giovedì 30 settembre 2010

L'assedio

“Tira”. Mani su mani scivolarono sulla gomena. “Tira”. La nave si spostò di qualche metro. “Tira”. S'assestò, finalmente, al riparo dal mare in tempesta.
Di fronte a noi si apriva una radura. Vasta, sconsolata, ornata qua e là di qualche felce, fungeva da premessa tetra a mura inesplorabili, ferite a tratti da una spruzzata di finestre e sormontate da una merlatura armata. Procedemmo in colonna verso le truppe di terra: ci attendeva la guerra, il sacrificio, forse una vittoria, certamente una strage. Troppo poco: per la gloria, forse, avremmo dovuto esser fieri? Per quel salario da fame che avrebbero pagato alle nostre vedove, per l'ebbrezza della conquista, il vanto d'essere eroi?
Le mura. Alte, violente, inconquistabili. Vicine, eppure oltre ogni immaginazione, ci dominavano. Mi evocavano le sensazioni del giorno prima: pochi di noi, prima d'allora, avevano visto il mare aperto, quella massa ostile e ululante che ci separava dall'approdo, e dal mare, così, fummo sconfitti. Lunghe teorie di soldati s'avvicinavano ai fianchi della nave, pallidi in volto, presaghi forse di una sconfitta. In che condizioni avremmo affrontato il nemico? Avevamo poco cibo, e quel poco che mangiavamo dopo alcuni istanti appena era già finito in mare, strappato al nostro stomaco dalle intemperanze delle onde.
Ci ricongiungemmo agli altri ch'era già il tramonto. Nell'accampamento v'era un'atmosfera ancor più tetra di quella che avevo visto il giorno precedente: i miei commilitoni raccontavano di donne bellissime celate dietro quelle mura, eppure nessuno, fra loro, aveva la certezza che quelle gioie sarebbero toccate a lui. Le danze, l'amore, le ricchezze: si sogna sempre, prima di una battaglia, eppure l'atteggiamento spaccone di noi soldati era mitigato da oscuri presentimenti. Forse le nuvole: dense, scure, cariche di pioggia e di tuoni s'avvicinavano a noi, a tratti inghiottivano le nostre certezze.
E poi quell'uomo. Da una delle finestre più alte ci scrutava, ci sorvegliava, invocava con evidenza le sue maledizioni su di noi. Certo non era una sentinella: vestito di nero, per quel che potevo vedere, non aveva nessuna arma. Si esponeva, certo, ma non temeva i nostri arcieri: sembrava che fosse lui a comandare le nuvole, che potesse governare i nostri destini col solo cenno d'una mano. Lo osservai a lungo, temendo che si risolvesse infine a provocare la catastrofe. Prima che fosse buio si ritirò, lasciandoci da soli con le nostre paure. Senza un capro espiatorio, un corvo a cui dare la colpa. Soli, ad attendere la disfatta.

A Vaniglia, che mi chiedeva l'altro versante della storia precedente.

