venerdì 29 ottobre 2010

Socialismo e barbarie

Dal vivo P. F. era più squallido che in video. Grassoccio, sudaticcio, era l'esemplare-tipo di questa repubblichetta: viscido, sboccato, amante della battuta di pessimo gusto, si avvicinava a te con l'atteggiamento di chi è il padrone del cielo e della terra.
- È un piacere conoscerla.
- Tu sei...?
- Simone Bocucci. Il nuovo aiuto regista.
- Bocucci. Un cognome che ha fatto grande questo Paese.
- Troppo buono, dottor F.
- Smettila di chiamarmi dottore. Chiamami P., siamo colleghi.
- Lo metterò nel curriculum: P. F. mi ha detto di dargli del tu.
- Smettila di fare il leccaculo, Simone. Col cognome che porti non ne hai bisogno.
P. F. sorrise. Mi schiacciò l'occhio e viscido com'era arrivato se ne andò. Maledetto F., servo prostrato di un padrone inesistente, un giorno ti schiaccerò. Un giorno la rivoluzione proletaria prenderà il sopravvento, un giorno i traditori saranno passati per le armi. Un giorno il sol dell'avvenire illuminerà questo Paese, riporterà la giustizia e la pace.
- Simone?
- Sì, Enrico?
- Oggi hai l'occasione per far vedere quel che vali.
- Porto i caffé?
- Smettila. Oggi è una giornataccia, con 'ste tre puntate da registrare e tutto il resto. Io ho bisogno di tempo, di concentrazione. Mi serve il tuo aiuto: prendi la troupe di Miraglia e vai nello studio 32 con Antonio e Giulio. Girerai la tua prima telepromozione: “Regia di Simone Bocucci”. Come ti sembra?
- Grandioso, capo. Grandioso.
Le odio, queste telepromozioni. Strumento del demonio, corruttrici di popoli. Avamposto del consumismo, di una società basata sul nulla. Di una società che merita di essere governata da Bartolini e dai suoi servi sciocchi: ma verranno, i giorni del giudizio, verrà il potere del popolo, verrà la libertà degli oppressi.
- Maledetti occhiali, li hai visti?
- Gli occhiali? Ancora li cerchi in giro per casa? Non hai sentito la novità?
- Quale novità?
- Sei stanco di sbattere contro le porte alla ricerca dei tuoi occhiali? Sei stanco di vagare nel buio senza trovare quel che cerchi? Da oggi non sarà più necessario: grazie ai nuovi occhiali Gombini basterà pigiare un interruttore e gli occhiali squilleranno. Guarda i miei: non posso perderli più.
- E poi che belli.
- Già: sono stati disegnati dalle firme più prestigiose del panorama internazionale. I miei sono di Armeni, ma guarda qui: questi sono stati disegnati da Amaro&Soprabito, questi altri da Versaccio. Ma la collezione è molto più ricca: Fofò Canale, Gabriel Bulgaro, Gianluca Doré. Non c'è che l'imbarazzo della scelta.
- Gombini, come ho fatto senza di voi?
Buona la prima e vaffanculo. E vaffanculo a tutti voi. Torno a casa, aspetto il mio momento. Fra non molto arriverà, già me lo vedo: P. F. conduce il suo show, puttanelle e mezzi uomini si danno da fare per guadagnare un primo piano, e io intanto ripeto il mio mantra finché non arriva il mio turno. “Bandiera rossa la trionferà, bandiera rossa la trionferà, bandiera rossa la trionferà, evviva il comunismo e la...”.
- Pubblicità.

giovedì 28 ottobre 2010

I muscoli del Colonnello

Lo chiamavamo il Colonnello. Non perché fosse un militare: a occhio e croce, anzi, era uno statale in pensione, insomma un impiegato di qualche tipo, però aveva quello sguardo autoritario, quella voce stentorea che riempiva le scale e impauriva noi bambini, ci faceva tremare al solo sentirla. Anche i baffi facevano la propria parte: aveva, il Colonnello, un paio di mustacchi d'altri tempi, baffi ottocenteschi da ufficiale prussiano della Guerra di Crimea, ciuffi di pelo folto e cattivissimo che si arrampicavano ai lati del naso e sfociavano dalle parti delle orecchie. I tre elementi uniti ne facevano uno spauracchio per i nostri giochi, uno spauracchio che nessuno di noi avrebbe mai avuto la forza di sfidare: “In cortile no – diceva – in cortile non si può giocare a pallone”, e noi, che non avevamo il coraggio di violare un ordine di quel genere, correvamo veloci a nascondere la palla, a negare di essere anche solo stati lì, spediti su per le scale, a rotta di collo, a perdere il fiato.
A ben pensarci, oggi, in fondo il Colonnello era solo un po' buffo. Lo vedevi girare sempre con un paio di pantaloni troppo larghi per le sue gambe smilze, pantaloni che si gonfiavano a palloncino e tradivano contro la luce del sole la sua magrezza: sembrava, a scrutarlo con attenzione, un trampoliere traballante su un paio di stecchini, una cicogna senza bambini da portare chissà dove, uno spaventapasseri semovente e quindi capace di portare i suoi divieti in giro per il condominio. E già che nel palazzo era il centro di ogni decisione: quando i vicini non riuscivano ad accettare l'idea che un ascensore potesse essere utile era lui a fare il giro degli appartamenti per convincerli ad uno ad uno, se c'era da bacchettare il portiere per le troppe assenze era in prima linea, quando morì la signora Luciana fu lui a raccogliere i soldi per il funerale.
Ma insomma, quel giorno, quando bussarono alla porta, non pensavo proprio di trovarmelo di fronte Mi si parò davanti con fare brusco e faccia funerea e io, in quel momento lì, pensai di fare come il gatto, che quando ci sono i fuochi d'artificio scappa sotto il letto e non esce fin quando il pericolo non è evidentemente scampato. Diedi un'occhiata ai dintorni: alla mia destra un attaccapanni col camice di mia madre e il suo cappotto negava la via di fuga, dall'altra a sbarrare la strada era il muro. Solo la retromarcia sarebbe stata un'opzione, ma quello mi avrebbe agguantato. Lo affrontai. “C'è tua madre?”, mi chiese con fare affettato e allo stesso tempo affrettato, e io, che ero stato ripetutamente indottrinato sul comportamento da tenere con gli estranei, fui tentato di dire che no, era fuori, ma sarebbe tornata a momenti. Tutto inutile: in un istante mia madre si materializzò dietro di me, lo accolse con garbo e lo invitò ad accomodarsi.
Quello si parò sulla poltrona del salotto, tirò un foglio fuori da una cartelletta e lo mostrò a mia madre.
- Ecco la biopsia. È maligno.
- Vediamo... sì, in effetti i dati sono chiari. La faccia venire da me giovedì mattina.
- Ma... si può fare qualcosa?
- Proviamo con la chemio. Con l'ipertermia.
- Cioè?
- La bombardano di frequenze radio che fanno aumentare la temperatura, così il tumore regredisce.
- Ma ha sedici anni.
- Lo so, lo so. Ma stia tranquillo: ormai le cure anticancro sono efficacissime.
- Ha sedici anni, dottoressa. Perderà i capelli?
Il volume della voce del Colonnello si alzava progressivamente. Il garbo, quella patina di rispetto che a me sembrava impossibile, andava via via sparendo. Il Colonnello si mise a piangere.
- Ricresceranno.
- Non è giusto, dottoressa, non è giusto. Questo fu...
Fece una pausa. Le lacrime gli rigavano la faccia, la mano serrata sulla cartelletta tendeva i muscoli del braccio: muscoli pieni, solidi all'apparenza, nascosti da poca carne.
- Fu la morte di Giovanni. Già senza la madre è complicato, ora pure suo padre, pace all'anima sua. È vero, dottoressa, è vero che i tumori vengono per i dispiaceri?
Non attese risposta. Si alzò, guardò oltre la finestra. Ringraziò mia madre, con uno scatto d'orgoglio tornò Colonnello. Ma era tardi: ormai l'avevo già visto così, per una volta fragile. Per una volta normale. Quel giorno smisi di correre per le scale.
Quel giorno il pallone fu spazzato via dal cortile.

mercoledì 27 ottobre 2010

La tivvùteca di Babele

Un grande ritorno, oggi. Per permettergli di pagare un debito contratto da senzavoglia e per fargli scontare quella condanna a 12 ore di servizi sociali, ecco a voi un altro racconto di borges.

“Oh mannaggia!”. Puf e la televisione di Marco aveva smesso di trasmettere, all'improvviso schermo nero.
Subito sembrava il classico fastidio da “una botta sull'apparecchio e via”, ma al quinto pugno cominciò a farsi strada l'idea che questa volta era andata via per sempre. Come davanti a tutte le dipartite provò un grande dolore, d'altronde quel Mivar 28” lo accompagnava da quasi 20 anni: ogni volta che aveva un guasto, come con un parente malato, lo portava dal “dottore”, un suo caro amico che riparava elettrodomestici.
In verità, quest'ultimo era da un po' che stava cercando di metterlo in guardia, “Eh caro Marco, è sempre più difficile trovare schede che mi aiutino a riparare la tua tivvù”, “Eh caro Marco, stavolta lasciala per una settimana, perché il tubo catodico è veramente messo male”. Insomma segnali che lanciava, per infilargli l'idea che la televisione che lo aveva accompagnato per così tanto tempo era vicina a salutarlo per sempre. Così fu quella sera, all'improvviso.
Dolore o non dolore, però si faceva strada l'idea che se non si muoveva quella sera sarebbe rimasto senza televisione. Lui era uno metodico: dopo il lavoro arrivava a casa, si rinfrescava, telo blu per la faccia, telo rosso per le mani e telo verde per i piedi. Si preparava la cena e alle 20:00 in punto era seduto in poltrona ad ascoltare le ultime notizie del telegiornale.
Non poteva spezzare quella routine. Decise che all'ora di pranzo sarebbe andato in qualche megastore a comprarne una nuova.

