un posto di lavoro per poi, dopo un po’, trovarne subito un altro. Claudio ed Elena non sapevano ormai più come gestire la cosa. Ma più parlavano e più cercavano di spiegare a Francesco che non è tutto oro quel che luccica e più il ragazzo restava della sua idea, spirito libero. Il tempo dunque trascorreva a volte sereno a volte né brutto né bello altre ancora di un temporale ma di un temporale pieno di lampi e saette. La famiglia guardava e appena ne aveva l’occasione era prodiga di sentenze. La signora Giulia non smetteva mai di dire alla figlia Elena che quel ragazzo doveva mettere la testa a posto, la sorella Clara era invece più propensa all’insegnamento delle regole del bon ton mentre Virginia lo commiserava guardando soddisfatta Marta e il figlio Matteo. Francesco lo aveva capito benissimo ed era abilissimo a sviare tutti gli appuntamenti “d’alta società” con la famiglia ben sapendo che discorsi sarebbero venuti fuori. Ed è così, dunque, che nonostante tutto il sereno regnava a casa del signor Giulio. “Voglio comperarmi la moto” così un giorno Francesco ai genitori. “La moto, non se ne parla nemmeno”, disse Elena. E poi con che soldi pensi di comperarla?”. “Con i miei” rispose Francesco. “Con i tuoi ma se ti lamenti sempre che prendi poco dove credi di trovarli?” continuò Elena. “Faccio un prestito e mi compro la moto”. Elena informò della cosa Claudio al suo rientro dal lavoro alla sera. “La moto non se ne parla nemmeno” disse Claudio “Troppo pericolosa, non è per i soldi può essere un impegno buono per Francesco il prestito. Così dovrà pensarci un po’ sopra prima di spenderli. Ma la moto proprio no. Ne succedono di incidenti uno al giorno per strada e non avrei proprio la voglia di trovarmi ai piedi di un letto d’ospedale. Non se ne parla proprio”. Poi passarono i giorni, i mesi e Francesco non mollava la presa. D’altronde, pensò ad un certo punto Claudio, non si può negare tutto a quel povero ragazzo. Alla fine la moto arrivò anche con l’aiuto di Claudio e Francesco non stava più nella pelle. Elena e Claudio si accorsero subitò della felicità del ragazzo e della gioia che il mezzo meccanico gli procurava. “Come la mamma, non poteva essere diversamente. Ahhh quanto avrei voluto anch’io avere una moto” disse Elena. Anche l’impegno economico per Francesco sembrava aver smosso le corde giuste e circa dopo sei mesi dall’acquisto conobbe una ragazza. La ragazza del cuore. Nel circolo famigliare la cosa non era stata presa troppo bene. A parte il nonno Giulio tutti gli altri avevano, come sempre di solito, espresso parere negativo. Poi con il tempo la cosa era andata scemando si era arrivati alle festività natalizie, all’anno nuovo e a quella maledetta sera di fine gennaio. Francesco aveva deciso. “Presento Alessia ai nonni” aveva detto ai genitori. Lo stesso giorno maledetto Elena lo aveva chiamato al cellulare per chiedergli se andava con lei a far delle spese e lui aveva risposto che, dopo la doccia, sarebbe passato a prendere Alessia in moto, per andare dai nonni. Elena allora aveva preso la strada di casa e a metà della stessa aveva incrociato una ambulanza che correva con la sirena accesa, a tutta velocità, dalla parte opposta. Uno strano presentimento. Poi “Mamma mia quanto traffico stasera”. Elena svoltò alla prima deviazione e si risparmiò il luogo dell’incidente di Francesco. Driin, Driin il telefono di Elena squilla. Dall’altro capo del filo Alessia. “Elena ciao, sono Alessia. Francesco ha avuto un incidente in moto. Non è nulla di grave, tranquilla. Quando puoi tu e Claudio venite in ospedale lo stanno medicando”. Elena non collegò il traffico e l’ambulanza di prima. Chiamò Claudio e gli comunico la cosa. Molto calma, non dando fretta al marito ma pregandolo di fare il più presto possibile. La quiete prima della tempesta. Giunti all’ospedale Elena e Claudio vengono informati della gravità del figlio Francesco. Elena non regge. Gli vengono somministrati dei tranquillanti ed entra quasi in uno stato di oblio. Viene adagiata in un lettino dove piange senza interruzione con Alessia al suo fianco. Francesco se ne sta andando. Claudio è uscito dal pronto soccorso dove erano arrivati e le prime persone che avvisa telefonicamente sono Livio e Clara. “Pronto Clara Francesco un incidente è grave”. Clara e Livio si precipitano in ospedale e vi giungono nel momento in cui il medico che ha accolto Francesco chiamava al colloquio Claudio e Elena. Vi esento da simile strazio e arriviamo subito al teatrino messo in scena dalla famiglia. Clara completamente scoppiata impreparata a un simile sconvolgimento. Virginia e Fabrizio due statue di cera ma con la facoltà della parola. “Beh insomma istituti ce ne sono per accogliere Francesco basta sapergli scegliere”. Queste le parole di Virginia verso la sorella Elena. “Bisogna accettare la gravità della situazione cerchiamo di non rifugiarci in false speranze, le speranze non ci sono” così Fabrizio mentre parla con Livio pensando che Claudio non lo stesse a sentire. Il signor Giulio non capisce il momento e si preoccupa molto di più dei suoi problemi dell’età che del dramma di suo nipote Francesco e della figlia Elena. La signora Silvia sembra come chiusa in una ampolla di vetro da dove cerca di farsi disperatamente sentire. Soffre soprattutto per Elena e anche se solo per disperazione spera in un miracolo. Livio, l’ingegnere, partecipe al dolore di Claudio e Elena ma, anche lui, non dà speranza. Che dire poi dei cugini. Non bisogna distrarli dal loro lavoro e dai loro impegni di studio. Sì va bene Francesco è in grosse difficoltà ma, come si fa, la vita continua.