mercoledì 29 settembre 2010

Il sacrificio

Arrivavano a frotte. Con le divise e con gli elmi, con le spade e i forconi. Accerchiavano la rocca da sinistra, da destra, dal mare e dalla terra. L'araldo chiamò la carica, e in un attimo fu festa: mille formiche invasero la piana, ne esplorarono i sentieri, ne stuprarono le felci. La profezia s'era compiuta: la luna piena avrebbe portato disgrazie, come dicevano i vecchi, la luna piena avrebbe portato disgrazie. Non ci sarebbero stati raccolti, feste di paese, fanciulle ebbre a danzare in mezzo alla polvere. Non ci sarebbe stato mai più Carnevale, mai più Pasqua né vendemmie.
Mi ritirai nelle mie stanze a interrogare le viscere di un maiale. Il sangue che ne sgorgava a fiotti mi evocò il destino della mia terra: sgozzamenti, violenze, saccheggi. I barbari fra noi, i conquistatori. Non mi lasciai ingannare: il porco sgozzato sanguina sempre, sanguina persino nei giorni di festa. Sanguina senza un motivo, sanguina perché è vivo. Non era scienza, il suo sangue: era credenza, segnale infausto, suggestione malevola. Estrassi il fegato ed esaminai con cura la linea del Cardo: procedeva nervosa, a strappi, s'inceppava e riprendeva. Era una linea interrotta, segnata da Marte. Il nostro destino era dominato da lui.
Il dio della guerra. Il dio del tuono. Il dio della fertilità, però. S'invocava con tutta evidenza un sacrificio a lui: un sacrificio di sangue, un sacrificio estremo, un ultimo tentativo di salvare le nostre anime dall'ira degli dei. Chiesi che un toro fosse condotto nella piazza d'armi, perché il suo sangue sgorgasse e purificasse i nostri soldati, ma non sapevo se ciò fosse possibile: v'era un toro, nella rocca? V'erano bestie capaci di salvarci?
Venne da me un servo. Mi annunciò che il sacrificio era possibile, che l'animale sarebbe stato condotto a noi nel volgere di qualche istante. Aspettai alla finestra: le truppe ostili, intanto, s'erano accampate a ridosso della rocca, la controllavano, ne sorvegliavano i movimenti. Temevano una reazione, ma non potevano capire. Barbari senza dio, ecco cos'erano: barbari che non avrebbero mai compreso l'arte divinatoria, che non avrebbero mai intuito il potere degli dei rovesciato sul loro esercito. Oscure nuvole s'addensavano sulle truppe. Il dio del tuono, presto, si sarebbe manifestato.
Mi chiamarono per il sacrificio. Gli uomini, ai margini della larga spianata, s'accalcavano desiderosi di lotta, e lotta fu: il toro, intuendo la propria sorte, combatté fino all'estremo, ma infine fu domato e ucciso. Un coltello tracciò la linea del collo, lo possedette, e la povera bestia reagì con un ultimo lamento. Crollò a terra, nel suo stesso sangue.

La notte trascorse tranquilla. Le sentinelle vigilavano che gli invasori non facessero una sola mossa, e così fu fino al mattino. Quando il sole fu condotto sopra il limite dell'orizzonte un temporale si scatenò sulla rocca: furono tuoni e lampi, rumori e luce, sussulti e grida. Il generale non fece una piega, non una: intimò ai suoi uomini di restare sul posto, di non abbandonare la posizione. Non aveva intuito che la sconfitta era imminente.
D'un tratto, però, i cavalli si animarono. Fecero largo a una sfilza di macchine di legno pesanti e minacciose, che s'appressarono alle pareti della rocca. Li vidi: caricavano legna sul cucchiaio che le dominava, poi, lentamente, le davano fuoco. Fu un istante: mille palle di fuoco traversarono il cielo, mille palle di fuoco piombarono sulla rocca. Un ariete forzò il portone d'ingresso, le nostre linee provarono a reagire, ma il sonno e la pioggia c'impedirono di rispondere. In poco tempo fummo vinti. Rividi il sangue del maiale: sgorgava ancora, ma stavolta erano i nostri soldati a versarlo. Sanguinavano, come l'animale, perché erano vivi. Sanguinavano sotto la spada degli invasori.

Erano barbari sì, ma non senza dio. Ne conoscevano uno più potente del nostro.