“L'impero della TV” sembrava adatto: aveva aperto da due giorni, era vicino al suo lavoro, ed era un’immensa distesa di tv senza fine. Sicuramente avrebbe trovato quello che cercava.
All'ora di pranzo si sa, questi store sono aperti ma non pullulano di gente come al sabato. Ad entrare dentro si sentì come un fedele in un tempio. Quello era stato innalzato alla più grande icona dei nostri tempi, la televisione. La fila di tivucolor di tutti i tipi e di tutte le marche messe in fila era impressionante, tutte accese, tutte che trasmettevano telegiornali. All'inizio questo input immenso di pixel lo aveva lasciato abbacinato, poi, ripreso possesso di tutte le sue facoltà sensorie, cominciò a guardare con l'occhio scrutatore del compratore, e vide quello a cui prima non aveva fatto caso. Sì, vero che tutti trasmettevano telegiornali, ma ognuno differente, magari di un dettaglio insignificante, ma differente. C'era il tg1, il tg2, il tg3 e così via, ma ognuno di essi aveva o una notizia differente o la stessa notizia data al contrario o un conduttore differente.
Marco era affascinato e perplesso allo stesso tempo. Cominciò a seguire tutti questi televisori in fila ognuno con il suo tg differente dall'altro. Arrivò ad una scala mobile e scese, al piano di sotto si apriva un magazzino ancora più grande, anch'esso strapieno di televisori che trasmettevano tg. Qua davano le edizioni regionali, anche qua tutte le notizie ed il contrario di esse, quella che in un tg era data come verità assoluta in un altro era tacciata di bugia astronomica.
Marco continuò a camminare. Ormai aveva perso la cognizione del tempo: erano 4 ore che stava camminando dentro il negozio a guardare queste tv. Arrivato al centro di questa stanza c'era un'altra scala mobile che scendeva. Stavolta il magazzino che si apriva sembrava grande almeno il doppio di quello di sopra, faceva fatica anche a vedere la fine delle pareti. Stavolta gli idiomi erano strani, si sentiva uscire dalle tv tutte le lingue del mondo, tg in inglese, francese, cinese, spagnolo, arabo, finlandese. Tutti che davano notizie e il contrario di esse, inviati sbugiardati in una tv erano anchorman di successo in un'altra.
Sentiva la stanchezza ed anche i morsi della fame, ma non riusciva a fermarsi, guardando l'orologio erano 12 ore che già stava dentro quel magazzino. Niente: era ipnotizzato, sentiva solo una pulsione ad andare avanti alla scoperta di tutto quello che poteva vedere.
Ad ogni piano aumentava la grandezza del magazzino, aumentavano i corridoi pieni di tv, aumentavano le edizioni di telegiornali strani. Vide tg in lingue incomprensibili, in lingue ancora da inventare, vide i notiziari del passato, con le rispettive smentite. La storia riscritta dalle notizie, ogni volta diverse. Uno dava la notizia delle feste in Germania per il 95° compleanno del Fuhrer, un altro parlava dello stato più all'avanguardia del Medioriente, la Palestina.
Al 10° giorno che vagava in quel magazzino dell'assurdo, senza forze si accasciò vicino all'ennesima scala mobile che scendeva, ascoltò la voce che veniva dal televisore che stava di sotto. Stava trasmettendo il telegiornale del 2187. In quel momento morì.

martedì 26 ottobre 2010

Non è uno sport per signorine

- E allora gli faccio, dico: un milione e due e siamo d’accordo.
- Un milione e due all’anno?
- E che, al mese?
- Sì, cioè, però... è poco.
- Meglio di niente.
- Sì, ok, ma Miguel non è “niente”. Dovevi tirare.
Gianluigi sorrise. Una ruga gli si disegnava sulla parte destra del volto: scendeva dall’auricolare e veniva giù verso la bocca, fino a insediarsi alla base del mento. Secca, profonda. La chiamano “la linea del procuratore”: inizia a disegnarsi verso metà luglio, fine luglio se ci sono i mondiali, e poi si scava sempre più fino ad arrivare all’ultimo giorno d’agosto, quando lo stress da trattativa l’ha già fatta diventare un canyon. Poi, per magia, sparisce fino a gennaio.
- Non potevo tirare più. Miguel doveva andare via.
- Ma che stai dicendo? Con quello che ha fatto al mondiale? Con la stagione pazzesca che gli è venuta fuori l’anno scorso?
- Potenza non andava più bene per lui. E poi l’offerta del Nuoro era troppo allettante.
- Ma che dici? A Potenza Miguel è Dio: i tifosi lo adorano, gli sponsor se lo litigano, le conferenze stampa con lui sono sempre piene, le ragazze...
- Le ragazze, appunto.
- ...sognano di scoparselo...
- Appunto.
Dalla borsa di Gianluigi sbucò un foglio del “Corriere della Basilicata”: il titolo gridava a sei colonne quell’episodio di sei mesi prima, quello che tutti avevano dimenticato. “Aggressione a Carrizo e Bogado”: i due, spiegava il giornale, erano stati affiancati da un’altra auto con quattro ragazzi a bordo, che all’improvviso avevano preso a colpi di catena la Mini dei due calciatori.
- E quindi? Mi vuoi dire che s’è spaventato per ‘sta cosa?
- Doveva spaventarsi.
- Minchiate. Non lo sai com’è Potenza? I rapinatori ci sono, Miguel lo sapeva prima. Evidentemente quelli volevano fare una rapina al volo, ma poi hanno riconosciuto Miguel e Germán e si sono fermati.
- Germán forse. Ma Miguel l’avevano riconosciuto prima.
- Ok, Miguel guadagna un sacco di soldi. Ma perché, secondo te a Nuoro rapinatori non ce ne sono?
Gianluigi guardò Domenico come per compatirlo. Mise di nuovo la mano alla borsa e ne tirò fuori una foto: nello scatto, abbastanza confuso, si vedeva un po’ di folla allo Stuttgart, il locale del centro di Potenza dove è scontato incrociare i pochi vip della città. Imprenditori, politici, attricette e, ovviamente, calciatori, come per l’appunto dimostrava la foto: al centro della scena, evidentemente ubriaco, Miguel era in atteggiamento da piovra con una tizia bionda.
- Non è male.
- Già. Però ha un difetto: è sposata.
- Eheh. Lo sai che il calcio non è uno sport per signorine.
- Sei il solito minchione. E comunque vai a raccontarlo a quello che si è preso la premura di fare avere questa foto a Miguel.
- Minchia.
- Una settimana prima dei colpi di catena.
- Minchia.
- Un milione e due com’è?
- Una meraviglia.
Domenico guardò di nuovo la foto. Pensò a tutte le donne sposate che s’era scopato. Un brivido gli attraversò la schiena.

lunedì 25 ottobre 2010

Che fine ha fatto Luis Sepúlveda?

Cominciamo la settimana con una nuova ospite. Ecco a voi Leucò.

Trentasette e otto. “Uhm, ho un po’ di febbre - disse Bianca tra sé - sarà meglio che mi vesta un po’ più pesante”. Quel giorno doveva affrontare una giornata complicata.
- Mamma, sto scendendo. Vado all’università per una lezione e per parlare con un professore. Poi passo da Silvia per completare la ricerca. Al ritorno ritiro gli stivali al negozio per Sara e le cose per te in lavanderia.
- Va bene - disse la madre da un’altra stanza - ma copriti bene: sta piovendo.
- Ouch! - esclamò Bianca, che non aveva notato il particolare - E sono pure in motorino...

La sera la ragazza rientrò a casa distrutta. Era più stanca del solito e aveva brividi in tutto il corpo. Misurò la temperatura: la febbre era salita, aveva trentotto e mezzo.
- Mamma, mi metto a letto. Ho un po’ di febbre e sono distrutta.
Chiuse gli occhi per un istante e le apparve subito un paffuto gatto nero con una cicatrice su un occhio e una macchia bianca sul petto.
- Ciao Bianca.
- Bricco?
- Finalmente sei arrivata. Ti aspettavo da un po’. Cleo mi dava tue notizie, quindi non ero preoccupato per te: sapevo che stavi bene.
“Ok, capisco che la febbre fa fare strani sogni. Ma questo mi sembra un po’ troppo”, pensò Bianca. La ragazza si guardò intorno: nel luogo regnava una luce soffusa, sembrava sera, al tramonto. Era una specie di borgo medievale, un paesino antico con casette basse tutte in pietra dalle cui finestre si intravedevano le luci. Le strade sapevano di buono. L’aria era fresca tanto da pizzicare il viso, non c’erano macchine né rumori fastidiosi. Le ricordava un paesino di provincia in cui andava spesso da piccola: il paese di sua nonna, dove, però, ormai la tecnologia aveva distrutto quel che di buono aveva lasciato in eredità il passato.
Un particolare le saltò agli occhi: all’apparenza non c’erano persone. C’erano solo gatti.
- Ehm, Bricco... dove sono?
- Bianca, amica mia, lo confesso: sei qui perché l’ho voluto io. Ne ho parlato con Cleo e le ho chiesto se le andasse bene non averti per un po’. Insomma: con lei ci abitavi, con me no. A me davi solo le briciole del tuo tempo, quando facevi una passeggiata o mi portavi da mangiare e poi tornavi sempre da lei. Così abbiamo deciso.
- Cosa avete deciso? - disse Bianca con la voce un po’ alterata.
- Abbiamo deciso che adesso tocca a me stare con te.
- Bricco, ti posso ricordare una cosa?
- Prego.
- Tu sei morto.
- Oh, sciocchina. E io che pensavo che almeno tu avessi capito.
- Capito cosa?
- Ma come? Non eri tu quella che diceva che dato che non avevi visto il mio corpo non credevi che fossi morto?
- Sì, ma scherzavo. Se è per questo dicevo pure che eri salito al cielo con tutto il corpo, ma era solo per addolcire la tua mancanza. Sapevi quanto tenessi a te.
- E invece eri andata vicina. Ti chiedi mai perché si vedano pochi corpi di gatti morti rispetto a quanti ce ne sono in giro vivi?
- Sì, ma potrebbero esserci mille ragioni.
- No, invece. Veniamo qui, in questo posto. Hai presente il discorso sulle nostre tante vite che fate voi umani, che non ho capito mai se sono sette o nove? Tutto vero, viviamo tanto. Ma molto più di quanto pensiate voi.
- Ok, allora come funziona qui? Io sto un po’ con te, poi mi passa la febbre e torno su?
- No, Bianca, non succederà questo.
- ...
- Bianca, la febbre non passerà. O meglio: passerà dopo.
- Dopo? Dopo che cosa?
- Hanno l’onore di venire qui solo coloro che noi abbiamo amato particolarmente. Se guardi bene vedrai lì in fondo Edgar.
- Edgar Allan Poe?
- Proprio lui.
- Poi, di fronte, dentro quella casa, c’è Sepúlveda.
- Ma lui non è morto.
- Ti sei chiesta come mai non hai più sentito parlare di lui?
- Boh, l’età? Si starà dedicando ad altro.
- No. E in quel cortile c’è Burroughs.
- Pure lui? E adesso magari mi dirai che c’è pure Bulgakov.
- Esatto. Hai visto che cominci a capire?
- E guarda caso quasi tutti parlano di gatti neri...
- È vero, non ci avevo fatto caso. Queste sì che sono coincidenze - disse Bricco con un pizzico di sarcasmo.
- Va bene. Ma allora mi trovo nel paradiso degli scrittori... io che ci faccio?
- No, qui ci stanno gli animi nobili. E decidiamo noi quali sono. Ti ho citato solo gli scrittori, ma ci sono anche fotografi, ciabattini, zingari... tutti. Imparerai a conoscerli e ti troverai bene. Sono tutti come i gatti: amano la loro libertà, l’indipendenza, ma sanno voler bene. Solo quando e nei confronti di chi vogliono loro, è chiaro.
- E la mia vita? Gli amici, la famiglia... tutto?
- Non c’è niente che sia per sempre – canticchiò il gatto nero.
- Adesso ti metti anche a cantare gli Afterhours? Ti sembra il momento?
- La volta che mi hai trovato senza un occhio invece ti sembrava il momento?
- Ecco, adesso ho trovato anche un gatto che mi rinfaccia storie di cinque anni fa.
- Loro ti crederanno morta. Un microrganismo a voi sconosciuto ti ha trasmesso una febbre fulminante.