Clara istericamente cerca di volersi dare da fare in tutti i modi. Si inventa dapprima il ruolo di segretaria. Sì di segretaria. Francesco durante il ricovero ospedaliero non verrà mai lasciato solo e Clara si offre come punto di riferimento per l’organizzazione dei turni al capezzale del nipote. Prende talmente a cuore l’operazione che munita di agenda e calendario detta i tempi alle persone disponibili a dare una mano. Ecco come passava il tempo in studio di suo marito. Non si era mai capito ma, adesso è lampante, gestiva gli appuntamenti. E così talmente presa dal nuovo impegno era ormai quotidianamente al telefono, oltre che per le normali chiacchere giornaliere, anche per l’organizzazione dei turni di fabbrica. Francesco era più di là che di qua. Nessuno gli dava una chance. Solo Elena con la sua forza e tenacia dava dimostrazione di crederci mentre, Claudio, anche lui ci credeva ma non lo dava molto a vedere. Da questa tragedia si aprì un mondo che Claudio e Elena non conoscevano. Tante persone, quasi degli estranei, a far da contraltare al comportamento distaccato della famiglia. La riscoperta degli amici quelli veri. La vicinanza di tanta gente che nulla chiedeva in cambio. Tre lunghi mesi alternati da speranza e grande dolore poi il trasferimento al primo centro di riabilitazione. Non c’era ancora Francesco d’altronde in ospedale era stato trattato solo per salvargli la vita. Se era entrato in quell’istituto era solo merito di Elena e Claudio neanche i medici volevano mandarlo ma c’era arrivato. Tutto è incominciato d’un tratto, all’improvviso. Una moto che perde il controllo, che scivola a terra, un impatto fatale. E poi è silenzio, seguito dai soccorsi e dalle telefonate. Lunghi momenti scandite da pause fatte di “rumoroso” silenzio. Un istante fatto di lunghissima tensione, di parole cercate a fatica, di silenzi che parlano da soli e che nessuno dimenticherà più. Sorprendendosi su questi pensieri, i primi dopo tre lunghi mesi, Claudio e Elena si guardano, si parlano: “L’incidente fosse stato solo quello. Purtroppo non è mai questione di un attimo. È un impatto che si ripete un continuo inizio senza fine. Sarà così Claudio, ne sono certa”. “Una dura lotta, Elena, contro il tempo. Tempo che trascorre veloce che ci mette davanti ad una scelta, continuare o mollare” rispose Claudio. “Mai questo mai Claudio noi continueremo per Francesco e per noi. Nostro figlio ci chiede di ritornare a vivere e noi faremo il possibile per fargliela riconquistare”. Era ormai primavera inoltrata, le giornate si erano allungate e Francesco non era più disteso su di un letto di ospedale. Aveva cominciato, durante il giorno, a stare alcune ore seduto in carrozzina. Non era ancora cosciente di dove si trovava e non poteva nemmeno vederlo. L’incidente lo aveva fatto diventare non vedente. Elena dopo la prima settimana con Claudio era rimasta sola. Non era più tornata al lavoro da quella sera. Si era sistemata in un appartamento presso una parrocchia del posto e trascorreva tutta la sua giornata con il figlio Francesco. Claudio continuava il suo lavoro e alla sera ritornava a casa. In quella casa vuota senza Elena e Francesco cenava e se ne andava a letto. Riceveva ancora tante telefonate da persone vere a cui stava a cuore il futuro di Francesco ma, dalla famiglia solo formale solidarietà. “Me lo immagina Fabrizio prima o poi doveva succedere” Virginia rivolta al marito. “Poi quando gli hanno permesso di acquistare la moto mi sono subito immaginata il peggio. Quel ragazzo…”. “Mah sai questi ragazzi non sai mai come prenderli” rispose Fabrizio “Non sai mai come prenderli? Guarda i tuoi figli Fabrizio, un indirizzo sicuro al loro fianco, una madre ed un padre coscienti e decisi. Non vorrai mica paragonarti a Claudio. Non voglio certo parlar male ma anche mia sorella. Insomma c’è un limite a tutto”. Virginia la solita cinica aveva gettato la maschera sputando giudizi come era uso comune nella famiglia. Clara era invece come prigioniera di una crisalide. Da una parte il contegno e lo sdegno della famiglia per quello che era successo. Dall’altra la necessità di sentirsi almeno per una volta utile a qualcosa. Una continua guerra tra il bene e il male. Una ricerca di una giustificazione che a volte respingeva e altre voleva far sua non riuscendoci. Nove lunghi mesi trascorsi in quell’istituto, quattro stagioni, e Francesco che lentamente era ritornato a parlare, muoveva qualche passo ma era ancora sospeso in un limbo tra vita e non vita. Poi, qualche giorno prima che scadesse un anno da quella sera, il trasferimento in un’altra realtà. “Come cambia la vita” disse Elena a Claudio “Prima si conduce una vita normale, fatta di amici, di quotidianità, e poi come tutto quello che consideravi una volta normalità, diventa normalità il presente” Percorrevano l’autostrada verso la nuova destinazione. Elena seduta dietro e Francesco vicino al posto guida. “Quanto manca papà ho bisogno di andare al bagno” “Ce ne è ancora di strada da fare Francesco ma al primo autogrill ci fermiamo” “Dove siamo adesso papà?” “Ma siamo circa a 2 ore di strada dall’arrivo”. Dietro a loro seguivano Clara e Livio che si erano offerti di accompagnarli. “Ma guarda un po’ Elena mi sto ancora chiedendo se Clara e Livio sono venuti perché mossi da spirito fraterno o perché, con la scusa, si fanno una gita fuori porta!”. “Ohh insomma Claudio non essere così cattivo dai, almeno questa volta vedi di pensare positivo”. “Certo Elena io penso positivo perché son vivo, perché son vivo…”. “Siamo arrivati all’autogrill papà non ce la faccio più” chiese Francesco. Incominciavano sempre di più ad avvicinarsi le montagne. Le cime erano ricoperte di neve e un vento gelido proveniva dal lago nelle vicinanze. Incominciò così la nuova avventura da metà inverno a primavera inoltrata. Elena sempre sola con Francesco ma, questa volta, con lui anche di notte. Nessun aiuto dalla famiglia. Sì certo qualche telefonata, come va, come non va, bene bene, davvero ma guarda un po’, e come cambiano le cose, chi l’avrebbe mai detto. I cugini fantasmi. Una volta si presenta Marta con il marito proprio una visita formale niente di più. Arrivano con la macchina nuova di Andrea ma, Elena proprio non se ne accorge e Claudio ironizza dopo che se ne sono andati “Ma guarda un po’. Fabrizio è proprio unico. È venuto a trovare il nipote in macchina con sua moglie, sua figlia e il genero con la macchina del genero. Le escogita tutte per non aprire il portafoglio”. “Ma cosa dici Claudio vuoi che Andrea non gli abbia chiesto i soldi della benzina?”. “Io li avrei a chiesti a tuo padre Elena?”. “No”. “E allora ti sei già data la risposta”. Immagino il parlare piano e cadenzato di Fabrizio con Virginia seduta al suo fianco che annuisce. Sono tanti chilometri la mia macchina ha i suoi anni, la benzina, l’autostrada, dovremmo poi certamente mangiare qualcosa, si tornerà indietro con il buio. “Non si preoccupi Fabrizio la mia macchina è ha disposizione”. “No, no Andrea ma cosa dici non se ne parla nemmeno” e poi quello a cui Fabrizio ambiva. Di Clara e Livio dopo la prima volta si era perso traccia per non parlare poi della loro figlia Paola, assente. Si era arrivati a maggio inoltrato e si preparava un altro trasferimento. Elena era stanchissima aveva già dato quasi tutto quello che poteva e non ce la faceva più a continuare con il ritmo infernale con cui era vissuta in questo primo anno. Si ritornava verso casa percorrendo la stessa autostrada, osservando le stesse insegne, le stesse case e gli sconfinati campi del primo viaggio. Elena riusciva a ritornare al lavoro per un brevissimo periodo poi, a rituffarsi nei giorni sempre gli stessi, nei giorni di Francesco. Nuovamente fece capolino l’estate e per il fine settimana Francesco ritornava a casa. Era trascorso un anno e mezzo e Francesco ritornò si a casa ma non in quella in cui era nato ma in una diversa cercata e trovata il più possibile a sua misura. Si avvicinava poi il tempo per Elena di ritornare al lavoro. Lo bramava, lo desiderava quasi come una liberazione, un cambiamento forse, un ritorno alla normalità. E poco prima, durante il trasloco, la dimostrazione lampante dell’essere la famiglia. Soli anche questa volta. Con il povero Fabrizio che era caduto in bicicletta riportando serie lesioni. Sembrava avesse calcolato tutto solo una cosa gli era sfuggita… si era fatto troppo male. Livio e Clara esauriti avevano bisogno di staccare la spina e partirono per una settimana di riposo. Ma guarda un po’ la partenza proprio il giorno del trasloco. Elena e Claudio si trovarono quindi loro due e anche questa volta furono felici di essere solo loro due. Anzi il giorno dopo del trasloco Claudio andò a prendere Francesco e lo portò a casa. Tra scatoloni, mobili da sistemare, letti da fare e tanta confusione andò bene tutto lo stesso. Non andò bene per Clara e Livio, partiti per ricaricarsi tornarono sì ricaricati ma di nervosismo. Clara sempre con il suo perenne mal di testa e l’agitazione dovuta al fatto accaduto a suo nipote. Livio che si caricava al punto giusto della nevrosi della moglie e ogni tanto cadeva anche lui in preda ai fantasmi che costruiva Clara. Insomma ritornarono ma non avevano risolto nulla, anzi. Arrivò poi l’autunno e con l’autunno Clara ritornò al lavoro mentre Federico era in istituto seguito da una persona. Finalmente non c’era più l’estrema necessità della presenza di Elena che comunque nel pomeriggio saliva in macchina e andava giornalmente da Francesco. Arrivo anche quella sera, al tramonto di una giornata di settembre ancora calda. Arrivò una chiamata al cellulare di Claudio. “Claudio sono Livio, Elena è in casa?”. “Ciao Livio no Elena è da Francesco dovrebbe essere qui a momenti hai bisogno di qualcosa?”. “Ma vengo li sarò la verso le 21 la trovo per quell’ora?”. “Ma penso proprio di si Livio, ti aspettiamo”. Claudio chiuse il cellulare per poi pensare un attimo a quella telefonata. Cosa avrà mai di così importante da dire ad Elena e pensò così di avvisarla. “Elena ciao ha chiamato Livio ha detto che poi viene qui. No non so cosa voglia boh non ne ho la più pallida idea”. “Ho proprio dovuto venire qui stasera non potevo farne proprio a meno” incominciò così quella sera Livio. “Tua sorella, non regge la situazione, non dorme più la notte, è in preda a attacchi di pianto, no così non può più andare avanti. La soluzione migliore è non vederci più. Chissà così forse sarà più facile per tutti anche per voi”. Elena sbarrò gli occhi e partì come un fiume in piena. Non risparmiò niente a nessuno si tolse anche qualche sassolino dalla scarpa e invitò Livio ad andarsene. Livio non era abituato ad essere trattato così. Nessuno si poteva permettere di farlo e ci mancò poco che allungasse le mani contro Elena se, in quel momento, Claudio rimasto fino a quel punto ad ascoltare, non si mise tra i due e li separò. Elena finalmente aveva avuto il coraggio, mai avuto da Claudio, di sputare in faccia a Livio tutto quello che pensava e Livio fuori di lui si congedò a modo suo “È meglio che esca da questa casa per non ritornarci mai più, ricordatevi che nessuno può permettersi di comportarsi con me come avete fatto voi questa sera”. Uscì urlando ancora sbattendo violentemente il cancello del giardino. Poi silenzio. Elena si sfogò con Claudio certamente a ragione perché era intervenuto troppo tardi senza aver preso le sue difese. Claudio rimase in silenzio, non cercò giustificazioni ma, non sapeva se aveva sbagliato oppure no sapeva solo che non avrebbe mai più permesso una cosa del genere. Non è poi che con il passare del tempo Clara avesse trovato beneficio da questa lontananza anzi non capiva l’atteggiamento di Claudio e Elena, questo distacco reale più voluto da loro a suo di dire che da lei e suo marito. Non mancarono poi i consigli della signora Silvia rivolti alla figlia Elena, di lasciar perdere, di capire, che Livio era fatto così, che era meglio fare un passo indietro. “Sì certo un passo indietro” disse Elena “Devono farlo loro un passo indietro e farsi un esame di coscienza ma, siccome la coscienza non ce l’hanno, non lo faranno mai”. Silvia taceva non trovava poi più la forza di controbattere ma che situazione incresciosa per la famiglia. E poi telefonate, nuovi consigli per cercare il ritorno alla normalità che poi in realtà non è che prima ci fosse. Un continuo agitare lo shaker per trovare la combinazione giusta nella speranza che Elena faccesse un passo indietro. Trascorse un anno da quella sera e le cose non cambiarono. Si entra e si esce a casa di Giulio una per volta senza mai incontrarsi nello stesso momento. Virginia per un motivo, Clara per un altro, Elena per il rispetto. Una famiglia in conflitto che Giulio e soprattutto Silvia negano, negazione che ha alimentato quel fuoco che covava sotto la cenere. Una situazione che non si addice alla famiglia, anche se lentamente, ma inesorabilmente la sfiducia è entrata a far parte della perfezione sognata da Giulio e Silvia il tempo per loro è sempre più breve e non resta altro che… negare.

martedì 21 dicembre 2010

La rabbia (un racconto in cui non succede nulla)