martedì 28 settembre 2010

Il traguardo

Il terzo scatto mi spezzò le gambe. Lo guardai correre avanti, bello contro il sole, d'un giallo che certamente era il colore degli eroi. L'altro lo seguiva, arrancava e spingeva, ma Gallego aveva proprio un'altra classe: i suoi polpacci si gonfiavano e si sgonfiavano come una rana nello stagno, le spalle dritte non lasciavano intendere il minimo cedimento, la più piccola difficoltà. Non una goccia di sudore gli segnava la fronte, non un momento di distrazione sembrava turbarlo: era lui, El Hurón,  l'uomo da battere come sempre, veloce come una scheggia a cronometro e agile come un capriolo appena la strada accennava a salire.
Io, invece, avevo finito il mio lavoro. Docile, m'ero portato in testa a Oulx e da lì avevo assecondato le curve del Sestriere fino al cartello dei tre chilometri. Diciottomila metri di sofferenza, e adesso? Adesso tutta la gloria per lui, già vedevo i giornali: la lotta eterna con Collado, gli eroi della montagna, il Tour in tre chilometri, la pietà di Gallego e il suo “grazie” alla squadra. La squadra: un'indistinta massa di pedali e muscoli, solo un po' di sudore sulla strada, le briciole dei premi e neanche un cristo a intervistarci. Non dico un Giannimura: un qualsiasi Morino. Niente.
La salita scivolava via e diventava strappo, calvario, ascesi e rovina. Sudavo la conquista di cento metri, invocavo l'acqua che non arrivava mai, persino l'ammiraglia s'era dimenticata di me. Il cuore era impazzito. Gonfio. Turbinoso. Irrefrenabile. Sulla destra della strada apparvero i tifosi: incitazioni, fastidiose pacche, certo, ma nessuno sapeva chi fossi, nel volto dei bambini non c'era scritto “da grande voglio essere te”. Nessuno sogna il sudore: si sogna la gloria. La festa, le donne, i soldi. Gli sponsor.
Pensai al contratto. Ogni anno ne strappavo uno coi denti: l'anno scorso la Coimo, quest'anno la Castelli, domani chissà. E poi, quali soldi? Anche Gallego non guadagna così tanto, nessuno ha voglia di rischiare con il ciclismo, con quest'immagine sporca di doping e terra. Gli sponsor preferiscono il sogno futurista della Formula 1, la lucente perfezione dei centometristi, la gladiatoria esuberanza dei calciatori.
E se fossi stato io Gallego? Provavo ogni giorno davanti allo specchio: “È un onore vestire questa maglia, un onore essere qui sulla cima più alta, un onore la lotta con Collado”. Bacio alla miss, autografo. Intervista. “Il momento più difficile è stato a Oulx. Per fortuna c'era la squadra”. Avrei detto anch'io così: la squadra. Se ci fossi arrivato, certo, l'avrei difesa coi denti quella briciola di superiorità. “La squadra”. Nessuno in particolare.
Arrivai al Sestriere, insomma. Una breve discesa mi si apriva davanti: minima eppure enorme, infinita, coinvolgente. Bagnata. Scivolai verso il traguardo, verso la salvezza. Assorbito dal gruppo, in mezzo a tutti gli altri. Uno qualunque. La squadra.

La vidi in quell'istante. Bellissima. Sorrideva. Sorrideva a me. Mi mancò il fiato.
- Ti cerco da sempre. Dietro le curve di ogni discesa c'eri tu, in ogni salita mi apparivi.
- Mi hai trovata. Mi seguirai?
Non ebbi il tempo di rispondere. Infarto al traguardo: che modo singolare di incontrare la Morte.