Un filo di luce filtrava nella stanza. La madre si avvicinò al letto.
- Bianca, tesoro, ti ho portato la cioccolata calda.
Il letto ascoltava silenzioso. La madre si accostò alla figlia, le sfiorò la fronte bagnata. La radio ripeteva che tutto è efficacia e razionalità, che niente può stupire.

venerdì 22 ottobre 2010

L'amore su un prato

Bussò così, con disinvoltura, come se non fosse un problema suo. E già che non era così: una porta, solo una porta, la separava dalla normalità. Dal ritorno: niente le avrebbe fatto pensare che la guerra, quella cosa a cui giocano i maschi mentre le bambine pettinano le bambole e sognano per educazione un futuro da mamme, fosse una cosa così sporca, così faticosa, così rumorosa. Così dolorosa, in definitiva: mille ne aveva amati e mille, dalla sua sedia in infermeria, ne aveva visti viaggiare verso la morte, prima rossi in viso a combattere contro l'ultimo nemico, ora impercettibile,  poi neri per i farmaci e l'immobilità e infine bianchi, infine sorridenti, infine quieti nell'abbraccio della morte.
L'aveva imparato a sue spese, che la guerra non è cosa da donne. Che sono tutte balle, quelle sulla Croce rossa che non si tocca, quelle sui buoni che in ogni caso non possono essere uccisi, perché non è vero che non ha importanza che divisa indossi il ferito e tutto quello che c'è scritto nei manuali, nei formulari e quant'altro: non è vero perché sul campo di battaglia le bombe esplodono e sono cieche, perché la differenza fra un'ambulanza e un carro armato sta tutta nel numero di caffé che ha bevuto il piantone, perché fra un cadavere e l'altro ci sono sempre in agguato delle cosine leggere e sensibilissime alle quali non frega niente di chi sei, di che lavoro fai, quanto guadagni o perché sei lì. Mine antiuomo, le chiamano, ma anche un bambino le fa saltare: basta un soffio, un albero che muore o un passo improvvisato e bum, voli nel vento, veloce come la tristezza quando ti cattura, una luce improvvisa ti ruba un braccio, una gamba, una mano.
Ne aveva visti tanti di quei bambini sfregiati: a Mitrovica, lungo il ponte che divideva due lingue, due alfabeti, due modi di essere, in definitiva lungo il ponte che separava due continenti, era un carosello di quelli lì. Li aveva visti in una scuola a chiedere la carità, a ridosso delle trincee della K-for a credersi soldati, li aveva visti lungo il lago costellato di minuscole bandierine rosse a giocare, finalmente bambini, stupidamente bambini: erano, quelle bandierine, proprio le mine già individuate, ma che ne può sapere un bimbo di un carro armato di plastica che all'improvviso spara sul serio, di un gioco innocuo che diventa verità, che ne può sapere alla fine un bambino della morte e dello sfregio?
Pensava a tutto questo, mentre bussava: pensava alle mine, pensava ai bimbi a tre arti, pensava agli stracci di Politika di fronte a quel palazzo piegato su se stesso, ai carri armati in mezzo al prato. Pensava a Gianni che quel giorno faceva le foto, alle licenze spensierate e per l'appunto licenziose, pensava all'idea assurda di fare l'amore sul prato, di cancellare la guerra con la più potente delle armi, o meglio le più potenti: la fantasia e l'orgasmo, la fantasia e l'amore, se anche amore si poteva chiamare. Non si curava di quello: non era la protagonista di un racconto idiota e melenso, un racconto d'amore in mezzo alla guerra, insomma non era un'eroina da descrivere e narrare, dunque non c'era nessun bisogno, per lei, di dare un nome alle cose, di inquadrarle in una categoria di pace. Non esisteva, la pace: non esisteva nient'altro che quel prato, quei carri armati, il rumore degli aerei e i loro vent'anni.
Fu la porta a interrompere i suoi pensieri. Le aprì sua madre, e la sua faccia non era più quella di qualche anno fa: nel viso le si leggeva l'orrore, la paura, quella telefonata della Farnesina e poi i giornali, le edizioni straordinarie e la vergogna. I funerali di Stato, il presidente commosso, il ministro a petto gonfio, lui che la guerra l'aveva vista soltanto dal suo elicottero verde. I dettagli, le insinuazioni, lo strazio sul cadavere di Gianni, il congedo e forse, un giorno, una medaglia. Luisa posò la stampella e abbracciò la vecchia. In fondo il problema non era suo. Non poteva esserlo più.

Limitatamente al web, l'immagine pubblicata in questa pagina è rilasciata secondo i termini della licenza cc-by-sa 3.0. Può essere utilizzata a patto di indicare la seguente dicitura: "Foto di Silas Flannery per Il padre dei racconti. Licenza cc-by-sa 3.0 limitata al web, fonte: silasflannery.blogspot.com".

giovedì 21 ottobre 2010

Pastoriana

Oggi questo blog diventa internazionale. Direttamente dal Brasile, dove è emigrato per gestire meglio l'import-export di prostitute pre-adolescenti, ecco a voi borges.

Il sogno e la realtà sono due piani che di solito viaggiano in maniera separata, rarissime volte si incrociano e il loro urto è così atrocemente splendido, che sono le cose che ricordiamo meglio nella nostra vita.
La prima ragazza che baci e ti porta in camera sua, la volta che conosci il tuo artista preferito, il giorno della laurea oppure quando apri l'attività che avevi sempre voluto.
Sono alcuni esempi di sogni che passano da un piano all'altro, urtano nella realtà e lasciano il segno nelle nostre vite , nelle nostre menti.
Poi esistono anche sogni meno alti, almeno così vorrebbe far credere la gente. Quelli di un bambino per esempio, il sogno di un giocattolo, di avere un amico, di assistere a qualcosa di eccezionale e dire "io c'ero".
Crescendo i sogni cambiano appunto, o forse li facciamo combaciare solo con le necessità, come il sogno di una casa. Sono convinto, però che i sogni fatti da bambino siano i sogni più puri e belli.

Totuccio come tanti altri aveva preso la malattia del pallone, anzi diciamo che gli era stata trasmessa da suo padre. 5 anni e già una sciarpetta rosanero al collo, tolto dalla tavola domenicale, quella con i manicaretti più buoni, per andare a vedere una partita di calcio.
Detto così però è riduttivo, meglio dire l'evento della partita, perché così comprendiamo anche il pre ed il post. Il pre con l'arrivo davanti allo stadio. All'epoca per arrivarci si passava da una casbah fatta di venditori ambulanti di qualsiasi tipo di cibaria strettamente palermitana, altro che fast food, street food in pietra. Questo faceva sì che scattasse la chiacchiera con il vicino, tra una birra ed un panino, per lui solo gazzosa, sulle aspettative del giorno, sull'intero campionato e sui giocatori. I giocatori che in fondo rappresentavano tutte le gioie e le delusioni della settimana. Per questo un brocco veniva massacrato e per lo stesso motivo un campione veniva esaltato. Rappresentanza fisica di gioia e dolore, vittoria e sconfitta. Il post partita era la risultante, Totuccio viveva in una perenne esaltazione in caso di vittoria e nella depressione più atroce per un'imprevista sconfitta.
Totuccio iniziò la sua avventura di tifoso nei primissimi anni '80, a quel tempo ben pochi appartenevano alla categoria campioni, solo gente come Montesano e Vito Chimenti, quest'ultimo inventore della "bicicletta", quel modo di far passare la palla sopra l'avversario prima mettendola fra le gambe e poi con un colpo in stile pedalata con il tacco far sì che la palla parta dalla propria schiena e superi l'avversario davanti a noi. Ma anche Gaetano De Rosa, indimenticabile bomber che ballò sotto il Monte Pellegrino per un'indimenticabile stagione.
Insomma, da tifoso del Palermo, non aveva abbondanza di campioni, però li poteva sognare, se non nell'immediato almeno per il futuro.
Ora sapete bene che i sogni raramente si avverano, se no, non sarebbero sogni ma obiettivi normali della vita. Cioè ci deve essere il pathos, l'attesa incredibile, il mangiarsi le unghie, l'aspettare l'alba. Se no sarebbero normali pratiche quotidiane.
Totuccio, dopo 28 anni d'attesa, lo ha visto realizzare il suo sogno. In una domenica normale, in un Palermo-Bologna, ha visto la conferma arrivare in una busta notarile con ceralacca e sigillo regale. Nel Palermo, nel suo Palermo, ha visto giocare il più grande campione di questi nuovi tempi, Javier Pastore.
L'espressione dei suoi sogni da bambino, il giocatore che prende palla e sfidando le leggi fisiche sull'attraversamento dei corpi, riesce a passare tra tre, quattro o cinque avversari, il piede che appena vede una palla la scaraventa con inusitata leggiadria e precisione nel "sette" avversario. L'eroe che sconfigge i nemici e porta gloria al nome di Palermo e ai suoi colori.
Ed è un sogno, perché rispetta le regole dei sogni dove tutto deve essere eccezionale, Totuccio pensava che fare determinati atti era impossibile umanamente, il sogno avverato, gli ha portato il gesto e gli ha mostrato la via verso una piccola felicità.
Ora, Totuccio ha un sogno in meno da realizzare ed uno realizzato da cui godere appieno.