L’ho scoperta quando sono arrivato a Palermo. Non è stata l’unica rivelazione, devo dire, ma la principale sì.
Non che le altre cose non mi interessino, ecco: in qualche modo mi hanno formato anche quelle. Ad esempio ho scoperto l’architettura: nascere e crescere in provincia, qui in Sicilia, significa conoscere il bello soltanto per sottrazione, in assenza di intervento umano. Significa presumere che le case non possano avere altre forme che una giustapposizione di parallelepipedi, accostati, sovrapposti, mescolati un po’ come si fa con i bastoncini di Shanghai. Qui, invece, in ogni palazzo si percepisce uno studio, un’idea, un pensiero che credevo inconcepibile: persino a casa mia, in questo palazzo squallido di via Corselli, nel cuore del Borgo Vecchio, gli edifici sono brutti, sì, ma non casuali. Non te ne accorgi, finché non ci vivi: vedere con gli occhi del turista Parigi, Londra o, che ne so, Budapest non ti fa scoprire l’architettura. La consideri un elemento dovuto, un benefit compreso nel costo del biglietto. Nient’altro che fumo negli occhi.
La seconda scoperta è legata alla prima. In centro, in via Libertà, ho capito che quello che chiamano il Sacco di Palermo, in fondo, è pura sopravvalutazione: il vero Sacco è stato fatto altrove, lontano dal capoluogo, dove il calcestruzzo indisturbato ha cancellato tutta una costa, l’ha stuprata e posseduta, l’ha espugnata senza soffermarsi troppo. La sensazione, per chi arriva dopo avere scoperto un ideale di bellezza, è che quei blocchi di cemento siano piovuti dal cielo, effetto del più pericoloso calo di pressione che il mondo ricordi. Ma, insomma, voglio farla breve. L’elenco è senza fine: potrei parlarvi dell’aggressività o, se volete, dell’improvvisa consapevolezza che l’accoglienza dei meridionali è niente più che un luogo comune senza basi, oppure del falso mito della pericolosità di Palermo, dove in realtà nessun quartiere è meno che sicuro se ci vivi. Persino qui, al Borgo Vecchio: niente scippi, niente rapine, niente borseggi come lo si dipinge. Anche allo Zen, credo, se ci vivi e non ti fai nemici non devi avere paura.
Però, ecco, la scoperta più interessante è stata la rabbia. L’apatia: nel mio mondo iperprotetto non la notavo. Non mi era concessa.
E dire che ero venuto qui, un anno fa, con tutte le migliori intenzioni. Con l’idea di raggiungere la felicità. Ero cresciuto sognandoli, questi anni: sognando l’indipendenza, una vita da studente, una casa per conto mio. Mi ero illuso: avevo letto e visto troppo, sulla vita da universitario. Su quelle vite intense, alla Andrea Pazienza, piene di ritmo e avvenimenti improbabili. Di cattive compagnie, di stuzzicanti novità, di negazione della noia. Oppure i film: non so se abbiate mai visto “E morì con un felafel in mano”, ma ecco, la mia idea era quella, un’esistenza densa, magari insoddisfatta, ma ricca. Traslochi, amori, sesso anche disperato.
E invece no. Se uno sceneggiatore, se uno scrittore narrasse la mia storia, il suo sarebbe un racconto in cui non succede nulla. Non studio, non lavoro. Come in una canzone: non guardo la tv, perché non ce l’ho. Resto qui, vago, lascio che le dispense che pure ho acquistato prendano polvere. Già, studiare: per fare cosa, poi? Per aprirmi la strada a un futuro da precario: senza un lavoro, senza un futuro, senza un obiettivo. Senza soldi, come oggi, ma anche senza tempo. Sfruttato, malpagato, magari commesso in un negozio oppure con uno di quei lavori strani, coi nomi in inglese e nessuna competenza richiesta se non la dimestichezza con le fotocopiatrici. L’alternativa è questa: affrontare la vita e aspettare che sia sera, che passi un altro giorno, che arrivi quello giusto. Aspettare che un tizio strafatto di eroina mi muoia sul divano di casa, ecco tutto. Un diversivo, il clinamen che spezza l’abitudine, fossero anche dei parallelepipedi di cemento che piovono dal cielo. Le grida dei passanti, il sangue per le strade, un’inutile ecatombe.
Eccola, la rabbia: l’idea che il mondo che ci hanno promesso da piccoli, dalle televisioni, altro non è che un universo inesistente. Che il dolce che ci hanno fatto assaggiare era solo l’anticamera dell’amaro, la premessa al fallimento. Giovanni, il mio coinquilino, sostiene che questa sia la bugia del secolo: siamo stati allevati al di sopra delle nostre possibilità, progettati per consumare senza potercelo permettere, e adesso che siamo qui, appunto senza soldi, la crisi di astinenza ci uccide. La scacciamo, in qualche modo: la pallina da tennis rimbalza contro un muro, sfiora un mobile orribile, rimbalza nelle mie mani. La lancio anch’io, alla rovescia, e Giovanni l’afferra. Aspettiamo.
Ma non succede niente, dicevo. Niente che sia degno di nota, niente che valga la pena di raccontare. Il picco dell’ultimo mese l’ho raggiunto oggi: passeggiavo, come al solito, o meglio mi trascinavo dalle parti del Politeama. Senza un obiettivo, o forse per dare un motivo all’ennesima lezione saltata: una giornata come le altre. In via Principe di Belmonte sono passato accanto a uno di quei locali carissimi, uno di quelli in cui non puoi permetterti di mettere piede se non vuoi finire i soldi, se non vuoi esporti alle proteste dei tuoi genitori e all’ennesima ramanzina di tuo padre sul tema “hai dato una sola materia in un anno” e “i soldi non crescono sotto gli alberi”. Lì è arrivata la folgorazione: c’era un pianoforte a coda, uno di quelli neri, quasi di cioccolato, e un pianista, in smoking, suonava la polacca in la bemolle maggiore di Chopin. Musica celestiale, il bello che si concretizza. Un istante piccolo, eppure meraviglioso. Un momento di insperato ottimismo.
Ero rinfrancato. Convinto che in fondo il mondo può anche essere bello, o almeno digeribile. Avevo raggiunto l’obiettivo: sono tornato a casa e lì, sulle scale, mi sono quasi messo a correre. Quando ho aperto la porta, però, ho capito che era solo un’illusione: ho capito che la realtà, la realtà della mia generazione, più del pianoforte erano quei muri sbrecciati, una pila di piatti da lavare, Enzo addormentato sul divano. Giovanni, nella sua stanza, le spalle fisse contro un muro a guardare quello di fronte a lui. Una pallina da tennis, in basso, vicino alla porta.
L’ho capito mentre la pallina andava sul letto di Giovanni e si rifiutava persino di rimbalzare: quel pianoforte, persino quel pianoforte, è il paradigma della mia generazione. L’idea che tutto ciò che è bello, tutto ciò che ci piace, ha l’unico difetto di costare. E che una sola cosa ci è negata: i soldi.
Allora resto qui. Da solo, con la mia rabbia. La vezzeggio, la coltivo. La celebro, quasi.
Un giorno esploderà. Forse in malattia. Forse in creatività. Forse in violenza.
Ma almeno sarà una svolta.

lunedì 20 dicembre 2010

Must have/Must be

- Buonasera e benvenuti a Must have/Must be, la religione delle fashion victims. Siete pronti?
La stanza era buia, come era stato indicato nella puntata del 12 febbraio. Il televisore Lectron 40 pollici, must del 19 giugno, proiettava un cono di luce che inquadrava un tavolo di vetro Marussi, must del 7 marzo, una lampada blu cielo Bozzini, must del 9 aprile, e in fondo Enrica. Era lì, perfettamente al centro di quell’occhio di bue catodico, pronta ad assorbire le regole del momento. La televisione ordinava, passava in rassegna, esaltava.
- Ecco la nostra ospite di oggi: Federica. Benvenuta.
- Grazie, Monica. È un sogno essere qui.
Sullo schermo apparve una ragazza: camiciola stretta di Gucci, must dell’8 novembre, jeans strappati Novelli, must del 3 gennaio, e naturalmente il must di ieri, quel cappellino nero Prada. Era una meraviglia.
- Federica l’ha comprato ieri alle 17,05. Cinque minuti dopo la fine della trasmissione: è bellissimo, non è vero?
Seguiva l’intervista. La ragazza, Federica, non diceva niente di particolare, ma in fondo cosa importava? Era stata scelta soltanto perché aveva avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
- Il negozio Prada di via Pordenone, qui a Roma. Te l’aspettavi?
- Beh, in qualche modo lo speravo. Quando sono entrata la Ferrari di Must have/Must be non era ancora arrivata. Ma all’uscita, beh, all’uscita era lì.
- E allora che cosa aspettate? Anche voi potete essere come Federica: basta avere la fortuna di entrare nel negozio giusto al momento giusto.
Il momento, eccolo. Enrica si alzò in piedi: era vestita di tutto punto, compreso il loden dell’11 dicembre. Faceva freddo, fuori.
- Il must di oggi è....
Quanto la faceva lunga: da quando avevano sperimentato le attese, i silenzi, i vuoti, in televisione tutto era diventato come i quiz. Avevano imparato che se prometti al pubblico una rivelazione quello si incolla allo schermo, in attesa, pronto a succhiare quel che verrà.
- ...la borsa “Mantra” di Fendi.

- Fanno 897 euro e novanta, prego.
L’aveva vista ieri: aveva imparato a prevedere le mode. Ma no, ieri non costava così tanto: ieri non costava più della metà. Ma non avrebbe avuto senso comprare quella borsa il giorno prima: e se poi non fosse stata scelta? Cosa se ne faceva di una borsa da 400 euro se poi non poteva utilizzarla? Enrica non poté fermarsi a lungo a pensare: alle sue spalle una decina di ragazze aspettavano il loro turno, la possibilità di pagare i loro 897 euro e novanta e lavarsi così l’anima. Pagò in contanti, must del 2 ottobre: consegnò 900 euro a quella sciattona della cassiera e aspettò che le fossero consegnate le cinque monete di resto. Non infilò i due euro e dieci nel portafogli: Enrica si scapicollò fuori cercando una macchia rossa lungo il marciapiedi. Osservò: una Mercedes, una Smart, tre Ford. Una Fiat Jeden sputacchiò gas: dannate auto polacche. Ma no, nessuna Ferrari.
Niente. Neanche oggi. Enrica era stremata: seguiva Must da un anno abbondante, aveva speso ogni singolo spicciolo guadagnato per essere ospite della trasmissione, ma neanche oggi era riuscita a farsi notare. Doveva tornare al suo nulla: una famiglia qualunque, un ordinario lavoro da impiegata, una normale finanziaria pronta a mandarle banali rate ogni scontatissimo mese. Prese il portafogli, lo aprì e ripose con calma i due euro e dieci. Lì, accanto alla foto. Quella foto: lei, bambina, vestita malissimo. Quanti ricordi.