lunedì 27 settembre 2010

La Grande Madre del Mondo

“Sfranght”. No, aspetta: “Stanght”. O forse “shtenght”. Insomma, qualunque fosse il rumore, dieci chili d'acciaio mi pinzavano il collo.
Anche la versione 3.0 di Covadrix era un fallimento. Niente a che vedere con la 2.0 o con la 2.1, certo: almeno stavolta non c'era stata fuoriuscita di liquidi radioattivi, non erano stati generati organismi metallici con altissima capacità di riproduzione, ma il problema di base non era stato risolto, visto che al solo tentativo di penetrarla la Grande Madre del Mondo si difendeva come poteva. IAA, l'avevano battezzata: intelligenza artificiale antistupro. Lo stesso meccanismo che fa serrare le cosce a una vergine, che la fa urlare nei vicoli e lottare con una forza mai vista. Di acciaio, però.
Ma lo stupro era roba vecchia. Roba da preistoria. Da quando la bomba di quarta generazione era esplosa nessuno tentava più di violentare una donna. Inutile: la capacità sessuale di tutti gli abitanti del mondo era stata distrutta per sempre, il solo approccio uomo-donna era un calvario, l'attività della penetrazione stessa era stata resa altamente dolorosa. Dieci chili di metallo sul collo, in confronto, erano una manna dal cielo: niente poteva reggere il paragone con quegli spilli d'acciaio che ti fendevano il membro all'inizio dell'amplesso, niente poteva essere anche solo accostato alle lacerazioni genitali femminili provocate dagli acidi collegati all'orgasmo. Solo il sesso orale era possibile, ma, col tempo, era diventato desueto: era come se il fine ultimo dell'eros, la procreazione, si fosse riappropriato di tutti noi, rendendoci noiose pratiche un tempo piacevoli. Gli anni – e i soldi – spesi a sperimentare tecniche contraccettive, in un istante, erano stati resi inutili.
Spettava a me salvare il mondo. Rendere di nuovo possibile la procreazione usando una macchina e, certo, anche divertirmi un po'. Avevo provato a risolvere il problema disattivando il Nucleo di Controllo Erettile, ma con tutta evidenza non aveva funzionato: al momento di montarla Covadrix aveva reagito spingendomi contro una pinza d'acciaio che non sapevo esistesse, inchiodandomi al pavimento e iniziando a stringere. Fu a quel punto che mi si avvicinò Xyblon: con un bip-bip mi segnalò un'altra partenogenesi, e in un istante da lui nacquero tre esserini zompettanti, tre Xyblonini tali e quali a lui ma più piccoli. Anche questo rendeva tutto complicato: il laboratorio era ingombro di ferraglia semovente, e nella condizione in cui mi trovavo non potevo far altro che assistere impotente.
Provai a catturare uno dei tre nuovi nati. Lo afferrai per il collo, lo lanciai contro il controller di Covadrix e sperai. Sperai bene: la risposta fu una specie di miagolio metallico, un rumore simile al pianto di un bambino. La macchina, alla fine, si arrese, gemendo e urlando proprio come una donna stuprata. Cercai di zittirla in tutti i modi, di svincolarmi dal suo abbraccio di metallo. Troppo tardi: l'allarme irradiava tutto l'edificio, sirene ululanti amplificavano il grido di Covadrix, i passi dei militari invadevano il corridoio. Eccoli: gente armata di tutto punto, adesso, occupava il laboratorio metro per metro. “Anche questo non va bene”, disse uno di loro.
“Anche questo non va bene”. Ecco: un fallimento. “Anche questo non va bene”, rispose un altro. Che schifo. Avrei preferito sentire “complimenti” prima di essere disattivato.

venerdì 24 settembre 2010

Scarafaggi

- Diego, mi serve una firma.
- Non rompere, mamma, ché oggi non c'è scuola.
- Scusa?