mercoledì 20 ottobre 2010

Il prezzo del caffé

Il pane in cassetta è molto più buono se lo tieni in frigo. L'ho scoperto qualche giorno fa: finora l'avevo sempre tenuto in dispensa, fra i biscotti del discount e il caffé, ché quello a casa mia non deve mancare mai. Non ce la faccio, senza caffé: mi sveglio la mattina e metto sul fornello una caffettiera da tre tazze, aspetto leggendo un libro che ne venga fuori qualcosa e poi via, quasi in un sorso, quasi a scottarmi. Non riesco a svegliarmi, senza caffé.
Lo so, dovrei consumarne di meno. Non perché do retta al medico: quello pensa soltanto a mettere timbri sulle ricette, a dirmi di prendere aspirine anche per il mal di schiena, dice che il caffé provoca infarti e cose del genere solo perché l'ha sentito dire in televisione o l'ha letto sulle riviste. No, il caffé devo ridurlo perché la settimana scorsa è aumentato ancora, venti centesimi e manco te ne accorgi, per 250 grammi tre euro e cinquanta centesimi un mese fa e adesso 3,70. Con 25 chili di caffé ci devo campare un mese, io.
Prendete oggi: appena ho acceso il computer quello mi ha detto che la posta in arrivo ha tre nuovi messaggi. Adoro questa frase: mi si accende la speranza, ogni volta, mi si ferma il cuore per un istante, ma poi niente, nessuna risposta ai curriculum, “enlarge your penis” e poco altro. Poi voglio vedere se c'è qualcuno che gli risponde, a questi che ti allungano il pene: voglio vedere se li pagano, fra l'altro, ché io ci andrei a lavorare da loro, da aaronalklund chiocciola qualcosa a zvonmiralklund chiocciola qualcos'altro in una mattina te la cavi e via, il tuo assegno in tasca, anche soltanto un pacco di caffé in più.
Non che non ci abbia provato, a lavorare con internet, ma sono tutte truffe: digiti “guadagnare con internet” su Google e ti spuntano mille siti, mille proposte mirabolanti, le foto persino, le foto e gli assegni. C'è quello che ha guadagnato 901.733,84 dollari mettendo banner su un sito, quello che ti propone di acquistare il suo e-book a soli 75 centesimi offrendoti in cambio il segreto della felicità, quell'altro che ti promette che ti manderà un'e-mail di pubblicità al giorno in cambio di qualche spicciolo, ma sotto sotto c'è sempre un imbroglio, una mezza clausola di qualche tipo che ti lascia l'amaro in bocca e il rosso nel conto.
Così oggi pomeriggio ho deciso di cambiare. Basta con i curriculum, basta con i concorsi, i “le faremo sapere” e gli esaminatori con la faccia delusa solo perché di cognome faccio Isabella ma le tette no, per quelle non mi sono attrezzato. Stavolta sono sicuro: conosco uno che un lavoro me lo dà, che mi paga anche bene, che cerca sempre gente. Ci penso e sorrido mentre tiro fuori dal forno il toast con il pane in cassetta, che fra l'altro mi fa anche schifo. E poi a che serve tenere il pane in frigo, se poi lo metto in forno, continuo a chiedermi mentre lo addento.
Ma oggi non ce la faccio a essere incazzato. Oggi sono felice: una vita radiosa mi si prospetta davanti. Magari non è un posto fisso, e lo so che la crisi c'è per tutti, ma almeno ci provo: “lavoro a chiamata” lo chiamano, o anche “lavoro-squillo”, come lo definiva Erika quando sprecavo le mie giornate al collettivo, ma almeno è qualcosa. Oggi è un gran giorno: è il giorno del cambiamento, una nuova alba, la rivoluzione copernicana.
E poi non dev'essere difficile fare il sicario.

martedì 19 ottobre 2010

Stendhal

Un nuovo ospite per noi. Indossate le cinture di sicurezza e lanciatevi a capofitto nella prosa de il_cesco.

Quella mattina Carlo non si trovò in casa. Mi spiego meglio, si svegliò, ma la casa in cui aveva trascorso la notte non era la stessa in cui si era effettivamente addormentato. Tuttavia il letto era lì, il suo letto, quello che lo aveva accompagnato dai dodici in su per altrettanti anni ma, proprio no, non era casa sua quella. Aveva bevuto? No, non aveva bevuto, ma c'era un laccio invisibile attorno alle tempie che le faceva pulsare. E allora? Come c'era finito lì? "Forse" pensò "lo scoprirò. Ora però voglio capire solo dove mi trovo". I mobili sembravano degli anni '40 dell'800 e il tiepido sole che c'era fuori, vista prateria, denunciava che, o era in un set cinematografico come un nuovo Jim Carrey in un remake di Truman show e il film che stavano girando era la sua vita, ad insaputa, oppure effettivamente la casa che c'era intorno a lui esisteva veramente e nessun muro era di cartapesta. Uscì da quella casa e vide i corvi volteggiare, ansiosamente, quasi annaspassero nell'aria, accompagnati dai suoni dei loro versi gutturali.
Uno starnuto. Poi un altro. Carlo era allergico al grano. E se ne trovò un'intera distesa. "Dove mi trovo?" Non gli era dato saperlo. Camminò. Camminò. Camminò. All'improvviso, il silenzio. Poi un grande boato. Una bomba. Corpi dilaniati in un mondo improvvisamente privato del colore agitavano quel che rimaneva delle loro membra. Lo spettacolo era a dir poco raccapricciante. Bestie, uomini, e esseri non ben identificati si mischiavano in quel mare di corpi e fumi e sangue (anch'esso privo di colore vivo). L'istinto gli disse di fuggire e così prese la via per un ponte: l'unica fuga era quella. Un uomo si lamentava e il suo grido era così carico di dolore che quasi le mascelle si staccavano dal resto dell'apparato facciale. Fuggì nuovamente. Corse e svenne. Quando si risvegliò a soccorrerlo fu uno strano tizio, con un pomo davanti al volto.
Era quanto di più normale potesse trovare, in quel momento, e così gli chiese: "Dove mi trovo?" Fu allora che aprì gli occhi. Sorrise. E decise di non visitare più musei d'arte per qualche tempo.

lunedì 18 ottobre 2010

Altro che Fox Crime

La schermata del pc s’illuminò di verde: “Match found”, recitava esultante, “match found” e vaffanculo al serial killer.
Venus soffocò un gridolino in gola, mise una mano all’interfono e non compose un solo numero: come per magia all’altro capo del filo c’era già chi doveva ascoltarla.
- Ce l’ho. È il dna di Gordon.
- Lo sapevo, Venus. Dannazione, lo sapevo.
Passarono pochi secondi, e la voce del commissario Wolf si trasformò in una persona in carne ed ossa, novanta chili di intuito e muscoli nel laboratorio dell’agente Allister. Venus era meravigliosa: sotto un camice che richiamava alla fantasia giochi erotici sfrenati, l’agente Allister indossava un body nero che le fasciava il seno e un paio di pantaloni di pelle aderentissima, ma soprattutto nel suo sguardo si coglieva sempre la malizia di chi sa che un uomo non può che giacere ai suoi piedi. Wolf l’abbracciò.
- Sei sicura?
- Senza dubbio, capo. I capelli trovati sulla scena del quinto delitto combaciano alla perfezione con il campione che abbiamo prelevato.
- Quel porco se la dovrà vedere con me.

“Tutte stronzate”, disse l’ispettore Lupo. Lui sì che lo sapeva: conosceva a memoria tutte quelle serie, passava i suoi giorni liberi sdraiato sul divano a fissare Fox Crime e poteva fare l’elenco di ogni produzione recente o passata. Csi, Ncis, Cold Case, Senza Traccia, Medical Investigation, Criminal Minds, Castle, Law and Order, Il commissario Cordier, L’ispettore Barnaby, White Collar e adesso la novità assoluta, Venus e Wolf: non se ne perdeva una che fosse trasmessa in Italia, ma solo per dire che quei telefilm facevano schifo, che lavorare in polizia non è così, che gli esperti di informatica non sono quasi mai donne e se lo sono non sono gnocche, che arrivare alla prova del Dna proprio nel momento in cui il sospettato è sotto interrogatorio è praticamente impossibile, che è ingiusto creare nei familiari delle vittime l’illusione che risolvere ogni caso sia possibile o addirittura probabile. Era solo una, la serie che assolveva: conosceva a memoria la trama di tutte le puntate di Lost e no, su quella non si sentiva di muovere critiche, ma forse soltanto perché non gli era mai capitato di cadere con un aereo su un’isola deserta.
Certo, ovviamente c’era una punta di astio personale. Il fatto che fosse arrivata una serie il cui protagonista aveva il suo stesso cognome, seppure tradotto in un’altra lingua, lo faceva sentire un po’ più esposto al confronto. Per fortuna nella sua squadra non c’era nessuno che si chiamasse Venere, ma forse semplicemente perché una squadra, in fondo, non ce l’aveva: eccola, un’altra differenza, l’idea che in quattro o cinque si possa lavorare a tutti i casi, sempre quelli e sempre preparati, come se ci fossero così tanti poliziotti da potere schierare in una sola città. “Americani di merda”, disse misurando ad ampi passi il salotto.
La televisione gracchiava le scene finali del telefilm, illuminando il cadavere. “Bianco, trent’anni, mani da professionista”, osservò facendo il verso ai teleinvestigatori. Solo per quello: del resto quando la vittima è a casa sua identificarla è molto più facile. “Si chiama...”. L’agente Inglese si corresse: “Si chiamava Giovanni Lo Cascio, 33 anni, avvocato”. Lupo annuì. “Era appena tornato dal pranzo con una ragazza, Iolanda Di Carlo, con la quale si vedeva da qualche mese. È stata Iolanda a chiamarci: è tornata a casa, gli ha telefonato perché aveva dimenticato l’ombrello nella sua macchina e lui non ha risposto. Dopo un’ora e diverse altre telefonate ha avvisato il 113”. L’ispettore sembrava sovrappensiero: cos’avrebbe fatto Wolf al posto suo? Avrebbe sfoderato l’intuito e individuato subito il responsabile, ecco cos’avrebbe fatto. Si atteggiò a capo:
- Avete chiamato la medicina legale?
- Sì, ispettore. Arriveranno fra qualche istante.
- Chi è il pm?
- Panzica. Anche lui sta arrivando.
- Ok. Intanto cerchiamo impronte digitali, capelli, qualunque cosa possa essere utile.
- ...
- Interroghiamo i vicini, il portiere, i genitori. E manda qualcuno a parlare con la ragazza.
- ...
- ...
- Ispettore?
- Sì?
- Ci sarebbe un sospettato. La ragazza sostiene che qualche giorno fa un suo cliente, tale Marrone, l’ha minacciato di morte.
- Conosciamo anche il nome?
- No, ma sappiamo che aveva un processo per lesioni e maltrattamenti in famiglia, e la settimana scorsa c’è stata la sentenza di primo grado. E poi...
- E poi?
- E poi sull’agenda della vittima c’è segnato un appuntamento alle 15,30 con Giuseppe Marrone.
- Perfetto. Abbiamo il movente. Appena arriva Panzica fatti firmare il fermo di questo Marrone. Digli che c’è il pericolo di fuga.

Inglese strabuzzò gli occhi. La voce gli usciva a fatica: “E i gravi indizi di colpevolezza? Panzica non firmerà mai”. Troppo tardi: Lupo aveva già imboccato le scale. Non che non lo sapesse, l’ispettore: il pm non poteva far arrestare una persona con tutta quella leggerezza. Quel vecchio rincoglionito di Panzica sarebbe andato allo scontro, gli avrebbe fatto scappare il colpevole, gli avrebbe rimproverato tutti gli errori della sua carriera. Ma Lupo, per una volta, doveva fidarsi dell’istinto. Avrebbe fatto trapelare la notizia ai giornali, se necessario, avrebbe fatto sapere alla stampa che la polizia aveva trovato il colpevole ma la Procura pigiava sul freno. Aveva un mostro da sbattere in prima pagina, stavolta. Aveva il reietto che s’era sporcato del sangue di un trentenne di buona famiglia.
Forse Marrone era innocente, ma cosa gliene fregava? Era Wolf, lui. Altro che Fox Crime.

venerdì 15 ottobre 2010

La bambina che vedeva oltre

Anche oggi è la volta di un ospite particolarmente gradito. Anzi: un'ospite particolarmente gradita. Ecco a voi Vaniglia.