La vecchia casa di via Palestro, poca luce. Puzza di sudore. Sua madre, sul letto, a pochi giorni dalla morte. Un foglio sul comodino: analisi del sangue. Analisi inutili: il tumore procedeva, si espandeva senza sosta nel corpo della madre.
- Quando morirò, Enrica...
- No, mamma. Non dire queste cose.
Non aveva mai imparato a mentire. A mentire a sua madre. Glielo lesse sul volto: una piega, un mezzo sorriso. Sapeva.
- Apri il terzo cassetto, tesoro.
Un cassetto disordinato. Pillole, un libro, una scatola di fiammiferi. Una fotografia.
- Prendi la foto. Quando morirò ti servirà a ricordarti di te.
- Di me?
- Sì, Enrica. Tu sei quella lì: una bambina.
- Sono cresciuta, mamma.
- Prendila come una bussola. Un punto di riferimento.
Insomma, l’aveva presa. L’aveva conservata nel portafogli. Ovviamente non le credeva: quel tumore lì aveva attaccato il cervello. Lei era quella: non era cambiata. Certo, era vestita meglio. Ma no, non era cambiata.

- Buonasera e benvenuti a Must have/Must be, la religione delle fashion victims. Siete pronti?
La scena era identica: Monica presentava una tizia vestita secondo le regole, la intervistava, dettava il nuovo must.
- ...andare in giardino, in balcone o in terrazzo e bruciare tutto il contenuto della vostra borsa.

Vista dall’alto, la città sembrava un presepe. Questa volta, però, la conclusione era opposta: un’epifania rovesciata.
Una Ferrari si fermò sotto casa.

venerdì 17 dicembre 2010

Bianco

Chiudiamo questa settimana con un altro racconto di Leucò. Buona lettura.

- Ma come è bella. Chi è, la tua fidanzata? - ironizzò Eudemo arrivando all'improvviso.

Bruno fece finta di non sentirlo. Quel giorno non era proprio di buon umore e in quei casi l'unica cosa che riusciva a tirarlo su di morale era stare in riva al mare a contemplare un'immagine.
Eppure Eudemo era suo amico, per essere sinceri l'unico, ma non riusciva neanche lui a rallegrarlo in quelle giornate.
Benché fosse un capriolo, Eudemo era di indole molto coraggiosa e aveva proprio un bel caratterino. Il confrontarsi con un orso della stazza di Bruno non lo impauriva affatto e col tempo diventò suo amico. Di lui Bruno apprezzava il fatto che non nutrisse paure nei suoi confronti, dote molto rara in chi lo incontrava.

L'orso rimirava l'immagine mille volte al giorno senza mai stancarsi. Quasi si sarebbe potuto dire che si stesse consumando gli occhi nell'intento tanto pazzo quanto romantico di ammirarla.
Certo, chi l'avesse vista avrebbe di sicuro compreso il perché.
Era davvero una creatura celestiale.
La tunica le modellava il corpo lasciandone trasparire le sembianze divine: il seno piccolo e sodo che si ergeva sul petto, l'ombelico che traspariva da sotto la veste, le pieghe dell'abito che si increspavano sui fianchi e che poi, formando delle grandi balze, nascondevano quasi del tutto le gambe, le grandi ali che spuntavano dalla schiena. Il petto che protendeva in avanti come la gamba destra, mentre quella sinistra rimaneva indietro, le ali, alte, in atto di volare, così come tutto il resto del corpo. Chi non ne sarebbe rimasto incantato?

Stava seduto lì, sulla spiaggia del mare di Hora, con in mano quel grande libro. Un libro: nient'altro. Ma quel disegno, quella pagina gli bastava.
Cosa pensasse non lo posso dire con certezza, anche perché la storia d'amore tra una divinità e un orso non è delle più semplici. Forse immaginava di incontrarla e semplicemente adorarla.
E sospirava.

- Adesso è ora di alzarti, non l'hai guardata abbastanza? Bruno, è un disegno… non esiste davvero... vieni con me, facciamoci un giro, chissà quanto miele c'è che ti aspetta, andiamo a cercarlo…
- Non adesso, tra un po'… - grugnì Bruno - lasciami ancora un istante…
- Va bene, ma poi non lamentarti con me se noti il pelo poco lucido o ti vedi dimagrito… se non mangi bene non puoi neanche lamentarti… - sentenziò il capriolo.
- …
- Vabbeh, a dopo allora... - e se ne andò.

La vita di Bruno non era proprio quel che si può definire semplice: i genitori lo avevano abbandonato in mare appena nato perché era tutto bianco ma, non si sa come, era approdato su un'isoletta poco distante.
Quando nacque, lo strano colore del piccolo colpì molto l'intera comunità, che lo interpretò come il frutto di un malocchio. Una maledizione dei rivali, gli orsi bianchi, che volevano dimostrare la loro propria superiorità e i formidabili poteri magici di cui erano dotati.

Dovete sapere che gli orsi bianchi e gli orsi bruni erano da sempre nemici. Erano divisi da consuetudini ancestrali contrapposte: gli uni erano carnivori e sanguinari, gli altri erano onnivori ma prevalentemente vegetariani, particolarmente ghiotti di radici e fungi e si cibavano di pesci solo in caso di necessità. Che da un orso bruno ne nascesse uno bianco, quindi, era un sacrilegio, una cosa che la comunità non poteva proprio accettare.
Non tutto andava contro Bruno, in realtà. Una leggenda, un'antica leggenda, raccontava di un antenato, un caso unico da generazioni e generazioni, nato bianco da genitori bruni. Nato bianco e coraggiosissimo: tanto da aver salvato, da solo, l'intera comunità da una terribile carestia. Ciononostante, gli orsi avevano interpretato la nascita di Bruno come un presagio infausto: per questo i suoi genitori erano stati costretti a sbarazzarsene. Adesso il poverino viveva tutto solo, lontano dai suoi simili. Certo, aveva la compagnia di Eudemo, ma ciò non bastava per farlo sentire soddisfatto. Fortunatamente, un giorno, per caso aveva trovato quel libro e da allora la sua vita era stata un po' più piacevole.

Seduto sulla riva a contemplare l'immagine, ogni tanto alzava gli occhi verso l'orizzonte e guardava il mare. D'un tratto vide in mezzo alle onde qualcosa di bianco che spuntava tra le onde. Si strofinò gli occhi: forse aveva visto male? Guardò nuovamente: a pelo d'acqua sembrava emergere qualcosa, ma non riusciva a capire cosa. Lasciò il libro sulla sabbia e si avvicinò all'acqua. Sembrava marmo.

- Marmo? - disse tra sé. Senza pensare, corse e si tuffò per cercare di portare a riva qualunque cosa vi fosse in acqua.

L'oggetto era pesante. Non lo identificò subito, ma appena i suoi occhi percepirono un'ala capì immediatamente di cosa si trattasse. Con tutte le sue forze, e con molta attenzione, lo trascinò a riva, badando bene di non danneggiarlo.
Dopo averlo portato in salvo sulla terra ferma si inginocchiò dinanzi al suo cospetto: era una statua raffigurante l'immagine che tanto amava. Di marmo e alta più di due metri. Restò in quella posizione per un tempo indefinito. Poi, all'improvviso, la statua prese vita e si rivolse all'orso:

- Bruno, sono venuta per aiutarti e esaudire le tue preghiere. Tieni questa pozione: servirà per riportare la prosperità nella tua terra natale. Devi sapere infatti che in quei luoghi, adesso, vi è una grande carestia e la tribù da cui provieni patisce grandi sofferenze. Usa questo: potrai riportare il benessere e loro ti accetteranno, ti considereranno loro salvatore.

Proferite queste parole la divinità porse all'orso un grande otre pieno del liquido misterioso. L'orso la guardò con rispetto e poi disse:

- Vi ringrazio celestiale creatura. Ma come posso arrivare alla terra che mi ha dato i natali? Non so dove sia.

La dea sorrise e indicò il mare: tra le onde fece capolino una tartaruga gigantesca che alzò una pinna in segno di saluto.

- Ti ci porterà Caretta - disse la dea - non te la ricordi? Eppure è lei che ti ha portato in questo luogo appena nato. I tuoi genitori ti affidarono al mare e lei ti raccolse.

L'orso guardò la grande tartaruga sforzandosi invano di riconoscerla. Poi si inchinò nuovamente ai piedi della dea con gli occhi pieni di lacrime di gioia e la ringraziò. Tuttavia gli rimaneva ancora sul volto un velo di tristezza.

- Non preoccuparti di Eudemo - disse senza bisogno di spiegazioni la divinità - potrai rivederlo tutte le volte che vorrai, Caretta ti ci porterà volentieri, ti considera come un figlio, in tutti questi anni ti ha sempre osservato dall'acqua assicurandosi che stessi bene. Anche quando sei venuto a raccogliere la mia statua in mare lei era qui vicino per intervenire in tuo soccorso qualora ne avessi avuto bisogno.

Una sensazione di estremo calore avvolse il cuore dell'orso. Non pensava di essere tanto amato: in tutti questi anni si era sentito molto solo. E invece c'era qualcuno che, da lontano, vegliava su di lui.