L'ufficio è pieno di libri. Libri belli, pieni di storia. Una biblioteca enorme.
Ma questa non è la mia stanza. A pensarci io non mi chiamo neanche Diego, le mie mani non sono così grandi e la mia bocca al risveglio non sa di menta. Non è mia mamma, la bionda che mi guarda, non l'ho mai vista. Non è male, ma non so chi sia. “È l'ordinanza di chiusura al traffico del Foro Italico per la visita del papa. Una firma qui e non ci pensiamo più”, mi fa.
La guardo. Vorrei chiederle come si chiama, che ci faccio qui e perché devo decidere io sulle sorti del papa. Sto al gioco: scarabocchio un “Diego” e un cognome a caso sul foglio, mi alzo dalla poltrona marrone e mi guardo intorno. Apro la porta: una sala incantevole mi si svela, una sala col pavimento di legno e gli specchi alle pareti, fuori un giardino fresco e le papere. Non corro allo specchio, perché forse ho intuito qual è il problema. Alla fine mi guardo. Lo sapevo.
Ricapitolo: ieri sera sono tornato a casa dopo la partita, mi sono messo al computer, ho scritto su Facebook che Pastore è il mio signore e poi sono andato a dormire. Dov'è l'errore? Oggi non c'era scuola, e infatti scuola non ce n'è. Però non so come sono arrivato qui, non so se sia uno scherzo o cos'altro. Decido: è un sogno.
Scendo. “Ciao, Diego”. “Ciao”. Mi si avvicina uno: “Quindi Gianfranco è tornato”. Abbozzo: “Prima o poi doveva tornare”. “Ora che si fa?”. Già, che si fa? Non lo so neanch'io. Lo guardo interrogativo, un suggerimento arriverà. “Gli diamo le Attività produttive?”. Ma sì, diamogliele. “Oppure il Centro storico”. Già, bell'enigma: cosa dare a Gianfranco, chiunque sia? Rispondo alzando le spalle e quello sorride: ha capito chissà che.
“Vieni con me”, mi fa un altro. Lo seguo, mi porta in una stanza alta. Sono rilassato: questo sogno finirà. “Ti senti smarrito, eh?”. Annuisco? Annuisco. “Capita a tutti, di mattina”. Ma no che non capita. Prendi ieri mattina: sveglia alle sette, doccia e caffelatte, un'occhiata allo zaino e poi a scuola. Interrogazione d'italiano alla prima ora, mica c'è da essere smarriti. O meglio: certo che ero smarrito, ma mica come oggi. La Romeo mi ha dato sei e mezzo, segno che poi non è andata così male.
“Ogni mattina c'è uno come te. Cioè, al tuo posto. Domani finirà”. Ha l'alito che puzza di sigaro, ma forse sa cosa succede. “Come finirà?”. “Finirà com'è iniziata, dormendo. Ma non devi farlo mai sapere a nessuno”. Mi guarda, ammicca: mi mostra un tesserino. “Altrimenti ti finisce male”. Poi inizia, e sembra un interrogatorio:
- Come ti chiami?
- Santoro Francesco.
- Dove abiti?
- Via del Levriere.
- Età?
- 17.
- Studente?
Appunta tutto con una matita smozzicata. Faccio di sì con la testa, e intanto guardo l'agenda: è piena di pagine vissute. 
- Cosa succede?
- Succede che ogni mattina qualcuno si sveglia in quella stanza. A volte dura un paio di giorni, ma quasi sempre uno solo. Piano piano ti abituerai.
Si apre la porta. È una donna bionda, ma non quella che mi ha svegliato. È più anziana.
- Donatella ti seguirà. Ti guiderà. Fidati di lei.
Mi fiderò. Dev'essere divertente, in fondo, essere Diego Cammarata.

giovedì 23 settembre 2010

La pentola d'oro

E poi, certo, c'è Alfredo. Alfredo che ogni mattina ha il cuore rotto dal pianto custodisce un segreto meraviglioso, un segreto fatto di streghe e di elfi, di pentole d'oro e animali parlanti. Alfredo li ha visti, li ha visti tutti: di più, li nasconde ogni giorno nel suo volo di tristezza, li protegge nel buco umido che ferisce l'intonaco delle pareti della sua stanza, li osserva e li accarezza mentre il cuore si allarga e fa posto alla gioia. Alfredo li ha visti, ma nessun altro può. Ecco perché nessuno gli crede.
Il dottore dice che Alfredo è pazzo. Viene con la sua borsa carica di certezze e mai neanche per un minuto è sfiorato dal dubbio: chiede ad Alfredo di raccontare i sogni, di sfogare perplessità e frustrazioni. Chiede di mamma e di papà, di Peppe che a scuola era più bravo di tutti, di quel gol di Chalmers all'84' e di Lisbona che diventò una città di diavoli e puttane, dell'incidente di Giovanni e della malattia del nonno. E poi ogni volta, ogni santa volta, si finisce per parlare di Rosa, dei suoi capezzoli tesi, del coltello e del sangue. Lo interroga e lo giudica, il dottore, e Alfredo lo sa e si difende: “Era bella, dottore, era troppo bella”. Non lo capirà mai, lui con le sue certezze. Con la sua barba fresca di rasoio, la sua camicia pulita, i suoi trent'anni d'arroganza.
Il dottore ha una moglie, forse ha anche un figlio o due. Alfredo lo sa perché lo vede nel suo sguardo: è lo sguardo di chi possiede, di chi non elemosina attenzioni, di chi non ha mai dovuto faticare per convincere gli altri. Lo sguardo di chi si è innamorato mille volte e mille volte ha smesso, e poi un giorno ha deciso che basta, era il momento della stabilità. Nessuna pentola da cercare, nessun drago da sconfiggere: il dottore non rischia, non combatte, non dubita. Il dottore nella pentola troverebbe solo altre certezze.
Ma il dottore non lo sa che Alfredo ha un segreto. I Signori della Corte, quegli uomini ricchi di maiuscole che prima di lui l'hanno giudicato, gliel'hanno detto chiaro e tondo: gli elfi non esistono, non ci sono pentole d'oro né streghe, non si può vivere sotto terra. Da quel momento Alfredo ha smesso di raccontarlo e tutti si sono illusi che abbia dimenticato, che il suo mondo sia stato spazzato via dal drago Tavor e tutti contenti, “lo vedi, Alfredino, che stai meglio?”.
Alfredo non uscirà. “Incapace di intendere e di volere” è niente, se fai il confronto con “socialmente pericoloso”, “psicologicamente instabile”, “soggetto a rischio”. Ma Alfredo non farebbe male a nessuno, Alfredo vuole solo che qualcuno gli creda, che lo ascolti mentre racconta di elfi e di dobloni, di cunicoli e di enigmi. Ieri non è andata così: il 238, ché nessuno qui dentro ha nomi che non siano numeri, diceva che non era possibile, che Alfredo era pazzo. Lui, pazzo, lui che ha conservato un segreto per tanti anni e ha aspettato che qualcuno si fidasse.
Il tavolo adesso è rosso di sangue. Il dottore non bada a lui: pensa al 238. E no, il 238 non era bello come Rosa.