C’era una volta una bambina triste perché vedeva oltre gli occhi della gente e capiva che tutte le persone che la circondavano e che le passavano accanto erano fatte di cristallo, lei compresa.
Soffriva terribilmente di solitudine perché, per paura di rompere chi le stava vicino, parlava a bassa voce e si muoveva con molta attenzione, tanto che la gente cominciò a prenderla per pazza.
Era tanta la paura di incrinare irrimediabilmente le persone a cui voleva bene che ben presto smise definitivamente di muoversi e di parlare. Fu allora che la rinchiusero in manicomio.
La bambina si ritrovò in mezzo a mucchi di persone infrante senza più speranza che gridavano tutto il loro dolore con talmente tanta forza che ben presto anche lei andò in mille pezzi e rimase aggrappata alle sbarre del manicomio con gli occhi persi nel vuoto a chiedere aiuto senza più voce a qualcuno che forse non esisteva.
Trascorse molto tempo e un giorno passò davanti al manicomio un uomo che per mestiere faceva mosaici.
Vide oltre, negli occhi di quella bambina infranta e la raccolse, pezzo per pezzo, conservando gelosamente ogni più piccolo frammento che era stato parte di lei e poi, con dedizione cominciò a rimettere insieme le schegge di cristallo.
Con sua grande sorpresa, a lavoro finito, non si trovò più di fronte la bambina che credeva di aver raccolto, ma vide distintamente attraverso uno sguardo non più triste la donna che era diventata: una donna che vedeva oltre negli occhi della gente, ma soprattutto nei suoi perché capiva perfettamente che lui era fatto di  un cristallo più puro e fragile di chiunque avesse mai conosciuto prima e che sarebbe bastato un soffio per disintegrarlo.
Avrebbe voluto abbracciarlo per ringraziarlo del dono che le aveva fatto, ma sapeva che, se si fosse minimamente avvicinata a lui, lo avrebbe distrutto; così restò immobile a guardarlo, trattenendo il fiato…
Fu però lui ad avvicinarsi per abbracciarla e nell’attimo stesso in cui lo fece si sbriciolarono entrambi,  ma grazie al calore di quell’abbraccio i loro frammenti si fusero insieme formando un’unica persona che mai più avrebbe sofferto la solitudine.

giovedì 14 ottobre 2010

Prossima fermata

Continuiamo con i racconti sui viaggi in treno e con le collaborazioni esterne. È con grande piacere che oggi vi propongo un racconto di ghiaccio-nove.

“Che coincidenza! Mi par di capire che, tutti e quattro, ci stiamo recando nello stesso luogo.” – disse all’improvviso l’omino con i baffi seduto vicino al finestrino, distogliendo lo sguardo dall’apparecchietto con cui si era trastullato fino ad allora.
Gli altri passeggeri lo guardarono, e si guardarono tra di loro, senza aprire bocca.
“Scusate. Mi sono permesso di rivolgervi la parola soltanto perché mi è parso evidente che, esattamente come me, tutti voi siete diretti al Congresso degli Inventori. Dico bene..., colleghi?”
“Beh, sì, anch’io sto andando al Congresso.” – rispose il giovane con gli occhiali che gli sedeva di fronte.
“Anche io, certo.” – fu la replica dell’unica donna nello scompartimento, una sventola prosperosa che doveva aver esagerato nel cospargersi di profumo.
A quel punto, con sei occhi incuriositi fissati sul suo volto, M. ammise: – “È vero, sto andando a presentare una mia invenzione. Ma lei, signore, come fa a saperlo?”
“Bene, ho appena avuto la conferma che Attivix funziona. Mi spiego: questo prototipo – Attivix, appunto – costituisce l’ultima mia realizzazione. È uno strumento che, per mezzo di una minuscola telecamera e di un elaboratore, permette in pochi secondi di scoprire quali sono le attitudini delle persone e per quale tipo di attività sono più portate. Il vostro, ovviamente, è un caso un po’ particolare: non è che Attivix abbia capito con certezza che siete degli inventori, però in ognuno di voi ha percepito un grado elevatissimo di creatività e abilità combinatoria. A quel punto è stato semplice, per me, supporre quale fosse il motivo della vostra presenza sul treno.”
Fece una breve pausa. Poi aggiunse: – “Ora che vi ho esposto la mia, potete dirmi qualcosa delle vostre idee?”
Dopo essersi schiarito la voce, fu il ragazzo a parlare: – “Io ho brevettato gli occhiali che ho sul naso. Che non servono a correggere dei difetti visivi, avendo io ancora un’ottima vista. Servono invece a mutare il paesaggio esterno durante i viaggi in treno. Faccio un esempio: oggi c’è un nebbione che rende la pianura lì fuori ancora più monotona del solito? Allora alla partenza ho selezionato uno degli scenari in memoria e, guardando dal finestrino, posso godermi la visione di un tratto di Costiera Amalfitana. Comodo, no? Pensate soltanto a quei poveri pendolari che transitano avanti e indietro lungo la stessa immutabile tratta...”
“Immagino che sia il mio turno” – cinguettò Miss Femminilità con un pizzico di stizza, forse perché lo sbarbatello brufoloso non le aveva dato la precedenza.
Senza aggiungere altro, con studiata disinvoltura strinse tra indice e pollice lo splendido anello che le brillava sul dito medio opposto. Subito il suo già considerevole seno prese a gonfiarsi, guadagnando in pochi secondi almeno un paio di misure.
“Può bastare?” – chiese sorridendo. E, senza aspettare risposta, mollò il monile. La singolare lievitazione si interruppe.
Dopo essersi sistemato senza motivo l’impeccabile nodo della cravatta, l’omino emise il seguente commento: – “Un’invenzione destinata ad un successo ... debordante!”
La signora si scostò dagli occhi alcune ciocche di capelli platinati che, appena dopo il passaggio della mano, ricaddero esattamente nella posizione originaria. Poi si voltò verso M.
Con espressione divertita, M. spiegò: – “Io ho creato il software che sta girando in questo momento sul mio portatile. È utile quando ci si sente soli e si ha bisogno di compagnia, perché è in grado di generare nello spazio degli ologrammi così sofisticati e realistici da risultare indistinguibili dagli esseri umani in carne ed ossa. Si possono preimpostare le caratteristiche, non solo fisiche, che si preferiscono, e il programma è in grado di fornire una vasta gamma di esemplari.”
Nel frattempo i tre gli si erano accostati per sbirciare nello schermo del portatile, e M. si ritrovò il petto della donna che gli premeva contro il collo. La sensazione era piacevole. Fu proprio la proprietaria di quelle protuberanze a rivolgergli la domanda che, con ogni probabilità, si stavano ponendo anche gli altri: – “Quindi, se vuole, può fabbricarsi una compagna su misura per soddisfare tutti i suoi desideri?”
M. non ebbe il tempo a rispondere, perché udì dei passi e scorse un’ombra dietro le tendine tirate. Capì che stava per entrare qualcuno, forse il controllore. Allora, con rapidità felina, premette il tasto Esc. Un attimo prima che la porta si aprisse e una testa munita di visiera facesse capolino, si produssero tre lievi sibili paragonabili a scariche di elettricità statica.
Il controllore, scrutando M., si lasciò sfuggire: – “Che strano, ero convinto di aver sentito delle voci ...” Poi, esaminando il biglietto: – “Le ricordo che la sua fermata è prossima, signore.”
“Oh, grazie. In effetti mi ero distratto.”
Mentre recuperava la valigia dal portapacchi, M. vide la sua immagine allo specchio, e il lungo capello biondo adagiato sulla spalla. Se ne liberò con un soffio e, prima che planasse sul pavimento, egli aveva già superato la porta.
Nel corridoio un uomo in divisa, stanco ma anche sollevato per essere ormai a fine turno, si chiedeva per quale motivo il tizio che gli passava accanto emanasse un profumo così esageratamente femminile.

mercoledì 13 ottobre 2010

Il treno

“Permette?”. Certo che permettevo: era una delle più belle creature che avessi mai visto. Mi limitai ad accoglierla con un sorriso: la ragazza si adeguò, e senza parlare prese posto con la levità di una piuma sul sedile più vicino al corridoio, sistemò le pieghe della gonna rossa perché non potessi intravedere niente più del necessario, poggiò la borsa sul sedile al suo fianco e guardò oltre il finestrino. Fuori, lentamente, la campagna prendeva forma di città, e intanto il sole illuminava la mia compagna di viaggio: puntellato di lentiggini, il suo viso era dominato da un paio di occhi chiari profondissimi, minacciati ora qui ora lì da un ciuffo di capelli indomabile, liscio come fili di seta eppure ribelle. Lo sguardo tradiva l’ingenuità di una ragazzotta di campagna, eppure vi era, in quello sguardo, un qualche cosa d’impercettibile, di placidamente inquieto: mi domandai se fosse fuggita di casa, ma scartai immediatamente il pensiero notando l’assenza quasi totale di ansia nel suo garbato modo di fare. Passai in rassegna un paio di altre opzioni, ma non trovai quella giusta: di certo non stava raggiungendo la città per cercare un lavoro perché mancavano pochi minuti al tramonto e la ragazza non portava con sé un bagaglio, e per lo stesso motivo non stava andando all’università. Eliminai dalla lista dei potenziali motivi del viaggio anche l’appuntamento galante: non s’era premurata di truccarsi con la preoccupazione che accompagna le prime volte, né indossava vestiti particolarmente adatti per una serata in città.
Le sue parole interruppero la fila dei miei pensieri. “Sa quanto ci mette per arrivare a Collevecchio?”. Non lo sapevo: non ero mai stato da quelle parti. “No, mi spiace: scendo a Ravitolo, fra due fermate”. Sorrisi, galante: “Per quanto mi dispiaccia lasciare una compagnia così piacevole”. La ragazza ricambiò il mio sorriso con un filo di complicità, ma fu solo un lampo: pochi istanti dopo aveva già abbassato lo sguardo, non so se per farsi inseguire o per improvvisa vergogna. La incalzai: “Studi?”. La ragazza rispose incerta che sì, studiava filosofia all’Università di Bologna. “Ma mi sono iscritta quest’anno”, aggiunse come per sottolineare che la sua età era decisamente fuori dalla mia portata. Provai a fare il simpatico: “Un paio di settimane e sei già in vacanza?”, domandai con quello che a me sembrò uno sguardo sufficientemente ammiccante.
La ragazza non ebbe il tempo di rispondermi. “Biglietti, prego”, intimò come d’ordinanza il controllore. Mostrai il mio tagliando al nuovo venuto, mentre la mia compagna di viaggio frugava nella borsa alla ricerca del medesimo oggetto. Quando l’ebbe trovato e consegnato, la ragazza poté rispondere alla mia domanda: “No, non sono in vacanza – riprese – Sono stata richiamata in paese”. Non aggiunse altro: voleva forse lasciare un velo di mistero su quel che la riguardava, oppure semplicemente m’ero addentrato in una sfera troppo privata perché potessi ottenere risposta. Glissai: “Sei di Collevecchio?”. La ragazza sembrò infastidita dalle mie domande, ma decise ugualmente di rispondermi mentre il treno fischiava per entrare nella stazione di Boghinelle. “No, abito a San Gandolfo”. La sua stazione di partenza: Collevecchio era dunque un punto d’arrivo, pensai ascoltando il sibilo che accompagnava la frenata.
Forse per interrompere la conversazione, la ragazza si portò al finestrino che si trovava al mio fianco. Quando la gonna sfiorò le mie ginocchia provai un brivido: il suo corpo emanava un odore di freschezza che risvegliava i miei più bassi istinti, ed era davvero una creatura incantevole oltre ogni immaginazione. Del resto c’era un altro finestrino più vicino al suo posto: perché aveva scelto di affacciarsi a così pochi centimetri da me, se non per favorire un mio approccio? Non feci in tempo ad elaborare un piano: un agente, salito chissà quando a bordo e soprattutto entrato chissà da quanto nello scompartimento, ci interruppe per chiederci i documenti. La ragazza estrasse il suo con più prontezza di quanto avesse fatto col biglietto e poi osservò la faccia del poliziotto corrucciarsi: “Mi controlli Garbin Veronica?”, chiese l’agente a un immaginabile interlocutore dall’altro lato della radio.
Fu un istante. Qualcosa di metallico mi raggiunse la gola. “È carica - disse la ragazza con voce calma – e se fossi in te lascerei scendere me e il signore”. Un oggetto di vaga forma cilindrica mi impediva di respirare. “Quando saremo usciti dalla stazione potrai fare quel che vuoi”. L’agente mi guardò negli occhi. Poi non ricordo altro, signor procuratore.