La meravigliosa creatura scomparve e l'orso andò a sedersi sulla schiena della maestosa tartaruga per compiere la missione che la dea gli aveva affidato e ricongiungersi con la tribù che lo aveva scacciato.

giovedì 16 dicembre 2010

Cronache di una invasione intestina


La vita era sempre trascorsa tranquilla nella nostra grande città dello stato di S. La nostra è una città industriale, di gente seria e lavoratrice. Tutto ruota intorno alla grande fabbrica che dà lavoro alla maggior parte degli abitanti, e si occupa di smaltire i rifiuti del sistema di approvvigionamento del cibo dell’intero stato, dopo averne estratto più acqua possibile e le ultime merci utili rimaste. I rifiuti vengono poi inviati a quella che tutti chiamiamo la Grande Discarica, situata alla periferia sud della città, da dove vengono eliminati. Quello dei nostri operai è un lavoro duro, come si può capire. Chi non fa l’operaio, si occupa di produrre i loro abiti da lavoro, fatti di un materiale che li difenda dalle sostanze nocive a cui sono esposti in fabbrica. Tutto ruota su di essa, dicevo. D’altra parte, è una fabbrica modello. Disoccupati non ce ne sono in città, questo è palese. Però la vita media degli operai è tra le più basse dell’intero stato. E quando muoiono non stiamo a fare tante cerimonie, finiscono nel canale principale della fabbrica e vengono smaltiti anche loro, con un saluto e la frase rituale:
- Vai ner culo, vai!
Non c’è acrimonia né scherno in questo, chi la pronuncia sa bene che questo sarà il suo medesimo destino.
Io lavoro nell’amministrazione. Io e i miei colleghi siamo dei privilegiati, inutile negarlo. La nostra vita è lunghissima, la mia dura praticamente da quando esiste lo stato di S., ed è molto più gradevole. Gli operai sono tutti figli nostri, per capirsi, è fra i nostri compiti mantenere costante la popolazione della città per mandare avanti la fabbrica.
- Ehi, laggiù, settore stamin(chi)ale! Tutto regolare?
Chi ha parlato fa parte delle “forze dell’ordine” come le chiamiamo noi. Loro si infastidiscono perché le vere forze dell’ordine sono quelle statali che perlustrano tutte le strade dello stato; queste altre vivono alla periferia della città e sono più che altro “recettori” che rendicontano l’amministrazione centrale dello stato di S. sulla situazione in città. Ci chiamano così e ci siamo abituati, d’altra parte qua ci si annoia un po’ a volte, ci vuole qualche diversivo.
Un giorno successe qualcosa nel settore di uno dei miei colleghi stamin(chi)ali ad alcuni isolati di distanza dal mio, dopo la grande curvatura sinistra. Lui a vederlo sembrava sempre lo stesso, ma i suoi figli non andavano più a lavorare in fabbrica e cominciarono a costruirsi un quartiere per conto loro.
Abusivo, manco a dirlo.
Noi eravamo sbigottiti. Che diavolo stava succedendo?
Nuove strade sorsero nel nuovo quartiere, di quelle che servivano per portare i viveri in città e ritirarne gli scarti. Ci misero un bel muro intorno, che cresceva al crescere del quartiere. E via via che cresceva, cominciò a invadere prima le zone periferiche della città, coi loro campi e le rare case di contadini e più in là il sistema che faceva progredire il materiale che arrivava alla fabbrica, e poi cominciò addirittura a ridurre il calibro del canale centrale, ostacolando quindi il lavoro. La crescita arrivò al punto che buttarono giù il muro che era diventato un ostacolo, ci mettevano troppo a ricostruirlo ogni volta. Vedemmo così che il quartiere cresceva in modo completamente diverso dal resto della città, non c’era più l’ordine che vi regnava all’inizio, e gli abitanti non erano più tutti uguali fra loro, sembrava una piccola società multietnica con al centro il nucleo originale dei figli del mio collega, e via via gruppi più degenerati in periferia. E fu con immenso stupore che osservai i primi irriconoscibili individui staccarsi dal quartiere e infilarsi nelle strade di uscita dalla città, che portavano ad altre città dello stato di S. Anche nelle stradine periferiche, da dove venivano portate via la spazzatura e le acque reflue. Prima singoli, poi a gruppetti. Uno lo vidi passare da una strada vicino a me: che sguardo lascivo! Che aspetto poco raccomandabile! Mi strizzò l’occhio, e filò via veloce.
Fu a quel tempo che quegli strani fenomeni colpirono la città. Forse i continui avvertimenti che le mie amiche “forze dell’ordine” mandavano di continuo all’amministrazione centrale di S. cominciavano a essere ascoltati. Si iniziò con i terremoti. Si proseguì con quelle strane onde elettromagnetiche, di luce non visibile ma che gli abitanti di questa e di altre città avvertono benissimo e tollerano a fatica. Fu poi la volta di quell’ondata di acqua in direzione inversa al solito… non si era mai visto un flusso provenire dalla grande discarica! La città si contrasse in un'immensa onda peristaltica, che rimandò in avanti quella massa d’acqua che trascinò con sé tutto il contenuto del canale. E a seguire arrivò il mostro: un immenso tubo con un enorme occhio in cima, che si fece largo nel canale, osservò a lungo la parte del nuovo quartiere che vi protrudeva e poi si spinse avanti, verso la mia zona e oltre, prima di ritrarsi da dove era venuto.
Coi miei colleghi stamin(chi)ali ci guardavamo straniti, per la prima volta ci sfuggiva il controllo della situazione in città. Ma il peggio doveva ancora venire.
Poco tempo dopo avvenne la grande demolizione, come la chiamammo da allora. In poche ore, il nuovo quartiere sparì com’era comparso, e con esso interi altri isolati della città, da una parte e dall’altra rispetto ad esso. Ci fu chi giurava d’aver visto comparire enormi strumenti muniti di lame affilate, giunti chissà da dove, tagliare letteralmente via il nuovo quartiere illuminati da qualcosa di simile al mostro, e addirittura un’enorme spillatrice unire insieme i monconi di città rimanenti, ma io sospetto che la tensione degli ultimi tempi abbia giocato brutti scherzi a questi testimoni oculari. Una spiegazione razionale ci sarà.
Per un po’ la fabbrica rimase ferma, dopo la grande demolizione. Non arrivava più materiale da trattare. Lentamente poi l’attività riprese, a ritmi ridotti, e noi tutti tirammo un sospiro di sollievo. Ci sembrava di uscire da un incubo, anche se avevamo perso interi isolati, spariti chissà come. Ma erano spariti anche gli abusivi, e questo ci rimetteva al mondo.
L’entusiasmo durò poco.
La fabbrica era in funzione, ma il cibo che ci arrivava dalle nostre strade era scarso, e di pessima qualità. Ma questo non rende l’idea, era come mischiato con della roba mai sentita, non era qualcosa che avreste offerto al vostro peggior nemico, ecco. Gli operai cominciarono a sentirsi male uno dopo l’altro, e noi eravamo troppo spossati per riuscire a rimpiazzarli a dovere. La fabbrica iniziò a mal funzionare, praticamente tutto finiva nella grande discarica.
I miei colleghi stamin(chi)ali cominciarono a morirmi intorno come mosche, e io che credevo fossimo immortali. E anch’io non mi sentivo per niente bene, beninteso.
Piano piano il cibo tornò normale, senza quel veleno, anche se era scarsissimo. Fu la roba che arrivava nel canale della fabbrica che cambiò drasticamente. Era non trattata, come se nelle città a monte della nostra stessero cessando le attività…
Non so più quanto tempo stia passando, ne ho perso la cognizione. Mentre guardo la desolazione che ha avvolto la mia città, ripenso agli abusivi che evadono, e a quel languido sguardo colto nel momento della fuga. E mi domando… chissà se sono riusciti a raggiungere altre città.
Chissà se c’entrano qualcosa in questo disastro.
Chissà…

Il signor S. aveva contratto un tumore del colon discendente. Fu operato di emicolectomia sinistra, e sottoposto a chemioterapia. Ma molti abusivi erano già in viaggio, e il male si ripresentò nel fegato e in un polmone. È morto nel suo letto, assistito dalle Cure Palliative domiciliari e dalla famiglia.




ps di Silas per chi se lo fosse perso ieri, visto che è stato aggiunto in un secondo momento:  se vi va di leggere un racconto mio gli amici di (A) Prova di Crash (ricordate il_cesco?) ne ospitano uno.

mercoledì 15 dicembre 2010

La consulenza stracciata

Ok, la saga familiare di errebi la conoscete già. Quarta puntata (qui la prima, qui la seconda, qui la terza).