martedì 21 settembre 2010

Casa

Puzza.
Puzza di piscio, di sangue, di vomito, di umori sparsi. Di dolori, di fame, di freddo, di solitudine e malattia. Di lotta. Di rabbia e di speranza. Di buona fede, per quel che rimane, di fregatura. Di amore e d'odio, di sesso noioso e disperato, di pezzi di vita dispersa, di vecchi giocattoli e sogni rappresi. Puzza di indifferenza.
Eppure è casa. È vita, è quotidianità. È casa, meglio di ogni altra idea: è il focolare, il luogo a cui tornare sempre, da cui partire per procurarsi qualcosa da mangiare. Ogni giorno che Dio manda sulla terra: per ottenere un poco d'attenzione devo piegarmi, farmi volontà altrui, dire sì a tutti i costi. Solo per un tozzo di pane vendere l'anima, vendere me stesso. Lo faccio, giorno dopo giorno, e non conosco peccato. Non conosco vergogna. Non conosco paura, angoscia, contrizione e pianto. La felicità altrui è la mia merce, ma darla agli altri significa privarmene.
In me, però, qualcosa si muove. Mi percorre il corpo e l'anima, mi dà tormento. Mi conosce in ogni millimetro, dalla pianta dei piedi alla testa mi perlustra e m'invade, mi comanda. Per cacciarla mi torco, m'inarco, mi rodo e m'illudo. Poi da principio: mi rivolto, combatto, mi scontro e m'incanto. Non mi dannerà, non mi possedrà, mi dico: ma poi da capo comincia, mi tormenta e mi sugge.
Pulce di merda.