martedì 12 ottobre 2010

L'uomo che accendeva i lampioni

La carrozza scivolò su boulevard Saint-Michel quasi senza fare rumore. Poco prima d'incrociare rue Danton ed entrare nella piazza, dove la strada s'allarga e si fa quasi ponte, i cavalli nitrirono e s'arrestarono. Con non poca fatica scese un omino buffo, tutto agghindato in un'uniforme troppo corta, eppure troppo severa per i tempi: era, quell'uomo, quasi sospetto, ma per via della scarsa prestanza fisica e della limitata altezza non poteva sembrare pericoloso a un uomo in salute. Lo guardai accostarsi quasi furtivo a un angolo, portare un bastone al lampione e compiere la sua magia: in un istante mille lucciole si radunarono, mille trote d'argento baluginarono nella Senna e la puntellarono, insomma in un istante la notte fu vinta dal giorno.
Parigi era bella, Dio com'era bella: le chimere alate che affiancavano la fontana sembrarono cominciare solo allora a sputare acqua, Prudenza, Forza, Temperanza e Giustizia s'inorgoglirono e San Michele, quasi scoperto, schiacciò il diavolo con ogni sua forza, mentre poco lontano il fiume si muoveva con calma, come chi sa che sopravvivrà ad ogni mutamento degli uomini. La carrozza, che da principio avevo ignorato, era a tutti gli effetti una vettura di lusso: rivestimenti di panno adornavano lo sportello lasciato aperto dal passeggero, e all'interno comodi sedili erano pronti ad ospitarlo. Non gli diedi il tempo.
“Salve, buon uomo”, gli dissi, e quello fu colto da sorpresa: non s'era accorto d'essere spiato, non sapeva di condividere quella scena con un altro spettatore. Era, a tutti gli effetti, un omino buffo come m'era sembrato all'inizio: avvicinandomi notai uno sguardo spento, incorniciato da un paio di baffi tozzi, quasi posticci, decisamente d'antan. Come il suo lavoro: “M'ero sempre chiesto chi accendesse i lampioni – proseguii – ma non pensavo che un uomo girasse per tutta Parigi per darci la luce”. Sorrisi: “Credevo, in tutta sincerità, che questo lavoro si fosse estinto, che qualcuno potesse, con chissà quale diavoleria, accendere con un solo gesto della mano tutti i lampioni della città, da Vincennes al Bois de Boulogne”.
L'omino mi squadrò. Si fermò a riflettere, e quando parlò la sua voce mi stupì per intensità e colore: “Non sono solo, mi sembra chiaro – esordì quasi per farsi forza – né mai sarò antiquato. Parigi, mio signore, conta oltre...”. Si fermò. Inventò un numero: “Oltre novemila lampioni”. I baffi si mossero, soddisfatti: gli doveva essere sembrato un numero congruo per una città così grande. “Io – aggiunse – ne gestisco solo qualche decina, tutti concentrati lungo il boulevard Saint-Michel e nelle traverse, né mai un sol uomo potrebbe accenderli tutti”. Mi mostrò l'arnese che reggeva nella mano destra: “Vedete quest'asta? – proseguì – Il gas viene liberato con una semplice pressione, ma poi serve quest'innesco per scatenare la scintilla che gli dà fuoco. Solo così può arrivare la luce”. Detto ciò, l'omino sembrò colto da un sussulto imprevisto, e smessa la cordialità si fece conquistare da un guizzo a metà fra il sussiego e la volgarità: “Eppure, sebbene mi siano stati affidati così pochi lampioni, è sempre mia cura non farmi notare, e sono affranto d'essermi fatto scoprire da voi. Io – disse – sono la luce, io sono colui che vince il tempo e rende Parigi vivibile dopo il tramonto. Io, dunque, non devo esser visto: come accade per colui che manovra il Carro del Sole, non è degli umani la mia sostanza, ma del Cielo”. Si animò: “Se io domani non uscissi di casa cosa ne sarebbe di questo quartiere? Cosa sarebbe delle botteghe d'artista, dei caffé e dei musicisti? Cosa sarebbe degli innamorati che si tengono per mano lungo la Senna, cosa dei ladri e delle puttane? Non sarebbe possibile vederli: come me, nelle tenebre, non esisterebbero”.
L'uomo andò via in silenzio, senza salutare, e in pochi secondi la carrozza sembrò essere inghiottita da quai Saint-Michel. La Senna, lenta, lo seguì per un pezzo.

Alla mia nuova lettrice silenziosa, che probabilmente vorrebbe che le dedicassi un racconto perché non sa che ogni storia che scrivo è dedicata a lei.

lunedì 11 ottobre 2010

I racconti del simenzaro

Arrivava di mattina, e quando il carretto inforcava la strada che dalla piazza portava alla chiesa tutt'intorno era sempre festa. I ragazzini lo inseguivano, sembravano quasi tirargli la coda, e tutta la via era un fiume di voci: un pugno di calia una lira, un cartoccio di luppoli dieci, cento grammi di simenza cinque lire, e allora volavano delfini e timoni, volavano spighe di grano e bilance della giustizia, volavano monete logore con le arance e la scritta “Italia”. Non per mangiare, attenzione: lo pagavamo solo per agguantarlo, in qualche modo ricompensarlo di una giornata di fatiche e trattenerlo lì, sul bordo della strada, dove dopo qualche minuto lo zu Vasile si accovacciava. A quel punto, quando tutti i bambini avevano preso qualcosa da sgranocchiare, iniziava la festa: il simenzaro chetava il mulo, si pettinava la barba e riempiva la strada con la sua voce. Una voce roca, graffiata dagli anni, ma capace di inventare come mai più avremmo visto fare.
Tutte le storie cominciavano allo stesso modo: “C'era una volta”. Ogni volta, però, c'era qualcosa di diverso: un giorno un lupo da sfidare, un altro un mostro o un drago, il giorno successivo una fanciulla da salvare o un fiume pronto a trasformarsi in farfalla. Quel giorno, però, lo zu Vasile era più schivo, la sua voce sembrava volere scavare nella roccia e poi scappare, scappare lontano da noi ragazzini che niente potevamo sapere. Persino il mulo pareva più stanco: le orecchie calate, lo sbuffo pronto, non si fermò come ogni volta a strappare le spighe di grano da terra, ma si limitò a restare lì, dietro il suo padrone, pronto a scalciare a ritmo con l'apparizione di fucili e cavalli. Solo così la storia cominciò: “C'era una volta un venditore di simenza che per campare viaggiava con il suo mulo. Ogni giorno la stessa strada: da Fòllico a Sendimàra, da lì alla Valle del Midio e poi su, verso la montagna, fino a Murino e Jòzzina, per poi tornare a casa. Il viaggio durava un giorno intero, e lungo la strada il simenzaro si fermava sempre: ascoltava le storie della valle e della montagna, quelle del fiume Midio e delle case di Sendimàra, e ogni volta, a ogni tappa, riferiva quelle fiabe meravigliose a chi voleva ascoltarle nel paese successivo. Un giorno, però, sulla strada che dal Midio portava a Murino gli si parò davanti un esercito di cavalli: 'Fermo là, simenzaro', disse il cavaliere più anziano, e il simenzaro si fermò. L'uomo discese da cavallo, e con un fucile nella mano destra si accostò a lui: 'Ascoltare – disse – è un privilegio, e ancor di più lo è raccontare quel che si è sentito. Un privilegio che va conquistato, che non si può concedere a tutti. Oggi è il tuo giorno, simenzaro: raccontaci quel che hai visto a Sendimàra, chi hai incontrato per le strade, chi ha mangiato la tua calia, e se il racconto ci piacerà ti faremo la concessione di farti andare avanti per la tua strada'. Il simenzaro s'impaurì, e cominciò a raccontare: 'A Sendimàra la strada era piena di gendarmi, ogni passaggio era bloccato. Cercavano, essi dissero, un uomo crudele, un uomo alla guida di cento cavalieri e cento fucili, che in compagnia del suo esercito di briganti aveva ucciso uno di loro, e che poi, con i suoi uomini, era fuggito verso la valle'. Il brigante sembrò ascoltarlo con interesse: 'La tua storia – aggiunse d'un tratto – è una storia interessante, ma non è vera'. Fece un cenno col fucile: lo alzò verso il cielo, e all'improvviso tutti e cento i cavalli si imbizzarrirono. Era il segnale, intuì il simenzaro: una pioggia di piombo raggiunse il venditore ambulante, e in un istante lui e il suo mulo giacquero a terra. La strada si riempì di simenza, che si disperse nel rosso del sangue. 'L'uomo del racconto – commentò il brigante – non è per nulla crudele'”. Lo zu Vasile sbuffò la storia tutta d'un fiato. Poi si rialzò, scacciò la polvere dai pantaloni e risalì sul mulo. Con il suo carretto imboccò la strada che portava a Jòzzina e sparì contro il tramonto. Il cielo, lentamente, si colorava della tinta del sangue.