Da un po’ di tempo a casa di Giulio i rapporti tra i componenti la famiglia non sono tutto zucchero e miele. Virginia ha sicuramente qualcosa che le bolle in pentola e sta aspettando il momento giusto per scoperchiare il coperchio. Il primo allarme al compleanno di Giulio. Era consuetudine l’appuntamento di tutto il nucleo famigliare alla sera dopo pranzo invece questa volta chi è andato prima chi dopo. Virginia con il marito, la figlia e il genero la sera, Clara al mattino ed Elena nel pomeriggio. Cosa mai starà succedendo? Silvia non se ne era poi preoccupata più di tanto. Succede i ragazzi hanno molti impegni, a volte si desidera stare tranquillamente in casa propria dopo una giornata di lavoro stressante. Giulio non è mai stato troppo espansivo e forse per lui questa ricorrenza era solo una rottura di scatole perciò mattino, pomeriggio o sera faceva lo stesso. Non si capiva però cosa ci fosse di così scottante per non celebrare l’evento come sempre. Qualcosa era scattato al mattino quando Virginia telefonò a Clara. “Ciao Clara sono Virginia oggi è il compleanno del ‘nonno’ hai già pensato cosa fargli?”. “Oh Virginia guarda sono talmente impegnata, tra le faccende di casa e lo studio di Michele, che mi era passato di mente”. Per le faccende di casa è risaputo che Clara ha la colf e per lo studio di suo marito non si sa cosa abbia da fare. “Cosa hai intenzione di fare? Hai sentito Elena?”. “No non ho sentito Elena e poi anch’io con i figli, il marito, il lavoro, mi è venuto alla mente solo ora. A proposito stasera sono impegnata non posso esserci”. “Ma come così all’improvviso, Virginia, dai non siamo mancati mai come ci resteranno mamma e papà?”. “Lo so Clara ma proprio non posso e comunque non perdiamoci in chiacchiere, hai intenzione di fare qualcosa insieme oppure mi arrangio da sola”. “Mamma mia Virginia sei un po’ suscettibile oggi, hai qualcosa che ti gira storto lasciamo perdere ognuno si arrangia e fa da sola”. Si è accesa la miccia. Come sempre Elena è all’oscuro di tutto. Quando verrà a sapere qualcosa sarà gia tutto fatto e non avrà nessuna possibilità di replica. Tutto scoppia nel pomeriggio quando Clara, in studio del marito, in un momento di pausa parla con lui. “Clara, ieri è venuta qui in studio tua sorella Virginia. Sai per quello studio di fattibilità sul loro passo carraio. Beh in poche parole ha incaricato dell’esecuzione progetto un altro studio. È inconcepibile, non capisco, che mancanza di rispetto ma con chi crede di aver a che fare. Perché siamo parenti crede di potersi prendere certe libertà?”. Clara appresa la notizia è come sobbalzata dalla sedia. “Mia sorella si permette questo? Ma adesso la chiamo io e gliene dico quattro”. “Lascia stare Clara cerchiamo di essere superiori”. Clara esce dall’ufficio del marito prende il cellulare e chiama immediatamente Elena: “La sai l’ultima di tua sorella Virginia”. “Ultima, di che cosa, cosa è successo?”. “Intanto questa sera non viene al compleanno del papà e poi…”. “Beh se è per questo non ci andiamo neanche Claudio ed io qual è il problema?”. “Ha scaricato Michele. Ha incaricato di redigere il progetto del passo carraio un altro studio senza nessuna giustificazione”. Elena rimane un po’ in silenzio poi pensandoci su non vede quale grosso problema possa essere avvenuto. Fino a prova contraria siamo in democrazia pensa e ognuno è libero di andare e fare ciò che vuole. “Ma per così poco Clara ne fai una tragedia”. “Ma proprio non capisci con te è proprio inutile parlare. È un'offesa, ci sta trattando come degli estranei non può permettersi di comportarsi in quel modo”. La telefonata continua ancora per un po’ con Clara blaterante dall’altra parte del filo poi Elena con una scusa taglia corto e chiude lasciando Clara senza la possibilità di replica. Lo studio sul passo carraio? Elena cerca inutilmente di ricordare ma di questa faccenda non ne ha mai sentito parlare. Non riesce a ricordarsene neanche sforzandosi. Era da un pezzo comunque che Claudio le aveva detto che c’era qualcosa di strano in Virginia. Era come avesse una sorta di repulsione ogni qual volta ci si trovava. Non capiva bene cos’era ma l’ultima rivelazione non lo prese d’improvviso. “Ecco allora cosa stavo bollendo in pentola. Vuoi vedere che Michele ha presentato il conto a Virginia e Fabrizio e questi non se lo aspettavano?”. “Il conto che problema c’è, rispose Elena, ovvio Livio non lavora mica gratis”. “Ma Elena mi sorprendi non mi vuoi mica far credere che non conosci a fondo Fabrizio e Virginia. Pensi che si siano rivolti a Livio perché lo considerino un bravo ingegnere. Ma non farmi ridere per piacere, sono andati da lui perché, essendo un parente erano convinti che non gli sarebbe costato niente”. Certo Fabrizio era una brava persona niente da dire ma, non toccarlo nel portafoglio. Adesso poi che è in pensione fa fatica ancor più di prima a tirarlo fuori. Come quella volta con Claudio e Elena. I due stavano ormai per sposarsi e dovevano impegnarsi nel sottoscrivere un lungo mutuo per il pagamento dell’appartamento acquistato in cooperativa. Certo c’erano tutte le agevolazioni per le giovani coppie, l’appartamento acquistato in cooperativa, le agevolazioni sui tassi di interesse sul mutuo ma, i soldi ci dovevano essere comunque. Giulio quella volta, chissà forse non nel pieno delle sue facoltà, aveva proposto a Elena il prestito di una certa cifra in modo tale da poter attivare un mutuo meno lungo e con una rata più bassa. Claudio non ci credeva ma visto che tutto era vero si era convinto all’idea. Poi, d’improvviso, il fulmine Fabrizio. Sempre sull’orlo di perdere il lavoro, non si sa come visto che era proprietario di una lavanderia industriale, si presenta un giorno a casa di Giulio disperato. Il lavoro, la crisi, sua figlia Virginia, i suoi due nipoti, insomma i soldi che dovevano essere di Claudio ed Elena andarono a Fabrizio. Il signor Giulio, poi, tagliò corto le spiegazioni ai due, Fabrizio aveva più bisogno di loro tanto il mutuo c’era per qualsiasi importo, più lungo e più alto ma che importanza aveva i soldi c’erano. E dall’altra parte? È sempre rimasto un segreto quel mutuo di Fabrizio imprenditore, anche lui impegnato nell’acquisto di una casa, ma con lo stesso identico mutuo agevolato di Claudio e Elena. Guadagnava come loro? Guadagnava meno di loro?”. “Te lo ricordi vero Elena. Non abbiamo preso da tuo padre un becco di un quattrino e poi alla fine, beh lasciamo perdere perché altrimenti...”. E così si era arrivati al dunque. Virginia e Fabrizio aprivano le porte alla guerra. Clara aveva avvisato tutti i suoi ‘amici per bene’ naturalmente la crema dell’alta società del paese ricevendone solidarietà e comprensione. Claudio avrebbe voluto esserci quel giorno, nascosto in un angolino nello studio di Livio e sentire Virginia che le comunicava la sua decisione. L’ingegnere conoscendolo era rimasto certamente impassibile con il preventivo tra le mani facendo buon viso a cattiva sorte. Già pensava come dirlo a Clara. A dirlo in maniera tale che tutta la colpa ricadesse su Virginia e che Clara e la figlia si unissero con lui al suo dolore di parente affranto. Rimaneva solo un dubbio. Era stato Livio a presentare il conto alla cognata senza che nessuno lo sapesse o, invece, era una azione studiata e voluta da lui e Clara insieme? Per Claudio era sicuramente più probabile la prima. Conoscendo Livio non si sarebbe certamente stupito della sua decisione. Livio non era abituato ad informare di tutto quello che faceva la moglie e quindi il conto era sicuramente opera sua. Sicuro poi del fatto che Clara non avrebbe mosso bocca è andato avanti come un carro armato già sapendo di avere comunque la moglie dalla sua parte. Di Livio, per Clara, non si poteva assolutamente parlar male. Non era permesso mettere in discussione l’ingegnere. “Livio non si tocca” diceva sempre. Al pensiero di separarsi ci aveva pensato molto tempo addietro ma poi, certamente la paura fa novanta e per Clara, che già aveva con eleganza, accettato un tradimento coniugale il rimanere sola e senza la vita sociale a cui era abituata sarebbe stata una tragedia. “Sto vivendo il momento migliore della mia vita. Ho un marito che meglio di così non potrei avere, una figlia che mi da un sacco di soddisfazioni, cosa potrei desiderare di più” aveva detto Clara ad una festa in occasione del compleanno della figlia mentre la famiglia sapeva del tradimento. Ma non c’era proprio di che stupirsi anzi sarebbe stato strano il contrario. Eppure come non porsi delle domande per quel mancato incontro. Giulio e Silvia le domande non erano abituate a farsele anzi, non servivano. Erano talmente convinti della perfezione della loro famiglia che non facevano parte della loro mentalità. Facevano al loro caso quando dovevano parlare degli altri, gli estranei. Quelli che, a loro modo di vedere, erano giustificati nel criticare e che venivano commiserati dei loro errori. Gli errori nella famiglia non c’erano. Ma lentamente la famiglia perfetta che Giulio e Silvia credevano di aver creato si stava distruggendo. Cominciavano le prime crepe senza per questo intaccare la realtà irrealtà di Giulio e Silvia. Come in una campana di vetro continuavano nel giustificare sempre e comunque le loro debolezze, stretti alle loro tre figlie. Una foto perfetta in un giorno perfetto, di quelle che si tengono esposte in soggiorno in bella cornice; loro cinque con gli abiti da festa, in una mattinata piena di sole. Ma a guardarla bene già incominciava ad esserci un ombra in quel idilliaco ritratto di famiglia. Una presenza fra loro, ignari di tutto. Una presenza estranea, proprio quella criticata dalla famiglia. Entrata come uno spettro ha iniziato a guastare tutto. Solo un’immagine di facciata, la glassa sottile e splendente di una falsa famiglia felice che stava cominciando a marcire. L’invasione era iniziata con quel studio di fattibilità gettato al vento da Virginia. Ma Virginia non sapendo aveva fatto entrare l’ombra, aprendo una porta segreta, l’ombra che non si accontenterà più di essere un ombra ma vorrà far parte della foto di famiglia, prendere il posto che le compete lasciando Giulio e Silvia nel loro irreale guscio di protezione.

ps Se vi va di leggere un racconto mio, invece, gli amici di (A) Prova di Crash (ricordate il_cesco?) oggi ne ospitano uno.

martedì 14 dicembre 2010

La mia padrona di casa

Anche oggi un racconto a quattro mani. Stavolta con la partecipazione straordinaria di Leucò.