lunedì 20 settembre 2010

La Perrita

La strada che scorreva lungo il fiume era polverosa. Era densa di ricordi, per me: mi evocava, a un solo sguardo, la camiciola bianca di Lucía, la pesca della domenica con Miguel, le gite a Concepción per comprare churritos e mangime per polli. E poi, certo, le tette della Perrita, le erezioni giovanili, lo sguardo lieve che mi si posava addosso e mi chiedeva: “Jugamos?”. Erano, quegli amplessi di polvere e sudore, il prezzo da pagare per le settimane noiose al salone da barba: 20 mila pesos ley per dieci minuti di entusiasmo dove la strada si biforca e incontra i ciuffi di jarava, per qualche grammo di terra nei capelli, per un filo di lacrime sul viso della mia compagna dopo l'orgasmo.
Arrivai a casa di Juan che era già sera. Dona Asunción mi accolse sulla porta: indossava un vestito di stracci bianchi, i capelli grigi raccolti sulla nuca le incorniciavano il viso. Era bella, dona Asunción, ma sfiancata dal dolore: suo figlio, il mio più grande amico, sul letto grondava sudore e smaniava, imprecava Dio e il suo nemico, non reagiva alle cure. Dona Asunción pose la teiera sul fuoco, poi, quando n'ebbe ricavato qualcosa di caldo, vi sciolse le medicine che avevo portato dalla città. Appoggiò uno straccio caldo sulla fronte di Juan, lo guardò negli occhi, ne invocò una resurrezione impossibile.
Al tempo della Perrita io e Juan ci incontravamo ogni mattina. Condivideva con me un caffé lercio prima di andare a lavorare, mi dava consigli, nelle mie mattine di svaghi mi aiutava a soffiar via la terra dalla nuca. Sapeva più di me che gioia provassi, ma non c'era stata una volta, una sola volta, che avesse voluto farmi compagnia. Era, la sua famiglia, molto più povera della mia, molto più di me aveva bisogno di conservare ogni singolo peso per il futuro.
E adesso? Adesso che il futuro era arrivato, i risparmi di una vita non servivano più. Non servivano per comprare medicine, visto che medicine che potessero curare il suo male non se ne conoscevano, non servivano per permettersi lussi che dona Asunción non avrebbe voluto, non servivano neanche per il cibo, quel cibo che Juan rifiutava da giorni. Gli lanciai uno sguardo: il mio amico apriva e chiudeva la bocca, come se volesse risolversi a dirmi qualcosa. Infine si decise: cacciò un grido come mai n'ebbi a sentire più, s'alzò a tre quarti, quindi, spossato, giacque. Dona Asunción non ebbe bisogno di spiegazioni. Un pianto lieve le accarezzò il viso.
Erano diverse, quelle lacrime. Non le guardai: non potevo, non volevo vedere la Perrita invecchiata.

venerdì 17 settembre 2010

Non l'avranno

Li scoprirò. Dio mio, se li scoprirò.
So come fanno: ti sorvegliano, ti squadrano dal mattino alla sera. Poi si calano dal balcone del piano di sopra, una mano scivola sull'altra lungo la corda, e arrivano sul terrazzo. L'altra notte li ho sentiti: vaneggiavano del presidente, di un Mannlicher-Carcano calibro 6,5 con un mirino a 4 ingrandimenti, di una pensione in North Beckley Street. Storie da folli, storie inventate. Lo fanno per disorientarmi.
So cosa vogliono. Hanno cercato di prenderla in ogni modo, ma non l'avranno. Sorveglio anch'io i loro movimenti, esco solo quando sono sicuro, ma con lo sguardo fisso al sesto piano. Non la perdo mai d'occhio, quella finestra. Del resto non sono un tipo da andare in giro per la città a vagabondare: mi muovo solo per le sigarette, al limite porto il cane a pisciare sulla collinetta di Dealey Plaza e poi via, si torna. Non mi fermo neanche al drugstore: il cibo lo ordino dal messicano, quel rottinculo di Ramirez o come cazzo si chiama che vuole un dollaro per la consegna a domicilio. Lo sa il mio fegato che sacrifici mi toccano, ma non mi avranno. Non riusciranno nel loro piano.
Certo potrebbero avvelenarmi. In fondo Ramirez si compra con un nichelino, forse non è neanche a posto con l'immigrazione, Dio solo sa da dove cazzo viene, quel messicano di merda. Per questo ho il cane con me: assaggia tutto, prova per me l'acqua come il cibo. E poi caca, Dio se caca. Il capo ha ragione quando dice che non dovrei portarlo con me: se scopre un dram di merda sul pavimento quello mi indica la porta in quattro e quattr'otto, non è un tipo che si fa scrupoli. Sarebbe la fine, ovviamente.
E poi il capo dice che sono pazzo. Dice che il mio mestiere è fare la guardia a tutto l'edificio, che non gliene frega un cazzo del sesto piano e tutto il resto, che sono un fottuto paranoico e i ladri non volano. Ma quelli non sono ladri: sono spie, sono marines, sono wiseguys o qualcosa che non ho capito. La vogliono perché sanno che quest'incrocio cambierà la storia del mondo, perché c'è nell'aria un affare da milioni di dollari. Lo so bene, ma li fermerò.
La guardo, a un passo dal vuoto. La proteggo con gli occhi. Non l'avranno, questa rosa blu.