ps Silas, questa settimana, è abbastanza incasinato, e forse non potrà garantire un racconto al giorno. In compenso, gli amici di SenzaVoglia hanno pubblicato una sua storia nuova di zecca: se vi va di dare un'occhiata gli farà sicuramente piacere.

venerdì 8 ottobre 2010

Domicile conjugal

Scivola. Mi si strofina addosso, soave e sensuale, lieve come solo ciò che non ha peso può essere, poi va via. Mi lascia addosso solo il suo odore, la nostalgia di lei. Si trasforma in quel che è sempre stata e sempre sarà, solo parole, solo un ricordo che mi lascia incompleta, inutile: so bene che senza lei non servirei più a nulla, che proprio nulla sono, in fondo, se non una compagnia fugace, la consolazione di una sera triste o il riposo del giusto dopo una giornata di lavoro. Ma è il mio destino, è la mia gioia lasciarla: è segno che presto toccherà a me, che ancora una volta sarò vita, sogni, sollievo.
E infatti, subito dopo, arriva lui: pesante e sudato, mi salta addosso in un fiat, poi mi controlla e mi blocca. Mi prende, mi possiede, quasi mi stropiccia. Mi stringe, e io sono sua: si immerge in me, con me civetta e da me si lascia sedurre, abbandona i suoi sensi a quel che ho da fargli vivere, prima di dimenticare quasi che io esista. È un volo, un'illusione, una folle ebbrezza, e io mi piego alla sua volontà: in un istante mi rovescia, mi scopre in ogni mio angolo, mi perlustra e m'ingoia. Servo a questo, a nient'altro: a placare le sue passioni, ad evocarne di nuove, ad accendere le sue fantasie più esotiche e realizzarle in un istante. Velocemente mi succhia, e poi, mai sazio, torna a me, mi ribalta ancora e ricomincia da capo, da un punto qualsiasi del nostro amore.
Dal basso lo guardo: so leggere i suoi occhi, io, so interpretarne i guizzi. Mi struggo, al solo pensare che presto o tardi andrà via, che un'altra come me sarà fra le sue mani, nel posto che so dover essere mio. Mi chiedo perché passi oltre, perché mi abbandoni: sono più bella, più vivace, più fantasiosa. Sono esperta: so tutto ciò che vuole, cosa si aspetta, e tutto gli do. Solo una cosa non so fare: tenerlo stretto a me, evitare che il suo corpo scorra, si stacchi e mi lasci.
Così, com'è arrivato, va via. È sempre troppo presto, quando succede: va da quell'altra, l'infido, e io resto lì, sperando che torni. Solo di rado accade, quasi mai. Ma una cosa so: non ce n'è un'altra come me. Unica. Come ogni pagina.

mercoledì 6 ottobre 2010

Il traditore

- Ha parlato.
Il maresciallo Pellitteri guardò il telefono, lo sganciò e lo rimise a posto, come se volesse controllare di non essere spiato. Inutil precauzione, si direbbe: sarebbe bastato un millimetro di circuiti elettrici all'interno della cornetta per captare ogni suo sospiro, sarebbe bastata una cimice nel cassetto o chissà dove.
- Dobbiamo spegnere la luce.
Era soddisfatto, Pellitteri: gli piaceva sentirsi un geimsbond, un agente segreto che ordina omicidi con il suo linguaggio cifrato, impossibile da penetrare. “Spegniamo la luce”: uccidiamolo. Se anche ci fosse stato qualcuno in ascolto, chi avrebbe potuto accusarlo di essere il mandante di un omicidio? In effetti la luce si spense. La stanza era illuminata dal computer: nella penombra si intravedevano la lampada da tavolo, una spillatrice e una pila di fogli. Più in là, il portapenne ospitava una bic nera, un paio di biglietti da visita, una chiavetta per il caffé e sei monete da due centesimi. Monete inutili, monete raccolte nel portapenne per liberare le tasche.
Simonetti annuiva. Non sembrava un mafioso, almeno non uno di quelli che si nascondono in casolari dispersi nelle campagne, soli con qualche etto di ricotta e un po' di cicoria: completo blu d'ordinanza, camicia bianca, cravatta senza svolazzi e mani curatissime, a chi fosse entrato nella stanza sarebbe sembrato un distinto signore che ascoltava le parole del maresciallo senza parlare. Non era un mafioso, in effetti: non un'inchiesta l'aveva mai sfiorato, non il minimo sospetto aveva macchiato la sua reputazione, e infatti Simonetti trascorreva le sue serate in mezzo alla crema della società, ai ricevimenti con il prefetto, alle cene con il pm De Luca, al matrimonio dell'onorevole Paradiso addirittura come testimone dello sposo. Si guardò le mani: sull'indice una piccola ferita testimoniava un taglio di poco conto, qualche goccia di sangue versato mentre un'immagine sacra bruciava. In sottofondo un mantra: “Giuro di essere fedele ai miei fratelli, di non tradirli mai, di aiutarli sempre, e se così non fosse io possa bruciare e disperdermi come si disperde questa immagine che si consuma in cenere”.
Una stretta di mano sancì l'accordo: Simonetti avrebbe informato la famiglia di Santa Maria di Gesù, che a Rieti aveva una decina operativa e rodatissima. Il maresciallo Pellitteri si alzò.
- Salutàmu allo zio Ciccio.

De Luca stava rileggendo la richiesta al gip. “Ritiene questo Ufficio, altresì, che gli elementi sopra indicati in merito al delitto di cui all’art. 12 quinquies legge 7 agosto 1992 nr. 356, aggravato dall'art. 7 del d.l. 152/91, integrano i presupposti di legge ex art. 321 c.p.p., in quanto la libera disponibilità dei beni di seguito specificati, può aggravare o protrarre le conseguenze del reato stesso, ovvero agevolare la commissione di altri reati per i motivi sopra specificati, anche in considerazione del fatto che gli indagati non risultano, allo stato, sottoposti a misure cautelari personali e che, pertanto, potrebbero reiterare nelle condotte sopra richiamate”. Un rumore lo richiamò all'attenzione: “Avanti”, disse quasi spossato.
Simonetti aprì la porta. Fece un passo avanti, la richiuse con calma. Scelse la via più pomposa.
- Mi chiamo Simonetti Salvatore, nato a Palermo il 12 aprile 1947. Desidero collaborare con l'Autorità giudiziaria.
Era ufficialmente un infame. Un traditore. Un dolore gli trafisse la mano.

martedì 5 ottobre 2010

La prima notte di nozze

"Il padre dei racconti", come i più attenti avranno notato, è un progetto collaborativo: non solo Silas scriverà su queste pagine. Oggi è la volta di Usagi.

Risate fragorose provenivano fuori dalla finestra. Alcune voci sovrastavano le altre. Battute sconce, allusive ed un altro scroscio di risate ad accompagnarle.
Solo voci maschili.
Lei stava seduta sul bordo del letto, lo sguardo fisso sulla porta con la paura che si sarebbe aperta da un momento all’altro per fare entrare lui. Le orecchie erano attente ad ogni minima parola, fruscìo o rumore.
La stanza era semibuia. Il sole stava ormai tramontando.
La finestra che dava sul cortile era spalancata. Le risate provenivano dabbasso. Non aveva il coraggio di alzarsi per andare a guardare quegli uomini, ubriachi, che ridevano di lei e facevano allusioni su quello che a breve sarebbe avvenuto nella camera spoglia in cui si trovava.
Mosse gli occhi, si guardò intorno. Una passa panca, una sedia, un piccolo letto ricoperto di paglia, un catino ed una brocca ricolma d’acqua. Questo era il misero arredamento della camera del padrone della bottega.
Chiuse gli occhi per fermare le lacrime.
Un mese prima suo padre era accorso festante, entrando in casa senza badare ai convenevoli. Lei stava cucendo accanto alla madre. Il suo genitore cominciò a gridare: “ha acconsentito, ha acconsento!”.
Sua madre si portò una mano alla bocca per reprimere un gridolino di gioia.
Lei sapeva il significato di quelle parole. Le si strinse lo stomaco. Aveva tanto pregato perché non fossero mai pronunciate. Perché non era stata ascoltata?
Calde lacrime le stavano salendo agli occhi, ma lei decise di non piangere, di non dire nulla.
Nulla disse.
Adesso si trovava in quella camera da letto. Si era sposata quel pomeriggio. Era stata preparata per l’occasione. Una candita camicia di lino le cadeva morbida sul corpo giovane e generoso.
Mai si era soffermata a guardare il proprio corpo. Abbassò lo sguardo. Perché avrebbe dovuto concedersi a quell’uomo? Era necessario?
Le serve, sua madre e sua sorella l’aveva istruita a dovere. Non essere ritrosa, non essere timida, sorridi, sii generosa, sii ubbidiente, non rifiutarti, non protestare.
Che senso avevano quelle parole?
L’unica cosa che aveva capito e che la terrorizzava e disgustava in egual misura era il fatto che quel vecchio bavoso presto l’avrebbe spogliata e l’avrebbe toccata.
Il pensiero le fece salire un conato di vomito.
Come potevano essere così felici, i suoi genitori, di averla data in sposa ad un vecchio decrepito? Ad un uomo dallo sguardo duro, dalle mani callose e dalla pelle  raggrinzita?
Un vecchio ubriacone e bavoso. Così aveva sentito definirlo da chi lo conosceva bene.
Il suo pensiero andò alla schiena soda e muscolosa dell’apprendista falegname di suo padre. Lo aveva scorto una volta, attraverso una fessura, mentre si sciacquava il viso. Nudo al di sopra della cintola.
Da allora desiderò accarezzare quella schiena.
Invece? Invece stava seduta li, sul bordo del letto ad aspettare suo marito. Un uomo benestante, un uomo che non le avrebbe mai fatto patire la fame, ma vecchio e disgustoso.
Guardò fuori dalla finestra.
Avrebbe potuto fuggire.
L’idea della fuga la fece sussultare. Poteva essere una buona idea. Fissò il cielo che scorgeva dalla piccola finestra.
Cosa c’era al di la delle mura  che circondavano la città?
Cosa avrebbe trovato?
Avrebbe potuto aprire la porta, scendere le scale e fuggire lontana da quel vecchio.
Le sue gambe non si mossero.
Continuava a stare seduta sul bordo del letto.
Il suo pensiero a quello che a breve sarebbe accaduto. A quell’uomo che l’avrebbe spogliata e toccata con le mani ruvide e callose.
Un altro conato di vomito.
Guardò nuovamente fuori dalla finestra. Il sole era tramontato.
Avrebbe potuto fuggire con il favore delle tenebre.
Continuava a non muoversi. Il suo respiro accelerò. Il cuore sembrava dovesse esploderle nel petto. Le mani le sudavano. Ma non si muoveva.
Risate dietro la porta. Si spalancò.
Il suo vecchio marito stava sulla soglia, le lanciò una sguardo lascivo e sbatté l’uscio alle sue spalle.
Ora erano soli nella stanza spoglia e quasi buia. Il vecchio tossì, facendo salire il catarro su per la gola per poi sputarlo ai piedi del letto. Tossì ancora. Passò la mano sotto il naso e si pulì il dorso sul bordo della calzamaglia.
Le si avvicinò, la guardò ancora una volta con desiderio, ma crollò sul letto accanto a lei.
Lei non si mosse, lui cominciò a russare sonoramente.
Si girò a guardare il corpo inerte del marito disteso sul pagliericcio. Una piccola bava gli scendeva dalla bocca aperta. Quell’uomo emanava un forte odore di sudore mischiato con il vino.
Un altro conato di vomito.
Si girò verso la finestra. Poteva fuggire. Cosa l’attendeva fuori dalle mura della città? Un fugace pensiero le ricordò la schiena dell’apprendista.
Tornò a guardare il marito.
Seduta sul bordo del letto, chiuse gli occhi e liberò le lacrime.
Cominciò a pregare di morire quella stessa notte. Sarebbe stata ascoltata?