Fonte: mediapop via Mitì Vigliero
Camilla se ne stava in un angolo. L’angolo suo, quello lontano dalla ringhiera, lontano dai vasi e tutto il resto. Era una forma di paura antica, quella che la tratteneva lì: che fosse vertigine o chissà che, quella non voleva sentire ragioni. Era la massima concessione che fosse disposta a farmi: non mi negava la sua compagnia mentre fumavo in balcone per evitare che il bambino iniziasse a tossire, ma no, non mi si avvicinava. Stavamo ai due angoli, come se avessimo litigato: lei vicino alla porta e io quaggiù, lontano dalla camera del pupo, anche se oggi il bambino stava dalla madre. Ora: non ci sarebbe niente di strano, a soffrire di vertigini. A una condizione: non ci sarebbe niente di strano a meno di essere Camilla. Cioè una gatta.
Va detto però che Camilla non era una gatta qualunque. Era la mia padrona di casa. No, non in senso figurato come avrete pensato voi: non voglio dire che, come tutti i gatti, Camilla si impossessava di tutto ciò che passava attraverso l’ingresso. Anzi: la gatta, bisogna dire, sapeva anche stare al posto suo, sapeva rispettare i miei spazi e da quando era nato Alessio aveva anche imparato che la sua stanza era off limits. Era una gatta educata, niente da dire. Via via le avevo fatto imparare le regole della convivenza, e chiunque abbia avuto un gatto sa che questa è un’impresa sostanzialmente impossibile. Camilla era insofferente, per questo, ma alla lunga si era abituata. Obbediva.
Povera gatta. Non aveva idea di essere lei, in realtà, a tenermi in pugno: la zia Magda, prima di morire, aveva lasciato a Camilla la nuda proprietà di questa casa, dandone a me l’usufrutto. Una strega, quella Magda: una strega contorta. Come condizione per l’eredità, aveva deciso che io dovessi prendermi cura della gatta vita natural durante. E lo sapeva, la zietta, che io li odiavo, i gatti. Comunque: la perfida zia aveva deciso che se la gatta fosse sopravvissuta al decimo compleanno io avrei ereditato la casa alla sua morte. Altrimenti l’immobile sarebbe passato per vent’anni al gattile “Le fusa” di via Tintoretto, al quale avrei dovuto pagare per l’affitto 500 euro al mese. Oppure avrei dovuto sloggiare. È per questo che alla morte di zia Magda ribattezzai la gatta Rossana col nome della mia ex-moglie: per avere riferimenti. Femmine che pretendono di avere il controllo della mia vita: Camilla.
A questo punto avrete capito la situazione: in pratica ero costretto a tenere in vita un animale che odiavo, a portarlo dal veterinario ogni settimana e cose del genere. Per fortuna, col tempo, il veterinario si era stabilito nell’appartamento sotto il mio, al secondo piano, e questo mi semplificava notevolmente la vita: in caso di emergenze, che vista la mia ipocondria trasmessa all’ereditiera erano continue, era sufficiente percorrere un paio di rampe di scale per invocare soccorsi. Poi, è naturale, facevo di tutto per proteggerla: ad esempio, quel giorno, non volevo che stesse con me in balcone, a rischio di prendere un malanno, ma non c’è verso di imporre a un gatto la posizione. Stava lì, mi fissava, e anche se la cacciavo sbattendo il piede a terra non faceva una piega.
Poi, all’improvviso, finalmente rientrò. La vidi mettersi lì e grattarsi, grattarsi, grattarsi. Leccarsi. Era anche pulita, Camilla: stava sempre a leccarsi. La vidi a pancia in su: pelo rosso come dominante, e poi, al centro della pancia, una chiazza bianca. Fu in quel momento che notai il fattaccio: la chiazza bianca era rossa, pure quella. Rosso sangue. Era come se la gatta avesse deciso di procurarsi una ferita, come se fosse diventata autolesionista. Come se stesse cercando il suicidio. La vedevo distintamente: leccare, come per ammorbidire la pelle, e poi grattare. Io non avevo una grande esperienza in materia felina, però non mi sembrava un comportamento granché lineare: non so voi, ma io non ho mai visto un gatto leccarsi fino a procurarsi il sangue. Insomma: spalancai la porta e corsi giù, deciso a piombare nella casa-studio del veterinario. Non mi preoccupai neanche di chiudere la porta, né tanto meno di procurarmi le chiavi: avete presente un’emergenza?
Il dottore De Tomaso fu garbato. Mi accolse nel suo studio nonostante fosse domenica mattina, si fece spiegare il problema e si convinse a venir su con me. Inutile: la porta era sbarrata. Casualità, direte voi: magari il vento. Ma il vento non mette fuori dalla porta una valigia con il necessario per sopravvivere qualche giorno.
Mi aveva cacciato. C’è una maledizione, in quel nome.

lunedì 13 dicembre 2010

Come in un sogno

Oggi inauguriamo una nuova etichetta, che questa settimana tornerà a trovarci: i racconti a quattro mani. Iniziamo con la storia scritta da un'ospite che conoscete già, vaniglia, e me.

Successe tutto lentamente come in un sogno... Uno di quei sogni in cui corri più veloce che puoi, tanto che i muscoli delle gambe e delle braccia ti fanno male, ma ogni movimento sembra sempre più lento e solidificato, tanto che quel qualcosa dietro di te si avvicina paurosamente fino a che non senti lo spasmo della paura sfiorarti il collo, le spalle, la schiena e attanagliarti lo stomaco. È allora che nel girarti lentamente, immobilizzato dal terrore, ti svegli prima di poter urlare... Per cosa? Non lo si scopre mai.
Stavolta, invece, era tutto vero. Avevo percepito distintamente il suo alito caldo e umidiccio posarsi addosso a me dopo essersi fatto largo fra i passeggeri sull'autobus, avevo persino sentito la sua voce – una voce cupa e tenebrosa, simile a un ricordo che non sapevo decifrare – chiedere scusa a qualcuno.
Scusarsi: mi sembrò una nota stonata, quel “mi dispiace, l'aiuto”. Era qualcosa che strideva con la mia esperienza: non sapevo a chi appartenesse quella voce, ma lì, in quell'istante, ebbi la certezza che a parlare era una persona abituata non chiedere scusa. Ero divorata dalla curiosità, ma non ebbi il coraggio di voltarmi e controllare. La tentazione durò solo pochi secondi: la sua mano sudata si posò sulla mia spalla nuda e l'estate, già torrida, parve avvampare di nuove braci incandescenti. Prima fu solo sospetto, poi divenne certezza e sperai che l'attimo presente si cristallizzasse per darmi il tempo di divincolarmi da quella stretta appiccicosa, da quella voce ruvida che sapevo già cosa avrebbe detto da lì a poco. E infatti lo disse...
“Sedici”. I suoi occhi si fissarono nei miei: le pupille scurissime di quell'uomo raccontavano la storia di un inseguimento durato anni, una rincorsa che si perdeva nella notte dei tempi. D'improvviso tutto mi fu chiaro: un fiume carsico di ricordi mi si riversò addosso, come emergendo dalle nebbie della memoria. Un odore di muschio, una suggestione di Scozia mi rivelò ogni cosa: avevano iniziato i suoi nonni, poi suo padre aveva proseguito, infine era toccato a lui raccogliere il testimone. Solo di una cosa ero certa: dovevo fuggire. La frenata dell'autobus mi richiamò alla realtà.
Le porte si aprirono e non esitai nemmeno un istante: spintonai la ragazza che mi ostruiva l'uscita e mi misi a correre più veloce che potevo, ben decisa a non raccogliere quel testimone che il vecchio marinaio scozzese mi stava porgendo, certa di potermi sottrarre a quel destino che non mi ero scelta se solo avessi avuto abbastanza fiato nei polmoni e forza nelle gambe... Non mi voltai nemmeno una volta memore di chi in passato lo fece e corsi per non so quanto tempo finché non mi ritrovai inaspettatamente di fronte al mare.
Eppure ero sicura di essere andata a nord: mare alle spalle, sempre dritta, il più lontano possibile da tutto ciò che potesse ricondurmi a lui...
Mi voltai, schiena al mare e ricominciai a correre con la paura a farmi da propulsore nei muscoli delle gambe e gli occhi socchiusi a schivare il sudore che gocciolava copioso dalla mia fronte e si frantumava alle mie spalle in un milione di infinitesimali goccioline che non erano più mie, ma parte del tutto che mi circondava...
Man mano che correvo tutto intorno a me cambiava forma: pian piano, gli ombrelloni diventarono alberi, gli alberi palazzi, i palazzi negozi. La trasformazione non si fermò: i negozi tornarono palazzi, i palazzi alberi, gli alberi ombrelloni. Avevo corso per una decina di minuti, non avevo mai cambiato direzione, ma mi ritrovavo di nuovo sulla spiaggia. E, non so perché, ero scalza: i miei piedi, improvvisamente, affondavano nella sabbia.
Lui era lì.
Forse era sempre stato lì e aspettava soltanto che la smettessi di fuggire e mi arrendessi all'evidenza che un destino in realtà non esiste, che abbiamo sempre una scelta nella vita, ma che spesso, questa scelta, si riduce a due sole possibilità: fare la cosa giusta o rifiutarci di farla, salvo rendersi conto un bel giorno che ciò che non affrontiamo oggi ce lo ritroveremo davanti domani per una, due, tre, sedici volte... Finché non si decide che è ora di guardarla negli occhi questa nostra coscienza, anche se ha le pupille scurissime e severe di un marinaio d'oltreoceano.

venerdì 10 dicembre 2010

La risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto

Ora: io non so quanto voi siate legati alle cose, ma io ci tengo tantissimo. È più forte di me: in ogni oggetto della mia esistenza vedo una storia, un momento, una forma di felicità o di tristezza, insomma qualcosa che trasuda linfa vitale. Dettagli: la vita è fatta di dettagli, nient’altro che questo. Cose insignificanti, viste lì per lì, ma che assumono una fisionomia, una rilevanza, se solo si possiedono la pazienza e la memoria necessarie per osservare l’insieme. È questo quel che faccio: raccogliere i pezzi. Archiviarli, metterli da parte, conservarli per un momento finale. Per il giorno, spero lontano, in cui potrò guardarli tutti insieme, e in definitiva capire. Trovare la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto. Anita dice che spreco la mia memoria eccezionale per immagazzinare informazioni inutili, ma io non bado molto a quel che dice Anita.
Prendete questo martello: è il pezzo a cui tengo di più. Mi fu regalato nel 1962, quando avevo 8 anni. Il 18 agosto. Quattro giorni prima Abraxas era fuggito per la seconda volta, rovinandoci il Ferragosto, ma poi era stato trovato nel boschetto all’inizio della provinciale per Pasana, a neanche trecento metri da casa. Quando lo individuammo era ai piedi di un albero, accucciato, ad aspettare che un gatto scendesse, illuso: aveva persino smesso di abbaiare. Insomma: mio padre decise che doveva montare un cancello, si procurò qualche tavola di legno e comprò i cardini. Poi mi chiamò e mi disse che era il momento di imparare a fare l’adulto, si fece aiutare per tutta la giornata e alla fine mi regalò il martello. La prima volta che lo presi in mano mi sembrò di insostenibile pesantezza. Ridicolo: adesso potrei tenerlo con due dita.
La cesoia, invece, è più recente, e non ha tante storie, tante avventure mirabolanti e disavventure sfortunatissime da raccontare quante ne ha il martello. L’ho comprata due anni fa: 39 euro e 90 su e-Bay. Col “compralo subito”: non mi fido delle aste, ma soprattutto non ho la pazienza di stare davanti al computer per gli ultimi venti minuti solo per risparmiare quattro euro. E poi io avevo esattamente quaranta euro da spendere: avevo giocato cinque euro sul 2-0 secco di Pisa-AlbinoLeffe, nona giornata del campionato di serie B. Un’eresia: i toscani, reduci da una sconfitta perentoria ad Ascoli, erano sesti, mentre l’AlbinoLeffe, grazie a una serie micidiale di cinque vittorie consecutive, e soprattutto grazie a una striscia di undici partite senza sconfitte, aveva appena conquistato il primo posto, e sembrava deciso a difenderlo. Infatti il 2-0 era quotato a otto: un’occasione troppo ghiotta. Non vi dico la soddisfazione quando Titone ha segnato il gol del 2-0: la felicità di avere 40 euro da investire. E poi una cesoia mi serviva.
Ad esempio, oggi la tenaglia non sarebbe sufficiente. Per quanto, certo, se potessi utilizzerei quella: la comprai, anche se in quel momento non lo sapevo, proprio nel giorno in cui fu concepito Andrea. Beh, non che io possa esserne sicuro al cento per cento, ma, insomma, in quel periodo io e Giorgia non eravamo più attratti sessualmente l’uno dall’altro come all’inizio. Non posso isolare con certezza quel giorno, ecco, ma posso dire che è molto probabile che sia andata così. Insomma: ero libero, perché la scuola era chiusa per neve, e ne approfittai per rimettere in sesto il magazzino degli attrezzi. Dovevo appendere da qualche parte quella dannata sega e, insomma, mi serviva una tenaglia per fissarla a un gancio col fil di ferro. Anselmo mi fregò, secondo me: 7.500 lire per una tenaglia erano davvero tantissime, ma io ne avevo bisogno e raggiungere Terlo con quella neve era un’impresa impossibile.
Come oggi sarebbe impossibile spezzare questo coso con la tenaglia. Solo con la cesoia posso farcela: è oro, oro vero, mica ferro placcato. Ricordo perfettamente il momento in cui Giovanni e Dario vennero da me per offrirsi di comprarlo, ovviamente sia questo che quell’altro. Fui sorpreso, anzi: imbarazzato. Io non lo sapevo, non me l’aveva detto nessuno che questa cosa spettava ai testimoni. Poi tornarono, da maldestri quali erano, per chiedermi se volessimo far incidere i nostri nomi sul bordo interno oppure no. Anche per questo voglio usare la cesoia: ha le punte più affilate, può permettermi di trovare un punto vuoto, senza scritte. Mi dispiacerebbe spezzare le scritte, ma soprattutto se lo facessi Anita mi tormenterebbe. Già non la sopporto: dice che non serve, che mantenere le fedi può essere un modo per ricordare Giorgia anche adesso che è morta. Ma io non bado molto a quel che dice Anita.

giovedì 9 dicembre 2010

Le avventure intergalattiche di Mikhail Bulgakov

La verità è che non c'era un solo motivo valido, avevo pensato in un primo momento. Neanche uno, ve lo giuro: semplicemente ce l'avevano con me. O forse, più semplicemente, non avevano coraggio. Altrimenti perché rifiutare le mie tavole? Erano geniali, tutte le persone che mi stavano intorno erano d'accordo. Innovative, imprevedibili, ben tratteggiate. E poi non ce n'era uno, dico uno, che avesse il coraggio di dirmi, che ne so, che erano disegnate male, che la storia non reggeva: no, accampavano scuse di ogni tipo per non pubblicarle. E a quel punto l'avevo capito: la mia geniale striscia a fumetti non avrebbe mai visto la luce. Le case editrici di mezza Italia le avevano rifiutate con una scusa.
Non capivo perché “Le avventure intergalattiche di Mikhail Bulgakov” non piacessero. C'erano tutti gli ingredienti: un supereroe, un personaggio storico, le ambientazioni eleganti della Mosca dei primi tempi della Rivoluzione d'ottobre, la satira politica. Più avanti la contrapposizione tra blocchi, la vita da bohémien, un gran numero di belle gnocche. Proprio non c'era nessun motivo. O meglio: all'inizio io non l'avevo capito, qual era il motivo. Ma poi fui illuminato da un'intuizione: la ragione era nascosta nelle risposte che le case editrici mi avevano dato.
Prendete la Foxtrot: pubblicava ancora oggi le tavole di quell'eroinomane di Ambrogio Calma, volete che non avesse spazio per le mie? Mi presentai nei loro uffici prima di andare da ogni altro editore, e quel tizio, quel Marcello Desideri, mi aveva detto che non andava bene che le strade si chiamassero “Tverskaja ulitsa” o “Sadovaja ulitsa”, che avrebbero dovuto chiamarsi “via Tver” o “via dei Giardini”. Che idiota! E dire che non gli avevo neanche detto che quella era solo una versione per lui, che pian piano quelle strade, sui cartelli, si sarebbero chiamate Тверская улица e Садовая улица. Un po' di sano realismo, e che diamine! Ce lo vedete voi un cartello di Mosca scritto in caratteri latini? Da piccoli, quando leggevate i manga, i cartelli erano o non erano in ideogrammi? E quello vi impediva di leggere i vostri fumetti, di capirli? Tenni per me le mie osservazioni, ringraziai Desideri e passai alla casa editrice successiva. Ma neanche lì andò bene.
Alla Echo parlai con il direttore della collana “Farfalla”, Piero Pezzalo. Un cieco avrebbe saputo far meglio il suo lavoro, credetemi! Gli portai una decina di tavole, le lasciò sulla scrivania per una settimana abbondante e poi mi scaricò con una scusa: mi disse che uno che già di suo faceva il medico e nel tempo libero era uno scrittore non aveva tempo per una terza identità. “Se è un dottore – mi disse – già avrà le sue difficoltà. Come vuoi che trovi un ritaglio per volare da Teatralnaja verso Ploshchad Revolutsij per salvare bambini e donne in difficoltà?”. A lui, come a Desideri, non dissi quel che pensavo: mi limitai a ringraziarlo per il tempo che mi aveva dedicato, a raccogliere i miei disegni e allontanarmi in fretta.
Una sorte uguale mi toccò alla Romeo e, per farla breve, ovunque. “L'Unione Sovietica è démodé”, mi disse quel tale, Francesco Magro. “Un supereroe di provenienza aliena è un espediente trito”, gli fecero eco alla Sierra. “Il fumetto storico non tira più da un pezzo”, disse un altro deficiente alla Lima. Insomma: tutti mi davano il benservito con scuse accampate lì per lì, ma fu soltanto alla Bravo che mi dissero qualcosa di più vicino alla realtà: “Bulgakov – mi spiegò l'editor, l'avvenente Elena Bonito Oliva – morì nel 1940, vent'anni prima che la Vostok 1 prendesse la via dell'orbita. Il viaggio dello scrittore nello spazio è un impossibile anacronismo”.
Come avevo fatto a non pensarci prima? Il 1940. Marzo 1940, per l'esattezza. Esattamente sei mesi dopo l'invasione sovietica della Polonia. Non era sospetta, quella morte? Dico: un medico conosce il proprio corpo, sa perfettamente quali sono le malattie che gli hanno portato via il padre. Era evidente quello che tutti nel mondo dell'editoria sapevano: Bulgakov, in realtà, una tripla vita ce l'aveva. Perché, altrimenti, il regime avrebbe sopportato le sue critiche? Solo per un'antica simpatia di Stalin nei suoi confronti? Lo intuii immediatamente: Bulgakov, in realtà, era un agente segreto, il mediatore che aveva permesso a Ribbentrop e Molotov di incontrarsi. Un uomo troppo scomodo, in quel momento, perché potesse rimanere in vita.
Era questo il segreto custodito dalle case editrici di mezza Europa. Il segreto che mi avrebbe impedito il decollo nell'Olimpo dei disegnatori. Era per questo, per costringermi a dimenticare tutto, che mi obbligavano a prendere quelle pillole. Ma io no, stavolta non mi sarei piegato alla loro volontà: sarei fuggito in America, dove il mio segreto sarebbe stato apprezzato. Lontano, lontano da quel covo di pazzi. Finalmente al sicuro. Finalmente libero dalla censura. Finalmente felice.

ps Quando ho dato vita a questo spazio, meno di tre mesi fa, non sospettavo che avrei festeggiato così presto le 50.000 pagine viste. Grazie a chi ha scritto, a chi ha commentato, ma anche ai tanti, ai tantissimi che, in silenzio, hanno avuto la pazienza di leggere le storie pubblicate da queste parti senza lasciare una traccia.