lunedì 4 ottobre 2010

Baggio e la fragola

Quel giorno me lo ricordo perché la scuola era finita e il mare era calmo e lungo lungo e l’orizzonte manco si vedeva, perché di pomeriggio avevo mangiato un gelato gusto puffo e io non lo sapevo che con i puffi ci facessero i gelati e perché i miei genitori erano partiti e avevo invitato tutti a casa mia.
Erano presenti:
Gigi, campione cittadino di sputo in lungo e tre volte recordman del mondo di corsa in via Piave;
Ugo, figlio del proprietario del bar Collica che mi faceva lo sconto sui gelati e per l’appunto aveva inventato il gusto puffo;
Andrea, campione di apnea che io tenevo sott’acqua e cronometravo e una volta era riuscito a stare così 4 minuti e 32 secondi;
Giuseppe Caccetta detto “Butragueño”, calciatore di altissimo livello che una volta aveva fatto anche un provino per il Lecce e che sicuramente prima o poi avrebbe giocato in serie A;
Giuseppe Livolsi, poeta decadente e magrolino che a scuola si metteva sempre a piangere e non si vergognava nonostante avesse ormai quattordici anni;
Filippo, impennatore invidiatissimo e specialista nelle modifiche del motorino;
Anna, che del calcio non gliene fregava niente ma era sempre lì con noi perché in fondo sperava che Gigi si accorgesse di lei;
George, palla di pelo nero ammassata vagamente a forma di gatto e degradata al ruolo del tifoso avversario per un’omonimia sospetta;
e naturalmente io, mangiatore di peperoncini professionista e organizzatore dell’evento.

Durante la partita si manifestarono i seguenti fenomeni:
sei maldestri tentativi di Anna di farsi notare da Gigi e forse un poco toccare;
un’irruzione della signora Enza, quella del secondo piano, che aveva pensato di venire a chiedere se avessimo bisogno di qualcosa proprio nel momento del gol di Amunike, con successivo allontanamento della vicina fra gli improperi degli amici;
una crisi di pianto di Giuseppe Livolsi per l’imminente eliminazione dell’Italia dal mondiale;
due tentativi di fuga del gatto George, curiosamente coincidenti con il gol della Nigeria e con l’espulsione di Zola, e altrettante catture del fuggitivo;
una gara di sputi in giardino fra il primo e il secondo tempo, con contestatissima vittoria di Ugo e conseguente cessione della cintura di campione cittadino, simboleggiata provvisoriamente da un pezzo di spago che avevo trovato nel ripostiglio;
tre birre rovesciate sul tappeto del soggiorno, due tentativi di rimediare al danno e una resa incondizionata al cazziatone di mia madre che non doveva nemmeno sapere che i miei amici erano venuti a vedere la partita ma ormai tanto avrebbe ascoltato un’approfondita testimonianza della signora Enza;
ma soprattutto a un certo punto accadde che, quando la partita sembrava finita e il mondiale pure, Mussi entrò in area dalla destra, saltò un difensore alla meno peggio e la passò a Roberto Baggio, che, io lo so perché lo notai in diretta, al centro dell’area caricò il destro e guardò un punto nel cielo e poi la mise lì, vicino al palo, alle spalle di Rufai.

A quel punto la stanza si trasformò in una bolgia: incominciammo a cantare e a sognare di vincere il mondiale, a pensare che un giorno anche Giuseppe Butragueño l’avrebbe vinto, a dire che non era vero che Roberto Baggio sarebbe stato meglio lasciarlo a casa, e intanto ci abbracciavamo tutti e bevevamo e saltavamo e speravamo. Anna cercò di approfittare della confusione per saltare addosso a Gigi, che però a quanto pare non era interessato e reagì spostandosi e facendola cadere a terra, e allora tutti scoppiammo a ridere e Anna diventò rossa rossa e io pensai che in fondo Anna era carina e non era giusto per niente. George, invece, fu più fortunato: mentre quasi nessuno badava a lui fece uno scatto da centometrista, eluse la presa di Andrea e andò a infilarsi sotto un letto, dal quale uscì miagolando intorno alle 3 del mattino, quando decise che la notte era finita. Povero George: il pareggio dell’Italia, in fondo, doveva essere stato una grande delusione per lui.
Insomma, la partita scorreva veloce, e quando sembrava che dovessero arrivare i rigori come contro l’Argentina quattro anni prima l’altro Baggio s’inventò un pallonetto e fece arrivare la palla a Benarrivo vicino alla porta, e quello si buttò per terra lungo lungo e l’arbitro che sembrava ci odiasse decise di fischiare il rigore. Roberto Baggio segnò, e fu festa per tutti: Filippo espulse tutte le bollicine della birra in un rutto lunghissimo, Giuseppe Livolsi scoppiò a piangere per la felicità, Ugo agitò la cintura di campione cittadino di sputo come un lazo, Giuseppe Butragueño iniziò a palleggiare con una lattina di birra vuota e io abbracciai Gigi ma mi ritrovai in mezzo fra lui e Anna.
Anna arrossì, perché Anna questo sapeva fare. Poi, quando se ne erano andati tutti e anche lei era sulla porta, mi chiese scusa, e io le dissi che in fondo non ci faceva niente, e che non doveva pensarci, che Gigi era fatto così ma lei non doveva stare giù perché era una ragazza molto carina, e giù una montagna di parole e di rassicurazioni e di battute idiote. Poi l’abbracciai, perché non volevo che avesse quella faccia triste.
E insomma, quel giorno me lo ricordo perché la scuola era finita e il mare era calmo e lungo lungo e l’orizzonte manco si vedeva, perché di pomeriggio avevo mangiato un gelato gusto puffo e io non lo sapevo che con i puffi ci facessero i gelati, perché i miei genitori erano partiti e avevo invitato tutti a casa mia e perché le labbra di Anna sapevano di birra, di pizza e di caramella alla fragola. E a me la fragola mica piaceva.

venerdì 1 ottobre 2010

Storia di un impiegato

Alle 8 il cartellino. Clic, clac. Presenza registrata. Di corsa le scale, di corsa al terzo piano, all'ufficio 10/H, accanto alla signorina Manasseri che me la scoperei ma manco mi guarda. Lavoro regolare, niente sussulti: arrivano le pratiche, le leggo, le firmo e le timbro. A volte un po' di lavoro in più, ma cascasse il mondo alle 12,30 c'è pausa pranzo. Il pomeriggio è più facile: clic, clac alle 16, processo inverso alle 19,30. Mi pagano bene, tutto sommato: 1.800 euro per un lavoro che in fondo saprebbe fare anche una scimmia, una scorsa al foglio e poi giù, la firma, “intervento autorizzato”. A volte neanche lo guardo, quel foglio: i miei colleghi sono personcine a modo, mica mi fanno arrivare pratiche sbagliate, mica mi tendono trappole. Certo, bisognerebbe insegnare alle scimmie come firmare, ma sfido: una volta, su Youtube, ne ho vista una che palleggiava meglio di Maradona. Ora dico: se una scimmia riesce a fare un lavoro da dieci milioni di euro all'anno perché non dovrebbe saper fare il mio?
La sera, poi, mi sento un re, e lì le scimmie non possono battermi: appena uscito dall'ufficio c'è l'aperitivo con gli amici, un aperol spritz prima di cena, le arachidi e l'oliva, poi il ritorno a casa. Mia moglie mi aspetta, e cucina da dio: lasagne il lunedì, polpette al sugo il martedì, il mercoledì spaghetti al pesto o all'amatriciana, il giovedì un'insalata perché lei prima è andata in palestra, il venerdì pesce, il sabato una pizza fuori e la domenica il pollo. Dopo cena, finalmente, si scopa: io e lei abbiamo raggiunto una confidenza sessuale che non credevo possibile, e ogni sera, dico ogni sera, finisce che lei si mette a urlare e dio com'è bello quando lei urla. Mi dà pugni sulla schiena, a volte persino mi graffia, e io vengo, così, in un bagno di sudore.
Ora, dico, è questo che mi piace: le certezze. Vi faccio un esempio: come vi sentireste voi se non sapeste che la mattina, a colazione, berrete con assoluta certezza una tazza di caffelatte con tre biscotti alla cioccolata? Come vi sentireste se non poteste prevedere che la macchina ha bisogno di dieci euro di benzina alla settimana, che le scale dell'ufficio hanno ventuno scalini per rampa e non uno di più, che a pranzo il tramezzino al tonno costa due euro e sessanta?

Per questo oggi è una giornata storta. Sono arrivato al bar che sta nel palazzo di fronte all'ufficio e la signorina Carmen, che in genere mi serve il panino con un sorriso, mi ha detto che no, non c'erano più tramezzini al tonno. Non c'erano proprio tramezzini, ecco tutto: un tizio, verso mezzogiorno, era arrivato al bar e ne aveva presi dodici da portar via. E dico, Cristo, nessuno ha pensato che i tramezzini dovessero essere sostituiti. Nessuno ha pensato che i clienti potessero aver bisogno di certezze. Nessuno ha pensato che così qualcuno avrebbe potuto decidere di cambiare bar.

Per questo sono salito qui sopra. Dalla terrazza dell'ufficio tutto è bello: le persone, laggiù, sembrano piccolissime, insignificanti come sempre ma questa volta inoffensive. Non come Carmen: mi guarda, mi chiede di posare la pistola, m'implora di slegarla, mi spiega che va tutto bene. Mi odia, e però vuole rassicurarmi. Non è così, non potrà mai più essere così. Nulla potrà andare più bene. Nulla. Volerai con me, dolce Carmen. Con un sorriso, come ogni giorno.